lunedì 26 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno li volge.
Gerione ha portato Dante e Virgilio nell'ottavo cerchio, detto Malebolge, dove sono puniti coloro che ingannarono chi non si fidava. Il poeta esordisce presentandoci il luogo, dicendoci che è fatto di pietra rossa ("pietra di color ferrigno") come l'altra riva che lo circonda. Il canto inizia con una descrizione della topografia del cerchio. Nel centro preciso del campo vi è un pozzo molto largo e profondo, che è il nono cerchio. Tra questo pozzo e l'alta parete che lo cinge c'è un ampio spazio circolare il cui fondo è diviso in dieci valli, sono le dieci bolge dell'ottavo cerchio ("Nel dritto mezzo del campo maligno / vaneggia un pozzo assai largo e profondo, / di cui suo loco dicerò l'ordigno. / Quel cinghio che rimane adunque è tondo / tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, / e ha distinto in dieci valli il fondo"). Le bolge circolari sono paragonate dal poeta ai fossati che cingono le mura dei castelli al fine di proteggerli, e come tali fossati sono attraversati da ponticelli che permettono di attraversarli, così quei fossi infernali sono attraversati da scogli equidistanti che consentono di scavalcarli ed arrivare al pozzo centrale. 
Scesi dalla schiena di Gerione, Virgilio e Dante riprendono il cammino. La guida si muove verso sinistra e il pellegrino lo segue a breve distanza ("e 'l poeta / tenne a sinistra, e io dietro mi mossi"). Alla sua destra (egli percorre l'argine esterno della prima bolgia) Dante nota una nuova schiera di peccatori. Ad essere puniti nella prima bolgia sono i seduttori e i ruffiani: nudi e divisi in due schiere, si muovono gli uni nella parte interna del fosso, gli altri nella parte esterna. Il poeta paragona il movimento di quel gran numero di peccatori a quello dei pellegrini giunti a Roma per il giubileo del 1300 ("come i Roman per l'essercito molto, / l'anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, / da l'altra sponda vanno verso ìl monte"). I peccatori si muovono in direzioni opposte e divisi in schiere così come i pellegrini giunti a Roma per il giubileo, allorquando si era visto un flusso di gente muoversi verso la Basilica di San Pietro e un altro, in uscita dalla stessa, verso il monte Gianicolo. I dannati sono tormentati da demoni che li frustano sulla schiena. Dante descrive i demoni come cornuti, conferendo così loro un carattere bestiale ed alterandone l'umanità. Già la prima frustata fa accelerare di colpo i dannati, nel disperato tentativo di evitare le successive ("Ahi come facean lor levar le berze / a le prime percosse! già nessuno / le seconde aspettava né le terze"). 
Camminando, Dante vede un'immagine familiare e chiede a Virgilio di potersi fermare un attimo. La guida acconsente e gli permette di tornare un po' indietro per guardarlo meglio e parlargli. Il dannato, cercando di non essere riconosciuto, evidentemente vergognandosi di quella misera condizione, abbassa lo sguardo. Il poeta però lo riconosce e gli si rivolge con un tono che sa quasi di rimprovero, con delle parole ("se le fazion che porti non son false") che sanno quasi di beffa viste che sono rivolte ad un frodatore. Dante in pratica gli dice che non ha senso nascondere lo sguardo, visto che le sue fattezze non sono "false", alludendo alla falsità delle sue azioni in vita, e per confermargli di averlo riconosciuto lo chiama per nome e cognome: Venedico Caccianemico. Riconosciutolo, il poeta gli chiede come mai sia destinato a quella terribile pena. Venedico Caccianemico fu un nobile guelfo di Bologna che convinse la sorella Ghisolabella a concedersi alle voglie di Azzo VIII d'Este, per questo Dante lo colloca tra i ruffiani. Venedico racconta la sua storia di malavoglia, dice di aver condotto sua sorella a concedersi al marchese d'Este così come narra la storia a tutti nota, però conclude il suo discorso cercando di scaricare la colpa sul luogo natìo, Bologna, affermando che in quella bolgia vi siano più bolognesi di quanti ve ne siano in città. Venedico si mostra quindi un personaggio patetico che tenta di scaricare la sua colpa sulla sua città. Il suo discorso è interrotto dalla frustata di un demonio, il quale poi lo apostrofa con durissime parole ("Via, / ruffian! qui non son femmine da conio"). La durezza dell'aguzzino sembra quasi continuare quella di Dante. Il poeta aveva prima rinfacciato la natura di frodatore a Venedico, il demone nemmeno lo chiama per nome e lo apostrofa ricordandogli il peccato commesso, inoltre gli dice che non ci sono donne da ingannare per trarne profitto. Mentre Venedico cerca disperatamente di giustificare il peccato commesso, l'infamia dello stesso gli ricade addosso senza pietà. 
Dante si ricongiunge con Virgilio e insieme salgono su uno degli scogli che funge da ponte e permette l'attraversamento della prima bolgia. Mentre sono sul punto più alto del ponte ("là dov' el vaneggia"), la guida gli dice di fermarsi e lasciarsi guardare dai seduttori, che fino ad ora non ha potuto vedere in viso perché si muovono nella direzione opposta a quella dei ruffiani. Virgilio, senza che Dante glielo chieda, gli indica uno dei dannati e gli spiega che si tratta di Giasone, l'eroe della mitologia greca. Spiega che Giasone è lì punito perché sedusse e abbandonò prima Isifile e poi Medea. L'esempio di Giasone serve alla guida per spiegare al poeta che lì sono puniti i seduttori ("con lui sen va chi da tal parte inganna; / e questo basti de la prima valle / sapere e di color che 'n sé assanna").
Dante e Virgilio arrivano alla seconda bolgia. Sente gente che si lamenta, che sembra grufolare come i maiali e si picchia con le mani ("Quindi sentimmo gente che si nicchia / ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, / e sé medesma con le palme picchia"). Le pareti della bolgia sono ricoperte da muffa e il fondo è pieno di uno sterco "che con li occhi e col naso facea zuffa", cioè che risulta disgustoso alla vista e all'olfatto. Nello sterco sono immersi i dannati lì puniti. Lo sguardo del poeta si ferma su un personaggio dal capo tanto sporco da rendere impossibile vedere se ha la tonsura sulla sommità ("E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s'era laico o chierco"). Il dannato, accorgendosi di essere osservato, protesta e chiede perché mai Dante si soffermi su di lui e non guardi anche gli altri. Il poeta gli spiega di averlo riconosciuto, è Alessio Interminei. Su questa figura abbiamo poche notizie storiche, forse si tratta di un guelfo bianco di una famiglia lucchese. La reazione del dannato è diversa da quella avuta in precedenza da Venedico: non cerca alcun tipo di giustificazione, si limita a darsi dei colpi sulla testa e ad ammettere che le tante lusinghe fatte in vita lo hanno condotto a quella terribile pena. Nonostante ammetta la propria colpa, non c'è pietà nei confronti di Alessio Interminei nei versi che lo descrivono. Presentato in forma disgustosa, col capo lordo di sterco, anche nella sua reazione è messo in ridicolo, col poeta che non scrive "battendosi il capo", ma "battendosi la zucca", disumanizzandolo ulteriormente e rendendolo quasi una caricatura. Ancor più dura è la descrizione di Taide, che Virgilio indica a Dante chiedendogli di guardarla bene. Le parole della guida che la descrivono sono durissime, la indica con aggettivi terribili (sozza, scapigliata, puttana), ne sottolinea il terribile aspetto (scapigliata, unghie merdose) e ce la mostra mentre si agita e si graffia. Taide in vita fu adulatrice ma anche seduttrice, racchiudendo in sé i difetti di Giasone e quelli tipici del lusingatore. Per acuire la gravità del peccato che essa fece in vita, Dante ce la descrive solo attraverso le parole sdegnose e quasi rabbiose di Virgilio, infatti con Taide non c'è alcun incontro e alcun dialogo. Il canto si conclude con l'ordine di Virgilio "E quinci sian le nostre viste sazie".

Francesco Abate  

domenica 18 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

<< Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza! >>
Il XVII canto si apre con le parole di Virgilio, che così presenta Gerione a Dante. Nella mitologia greca, Gerione era un re celebre per la sua crudeltà, ucciso da Ercole in una delle sue fatiche. Nella Divina Commedia è invece un mostro che rappresenta la frode, il peccato che viene punito nell'ottavo cerchio da cui risale. Virgilio ce lo mostra come un mostro con la coda simile a quella degli scorpioni, animali velenosi, che arriva ovunque ("passa i monti e rompe i muri e l'armi") e rovina il mondo intero. Nella descrizione del mostro, è chiaro il riferimento all'inganno, il peccato che esso rappresenta. La fiera emerge dal burrone in cui Virgilio ha gettato la corda che cingeva Dante, solo la coda velenosa non emerge. Ha la testa umana, la "faccia d'uom giusto", perché caratteristica della frode è quella di non essere apparente, di essere celata da una finta onestà; il corpo è invece quello di un serpente, cosparso di segni complicati (nodi e rotelle) che rappresentano i complicati raggiri di cui è capace colui che inganna. Gerione è poi fatto di tanti colori quanti non se ne trovano nei celebri drappi di seta dei Tartari e dei Turchi, nemmeno le celebri tele di Aracne (formidabile tessitrice che osò sfidare Minerva e per questo fu mutata in ragno) erano tanto variopinte. Anche la straordinaria varietà di colori del mostro richiama alla finta immagine di colui che inganna, che sa apparire bello (quindi buono) per poi colpire con il veleno mortale della frode. Per mostrarci l'atteggiamento assunto da Gerione, Dante ricorre ad una doppia metafora: lo paragona sia alle barche tenute in parte nell'acqua ed in parte a terra, sia al castoro che tiene la coda in acqua e sembra a riposo, mentre sta solo aspettando che arrivino i pesci per poi divorarli. La fiera infatti si è posata sull'orlo di pietra del burrone e sembra inoffensiva, ma tiene nascosta la coda con la punta velenosa, che agita e tiene pronta all'attacco ("Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in su la velenosa forca / ch'a guisa di scorpion la punta armava"). Virgilio a questo punto dice che bisogna deviare il cammino dalla strada seguita fino ad arrivare alla bestia. I due poeti scendono alla propria destra e percorrono dieci passi sull'orlo del burrone, così da evitare la sabbia infuocata e la pioggia di fiamme.
Arrivati vicino Gerione, Dante si accorge che ci sono delle anime sedute sulla sabbia, vicino al burrone. Virgilio, affinché abbia una visione completa del girone, lo invita ad avvicinarsi e osservare la pena a cui essi sono sottoposti, intanto dice che parlerà con Gerione affinché questi li conduca all'ottavo cerchio. La guida impone però al poeta che i suoi "ragionamenti là sian corti", infatti la categoria degli usurai è tanto spregevole da non meritare la pietà e l'attenzione che invece sono state riservate ai sodomiti e a tante altre categorie di dannati. In tal senso è interessante anche l'ubicazione degli usurai, essi sono infatti nel cerchio dei violenti, nel girone dei violenti contro Dio, però sono proprio al limite dell'ottavo cerchio, quindi il loro peccato è molto vicino alla frode. In effetti l'usuraio è violento contro Dio perché viola la natura, ma allo stesso tempo è ingannatore perché finge di vendere una speranza (il prestito) e finisce per rovinare il cliente. Dante si allontana dal maestro e contempla gli usurai, a cui il dolore esce fuori in forma di pianto. Anche loro nella pena assumono un aspetto bestiale, agitano le mani per difendersi dalla sabbia rovente e dal fuoco, a Dante sembrano i cani che agitano il muso e le zampe nel tentativo di difendersi dalle pulci, dalle mosche o dai tafani ("Per li occhi fora scoppiava lor duolo; / di qua, di là soccorrien con le mani / quando a' vapori, e quando al caldo suolo: / non altrimenti fan di state i cani / or col ceffo or col piè, quando son morsi / o da pulci o da mosche o da tafani"). Guardando in viso i dannati, Dante non riconosce nessuno, nota però che al collo di ciascuno c'è una borsa colorata con uno stemma sopra disegnato, ha inoltre l'impressione che lo sguardo degli usurai si nutra della visione di quelle borse, come fossero una consolazione. In realtà le borse, che gli usurai portavano appese alla cintura in vita, nel girone infernale servono a ricordare il motivo del supplizio a cui essi sono destinati, il colore e i disegni (gli stemmi delle casate di appartenenza) rappresentano la vanità che li ha condannati al fuoco eterno. Il poeta nota una borsa dal colore giallo con disegnato un leone azzurro: è lo stemma della famiglia Gianfigliazzi, nobili fiorentini schierati dalla parte dei guelfi Neri. Rispettando l'ordine del maestro, Dante non si sofferma troppo su questo dannato e nemmeno si preoccupa di svelarne l'identità. Osserva un'altra borsa, dal colore rosso sangue e con un'oca bianca come stemma: è il simbolo della famiglia degli Obriachi, di parte ghibellina. D'un tratto un dannato che ha la borsa bianca con disegnato una grossa scrofa azzurra, quindi un appartenente alla famiglia padovana degli Scrovegni, si rivolge a lui. La critica identifica il dannato come Reginaldo, uomo tanto avaro da aver voluto in punto di morte le chiavi del suo scrigno, nella speranza che nessuno trovasse il suo denaro. Reginaldo dice a Dante di andar via, mostrando di non gradire l'esser visto in quella condizione, ma visto che parla a un vivente è lieto di annunciargli che Vitaliano del Dente, potestà di Vicenza prima e di Padova poi, siederà alla sua sinistra. Reginaldo conferma poi di essere padovano, ma di essere in mezzo a peccatori fiorentini, e non ne può più di sentire i compagni di pena che invocano la caduta nella loro schiera del re degli usurai, colui che porterà la borsa con tre becchi. I dannati fanno riferimento a Gianni Buiamonte della famiglia dei Becchi, gonfaloniere di giustizia nel 1293 la cui famiglia aveva come stemma tre capri o tre nibbi (la critica non è unanime). Reginaldo conclude il suo discorso facendo una smorfia simile al bue che si lecca il naso con la lingua, indicando il disgusto che ha dei fiorentini che gli stanno intorno. Descrivendo la smorfia del dannato, Dante ne accentua la bestialità. ("Qui distorse la bocca di fuor trasse / la lingua, come bue che 'l naso lecchi"). Il poeta non risponde alle parole di Reginaldo, per non contrariare la sua guida decide di tornare indietro. 
Lasciatisi gli usurai alle spalle, Dante trova Virgilio in groppa a Gerione. La guida lo invita ad essere ardito ed a montare sul mostro, gli dice però di stare davanti, così potrà difenderlo dalla coda velenosa del mostro. Gerione rappresenta la frode, non ci si può quindi fidare completamente, a difendere il poeta ci pensa la saggezza che lo sta guidando in questo viaggio. Inizialmente Dante ha paura e questa si manifesta con i sintomi tipici della febbre quartana (varietà clinica della malaria): le unghie perdono il colore abituale, il corpo trema di freddo anche solo guardando ambienti bui e freschi. Alla paura però subentra la vergogna di provarla, Dante davanti alla guida diventa come il servo che cerca di apparire forte. Monta sulla bestia, vorrebbe chiedere protezione alla guida ma la voce non esce a causa dell'emozione. Virgilio comunque lo cinge e lo sostiene con le braccia. La sequenza merita di essere letta con le parole dello stesso autore:
"Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo, 
tal divenn'io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com'io credetti: << Fa che tu m'abbracce >>.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne".
Virgilio raccomanda a Gerione, così da rassicurare Dante, di scendere lentamente e compiendo giri ampi ("pensa la nova soma che tu hai"). Per descrivere il movimento del mostro, Dante riprende la similitudine delle barche che ha usato prima: come l'imbarcazione viene fatta lentamente arretrare finché non è tutta in acqua, così indietreggiando Gerione si stacca dal bordo del burrone e si libra nell'aria. A questo punto il mostro compie un mezzo giro su sé stesso e avvia la discesa. Dante nel vedersi in volo ha paura, tanta da essere paragonabile a quella di Fetonte quando perse le redini del carro del sole, o a quella di Icaro quando sentì sciogliersi la cera che teneva unite le piume delle sue ali. I due miti citati appartengono alla mitologia greca. Il primo narra del figlio di Apollo che volle guidare il carro del sole, la sua inesperienza però lo portò a perdere il controllo del mezzo, bruciando parte del cielo e formando così la via Lattea, finché Zeus non lo fulminò e lo scagliò nel fiume Eridano. Il secondo invece narra di come Dedalo, imprigionato nel labirinto da Minosse, riuscì a fuggire col figlio Icaro costruendo delle ali con piume tenute insieme usando la cera; il figlio commise però l'errore di avvicinarsi troppo al sole, così la cerca si sciolse e lui morì cadendo in mare. Gerione nuota nell'aria e scende tanto lentamente che Dante, a causa anche delle tenebre, non se ne sarebbe accorto se non fosse per l'aria che dal basso gli sferza il viso. Il poeta sente il gorgo del Flegetonte che cade nell'ottavo cerchio e si sporge a guardare verso il basso, riuscendo a scorgere il fuoco e a sentire il pianto dei dannati, così si spaventa e stringe la presa sulla groppa del mostro. Gerione scende lentamente come il falco che, stanco per il gran volo, scende senza essere stato richiamato dal falconiere e senza aver catturato alcuna preda: scende lentamente compiendo cento giri e si posa sul fondo del burrone, nell'ottavo cerchio. Dante e Virgilio smontano dalla sua groppa e lui si dilegua nelle tenebre come la freccia scoccata dall'arco ("si dileguò come da corda cocca").

Francesco Abate

domenica 11 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo
Dante e Virgilio sono ormai vicini al luogo in cui il Flegetonte cade nell'ottavo cerchio. Si sente già il rumore della cascata, un rumore simile a quello che fanno le api nell'alveare. Tre dannati si separano dalla schiera insieme a cui viaggiavano e corrono verso Dante, sempre tormentati dalla pioggia di fuoco, "la pioggia de l'aspro martiro". Le anime appartengono ancora alla schiera dei sodomiti e sono perciò puniti con l'eterna corsa sulla sabbia rovente, con fiamme che piovono dall'alto. I tre si avvicinano al poeta chiedendogli di fermarsi, dato che dall'abito lo hanno riconosciuto come loro concittadino. Dante indossa infatti il lucco, tipico abito fiorentino dell'epoca, inizialmente usato dai nobili e in seguito divenuto di uso comune. Nella richiesta i dannati fanno riferimento a Firenze come alla "nostra terra prava", sottolineandone subito la corruzione. Dante nel canto precedente ha rievocato i torti subiti a causa della sua onesta attività politica dalla città di Firenze  (per bocca del maestro Brunetto Latini), adesso torna a rimarcare il giudizio negativo attraverso questi nuovi personaggi. Il poeta subito nota sul corpo di costoro che l'hanno avvicinato delle piaghe causate dal fuoco, il loro corpo ne è coperto e ce ne sono sia di vecchie che di nuove. Ricordarsi di quei corpi martoriati nel momento in cui scrive l'opera gli provoca ancora dolore ("Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri"). Sentendo le grida dei tre sodomiti, Virgilio si ferma e dice a Dante che è giusto soddisfare la loro richiesta, aggiungendo che se non ci fosse la pioggia di fuoco, dovrebbe essere il poeta ad aver maggiore fretta di correre a parlare con loro ("a costor si vuole essere cortese. / E se non fosse il foco che saetta / la natura del loco, i' dicerei / che meglio stesse a te che a lor la fretta"). Le parole di Virgilio ci annunciano che si tratta di tre personaggi per cui Dante Alighieri, in quanto uomo politico fiorentino, deve nutrire grande rispetto. L'importanza dell'opera politica dei tre, agli occhi dell'autore, cancella l'infamia del peccato commesso nella sfera privata. I tre dannati vedono che i due poeti si sono fermati e riprendono il consueto modo di camminare, finché non gli arrivano vicino e, per non arrestare il loro movimento, iniziano a girare in tondo l'uno dietro l'altro. Dante ci descrive la scena con una metafora, paragona i tre ai lottatori che girano in tondo stando attenti a cogliere il momento giusto per afferrare l'avversario: "Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio, / prima che sien tra lor battuti e punti, / così rotando, ciascuno il visaggio / drizzava a me, sì che 'n contraro il collo / faceva ai piè continuo viaggio". Nel canto XV Brunetto Latini ha spiegato perché i sodomiti non possono arrestare la loro marcia, per la stessa ragione i tre sono costretti a girare in tondo pur di restare vicini al loro concittadino. Dei tre a parlare è Jacopo Rusticucci, che fu nominato nel 1254 procuratore del comune fiorentino per stabilire i patti con le città toscane, a cui i ghibellini distrussero la casa dopo la battaglia di Montaperti. Rusticucci prega Dante di non badare alla condizione misera in cui sono adesso, ma di ricordare la loro fama e, in forza di questa, ritenerli degni di sapere chi sia lui che da vivo cammina per l'Inferno ("Se miseria d'esto loco sollo / rende in dispetto noi e nostri prieghi, / ... e 'l tinto aspetto e brollo, / la fama nostra il tuo animo pieghi / a dirne chi tu se', che i vivi piedi / così sicuro per lo 'nferno freghi"). Fatta la preghiera, Jacopo presenta i suoi compagni e sé stesso. Davanti a lui c'è Guido Guerra, guelfo che comandò l'esercito fiorentino contro Arezzo nel 1255 e gli esuli fiorentini nella battaglia di Benevento del 1260 contro Manfredi, infatti di lui Rusticucci dice che "fece col senno assai e con la spada". Dietro invece c'è Tegghiaio Aldobrandi, podestà di Arezzo e comandante dell'esercito fiorentino nel 1260, anch'egli guelfo. Nel presentare sé stesso alla fine, Rusticucci dice che "la fiera moglie più ch'altro mi nuoce", dando quindi la colpa del suo peccato alla consorte la quale deve aver svegliato in lui un odio feroce contro le donne. Scoprendo chi sono i tre che ha di fronte, Dante sente la tentazione di gettarsi tra loro, ma la paura delle fiamme lo costringe a desistere. Il poeta è sicuro che, non ci fosse stato il pericolo del fuoco, nemmeno Virgilio avrebbe avuto da ridire qualora fosse sceso tra loro e li avesse abbracciati. Fatta questa riflessione, risponde ai tre dicendogli di non provare disgusto per la loro pena, ma solo un dolore tanto forte che per lungo tempo gli resterà dentro ("Non dispetto, ma doglia / la vostra condizion dentro mi fisse, / tanta che tardi tutta si dispoglia"). Aggiunge poi che le parole di Virgilio gli avevano fatto intuire che avrebbe incontrato personaggi di grande spessore e li lusinga dicendo che le sue attese erano state rispettate. Conclude spiegando di essere fiorentino e di conoscere le loro gesta, di essere in viaggio verso il luogo di eterna beatitudine ma di dover prima passare per il centro della Terra, dove è confitto Lucifero ("Di vostra terra sono, e sempre mai / l'ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai. / Lascio lo fele e vo per dolci pomi / promessi a me per lo verace duca; / ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi"). Sentite le parole di Dante, Rusticucci gli augura una lunga vita e che la sua fama risplenda dopo la morte, gli chiede poi se a Firenze valore e cortesia (che qui simboleggiano educazione civile e nobiltà d'animo) dimorano ancora come era ai loro tempi. La domanda del dannato nasce dalle cattive notizie udite da Guglielmo Borsiere, cavaliere e uomo di corte fiorentino, da poco morto e unitosi a loro nella pena. Dante non risponde direttamente a lui, si rivolge direttamente alla città di Firenze: "La gente nuova e i subiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni". L'analisi politica del poeta è breve ma chiara: egli vede come origine dei problemi della città la crescita smisurata delle ricchezze, che aveva richiamato gente da tutto il contado, la quale non si era mescolata a dovere con le tradizioni locali e alimentava la corruzione morale. I tre dannati capiscono la risposta di Dante, ne lodano la franchezza e gli chiedono di ricordarli alla gente quando sarà di nuovo tra i vivi, poi fuggono via di corsa.
Dante e Virgilio riprendono la marcia e si avvicinano alla cascata formata dalla discesa del Flegetonte verso l'ottavo cerchio. Il rumore delle acque è fortissimo e Dante lo descrive paragonandolo a quello del fiume Montone, presso San Benedetto dell'Alpe, nell'Appennino emiliano. Nei versi in cui spiega l'ubicazione del Montone, Dante cita il Monte Viso, che non è il Monviso ma il Monte Veso. Circa i versi "rimbomba là sovra San Benedetto / de l'Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto" esistono due interpretazioni differenti: alcuni leggono semplicemente un riferimento alla grande portata d'acqua della cascata, che fa un gran rumore perché ne raccoglie tanta che basterebbe per formarne mille; molti commentatori antichi invece ci videro una critica al monastero di San Benedetto d'Alpe, che aveva una piccola comunità formata da pochi monaci, e che invece Dante avrebbe voluto più numerosa; altri ancora lessero il termine "mille" come una variante di miles (termine latino che significa "soldati"), ritenendo quindi che il poeta volesse addirittura fortificato il monastero e difeso con un piccolo esercito. A questo punto Virgilio ordina a Dante di sciogliere la corda di cui è cinto e, una volta avutala, la getta nel burrone. Il poeta non capisce il motivo dell'azione del maestro e spera che accada presto ciò che egli aspetta, Virgilio ne intuisce il dubbio e lo rassicura dicendogli che presto verrà chi sta aspettando. Tra la meraviglia di Dante, che accresce la tensione dell'attesa giurando addirittura al lettore che è vero ciò che scrive, una figura risale il burrone nuotando come un marinaio che riemerge dopo essersi tuffato in mare per liberare l'ancora da uno scoglio. 
Dell'ultima parte del canto ha fatto molto discutere il significato simbolico della corda. Siamo quasi a metà dell'Inferno e fino ad ora Dante non aveva mai scritto di essere cinto da una corda, ciò rafforza la tesi che si tratti di un simbolo che solo in questa fase del poema acquisisce il significato voluto dall'autore. Secondo alcuni critici, che fanno riferimento alle parole "con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta", si tratta di un segno di penitenza con il quale il poeta in vita cercò di vincere la lussuria; per altri essa indica l'appartenenza di Dante al terzo ordine francescano; per altri ancora rappresenta la legge, di cui il poeta si libera perché in procinto di scendere tra i fraudolenti, che la violano di continuo. Le interpretazioni sono tante e non ce n'è una certa, quello della corda resta uno dei passi più enigmatici dell'intera opera.

Francesco Abate 
         

domenica 4 febbraio 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "CARICATURE"

Tutti noi nella vita abbiamo a che fare con persone inutili il cui unico scopo sembra quello di infastidirci. A volte è la nostra insofferenza a mostrarcele così, spesso però si incontrano persone vuote il cui unico scopo sembra davvero essere quello di dare fastidio, di creare problemi con la propria insulsaggine.
"Il mondo ne è pieno", è purtroppo un'affermazione reale. Ognuno di noi segue il proprio cammino verso la felicità, ma sulla strada si incontrano tante persone smarrite, ignare del loro scopo, che sprecano la propria esistenza a rovinare le giornate altrui. Nella poesia li descrivo come "grotteschi ammassi di nulla" e come "pupazzi che sembrano uomini".
La poesia si chiude con un consiglio, una lezione che ho imparato nel corso della mia vita: non ha senso sprecare tempo ed energie per certa gente, è meglio andare tranquilli per la propria strada. 
"A loro dedica uno sguardo veloce,
non di più,"

Potete leggere la poesia "Caricature" al link: http://spillwords.com/caricature/

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Il quindicesimo canto dell'Inferno vede i poeti ancora nel terzo girone del secondo cerchio. Essi stanno percorrendo uno degli argini di pietra del fiume di sangue, col vapore che li protegge dal fuoco che piove dall'alto. L'autore, per renderci l'immagine degli argini che contengono il fiume infernale, li paragona alle dighe dei Paesi Bassi (tra Wissant, villaggio della Fiandra occidentale, e Brugges) e agli argini che i padovani alzavano lungo il Brenta per difendersi dalle piene primaverili ("Quali fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, / temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, / fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; / e quali Padoan lungo la Brenta, / per difender lor ville e lor castelli, / anzi che Carentana il caldo senta: / a tale immagine eran fatti quelli, / tutto che né sì alti né sì grossi, / qual che si fosse, lo maestro felli"). Con il verso "qual che si fosse, lo maestro felli", Dante ci dice di non sapere se gli argini siano opera di Dio o di Lucifero. 
I poeti hanno percorso già un po' di strada, tanto che le tenebre non permetterebbero a Dante di determinare la distanza percorsa anche guardandosi indietro ("Già eravam de la selva rimossi / tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, / perch'io in dietro rivolto mi fossi"), quando si imbattono in un gruppo di anime che corrono senza sosta e li guardano come qualcosa di nuovo e sorprendente. Una delle anime riconosce Dante, lo prende per la veste è si lascia andare ad un'esclamazione di meraviglia. Il poeta osserva quel volto sfigurato dal fuoco, caratteristica sottolineata con le espressioni "lo cotto aspetto" e "'l viso abbrusciato", e riconosce con meraviglia Brunetto Latini, suo maestro di filosofia naturale. Nella domanda di Dante c'è una nota di dolorosa sorpresa ("Siete voi qui, ser Brunetto?"), trova infatti il suo maestro nella schiera dei sodomiti e ciò non può che sorprenderlo negativamente. C'è da dire che nei suoi scritti Brunetto Latini condannò fermamente la sodomia, ma evidentemente il suo allievo doveva aver avuto notizie che lo collocavano proprio tra coloro che tanto aveva censurato. Brunetto chiede a Dante di poter stare un po' con lui, questi accetta, invitandolo a sedersi con lui sull'argine del fiume qualora Virgilio sia d'accordo. Brunetto però gli spiega che qualunque anima lasci la schiera con cui corre, è condannata poi a bruciare cent'anni senza sosta sulla sabbia rovente, lo invita quindi a procedere così che gli possa stare vicino, rallentando un po' la sua marcia, per poi riunirsi al suo gruppo. Le parole di Brunetto Latini, così dolci nei confronti del suo allievo e così piene del desiderio di discorrere con lui, si concludono con un amaro richiamo all'eterna pena senza speranza a cui è destinato: "e poi rigiugnerò la mia masnada, / che va piangendo i suoi etterni danni". Dante china il capo in segno di rispetto, ma non può scendere dall'argine perché resterebbe bruciato dalla sabbia rovente. Brunetto Latini chiede a questo punto quale volontà superiore o caso ("Qual fortuna o destino") abbia portato il suo discepolo in quel girone dell'Inferno e chi sia colui che lo accompagna. Dante racconta di essersi smarrito nella selva oscura appena ieri mattina, di aver incontrato poi Virgilio che lo ha condotto lì dov'è adesso. Nel parlare dell'incontro con la guida, Dante dice che gli è apparsa, non che lo ha incontrato, questo per sottolineare la natura sovrannaturale dell'incontro. Brunetto, sentito il racconto, da esperto di astrologia quale fu gli dice che seguendo la sua stella (la costellazione dei Gemelli, sotto cui Dante nacque) non fallirà la sua ascesa verso la gloria. Gli dice anche, da buon maestro, che l'avrebbe aiutato e consigliato se non fosse morto troppo presto. Brunetto Latini aveva più di settant'anni quando si trovò ad istruire un giovane Dante, appena ventiquattrenne, non ebbe perciò il tempo di vederlo maturare sul piano letterario e su quello politico. Il vecchio maestro di Dante non si limita però a confortarlo, gli predice anche una futura sventura:
"Ma quello ingrato popolo maligno
che discese da Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra i lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico."
Annuncia a Dante che la sua rettitudine lo porterà a farsi nemico il popolo di Firenze. Il maestro con ironia dice che così è giusto, perché tra gli aspri sorbi non può dar frutto il dolce fico. Il maestro consiglia poi al discepolo di non lasciarsi corrompere dai costumi dei suoi concittadini ("dai lor costumi fa che tu ti forbi"), gli preannuncia poi come sia i guelfi bianchi che quelli neri lo vorranno distruggere ("La fortuna tua tanto onor ti serba, / che l'una parte e l'altra avranno fame / di te ..."), chiude poi il discorso in un'invettiva con cui auspica che i fiesolani facciano strage di sé stessi ma non di chi porta con sé i valori del popolo dell'antica Roma ("la sementa santa"). In tutto questo discorso quindi, Brunetto Latini predice a Dante i problemi politici che lo porteranno all'esilio. La risposta di Dante è prima di tutto una rievocazione di dolci ricordi, richiama infatti alla memoria il passato in cui Brunetto gli insegnava "come l'uom s'etterna" ed esprime al maestro tutta la sua gratitudine. Il poeta dichiara poi che ricorderà l'oscura profezia del maestro e discuterà sia di questa che di quella fatta da Farinata con Beatrice. Chiude il suo discorso accettando il destino prospettatogli da Brunetto, e prima da Farinata, dicendo di essere pronto ad accettare il corso del suo destino ("ch'a la fortuna, come vuol, son presto. / Non è nuova a li orecchi miei tal arra: / però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e 'l villan la sua marra"). Nell'ultimo verso c'è la piena accettazione dell'amaro destino e della malvagità dei suoi concittadini, il termine villan infatti può indicare l'agricoltore, che si accosta alla marra che è uno strumento agricolo, ma allo stesso tempo può indicare anche l'uomo di scarso valore. Finito questo discorso, Dante chiede a Brunetto chi siano i dannati che sono con lui. Il maestro gli dice che alcuni è bene citarli, altri è meglio lasciarli perdere: sono talmente tanti che il tempo non basterebbe a nominarli tutti. Gli spiega che sono tutti chierici e grandi letterati, tutti colpevoli del peccato di sodomia. A questo punto ne cita alcuni: Prisciano, sulla cui identità non c'è certezza, alcuni lo identificano con un vescovo eretico ed altri con un grammatico; Francesco d'Accorso, insegnante, figlio di un giureconsulto fiorentino; Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze dal 1287 al 1295, trasferito alla sede di Vicenza. Brunetto dichiara infine che parlerebbe ancora, ma vede avvicinarsi un'altra schiera di dannati a cui non deve mischiarsi. Raccomanda al suo allievo il suo Tesoro, la sua opera letteraria, in cui ancora vive, e fugge via. Brunetto scappa così velocemente da ricordare a Dante uno dei corridori che la prima domenica di Quaresima gareggiavano a Verona per vincere un drappo verde, e corre tanto veloce da essere paragonabile al vincitore ("e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde"). Nell'ultima immagine è quindi evidenziato di nuovo il castigo eterno, viene nuovamente mostrata l'anima punita e sparisce invece l'immagine del maestro che ha discusso amabilmente con l'allievo. In questa conclusione, nella constatazione della pena inflitta al suo amato maestro, si può percepire la pena provata dal poeta.

Francesco Abate