sabato 28 luglio 2018

COMMENTO AL CANTO I DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno,
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Lasciatosi alle spalle l'Inferno, il luogo della pena eterna e della disperazione, Dante arriva al secondo dei regni dell'oltretomba, il Purgatorio. A differenza del regno di Lucifero, questo è un luogo pieno di speranza, infatti le anime patiscono comunque una pena secondo il principio del contrappasso, però sanno che questa finirà e saranno ammessi al Paradiso una volta purificati. 
Dopo aver iniziato la cantica spiegandoci in pochi versi quello che ci descriverà, l'autore invoca le Muse della poesia. Il poeta ha appena finito di cantare l'Inferno e per farlo ha avuto bisogno di una poesia dura, adesso è necessario che il suo linguaggio risorga, si elevi per essere degno di descrivere le anime ben più degne che incontrerà nel Purgatorio. Per aiutarlo nella sua impresa, Dante invoca l'aiuto di Calliope, che nella mitologia greca era descritta come dotata di un'ottima voce ed era considerata l'ispiratrice della poesia epica. Il poeta, per spiegarci la magnificenza delle doti della Musa, ricorda l'episodio in cui sconfisse in una gara di canto le Piche, figlie del re di Tessaglia, che furono poi trasformate in gazze per aver osato sfidarla ("e qui Calliopè alquanto surga, / seguitando il mio canto con quel suono / di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono"). 
La visione di una magnifica alba ristora l'animo di Dante, appena uscito dalle tenebre dell'Inferno. Vede un cielo color zaffiro e sente l'aria pura. A oriente vede il pianeta Venere, che definisce "lo bel pianeta che d'amar conforta" perché omonimo della dea dell'amore della mitologia romana, così brillante da oscurare la costellazione dei Pesci a cui si accompagna nel cielo. Si gira poi verso destra e volge lo sguardo verso il polo sud della Terra, vedendo in cielo quattro stelle che solo "la prima gente" ha potuto vedere. Sul significato delle quattro stelle non ci sono dubbi: esse rappresentano le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e brillano per dare forza e conforto alle anime del Purgatorio che, prima di essere purificate, dovranno comunque scontare una lunga penitenza. Meno concordi sono le interpretazioni riguardo l'espressione "la prima gente". Quella maggiormente accettata vuole che Dante si riferisca ad Adamo ed Eva, infatti quelle stelle sono visibili solo nell'emisfero sud, in cui ci sono solo le acque, la montagna del Purgatorio e alla sua sommità il Paradiso Terrestre, quindi gli unici umani che poterono vedere da vivi quegli astri furono coloro che abitarono l'Eden. Altri commentatori hanno visto in quest'espressione una citazione per gli uomini che vissero l'età dell'oro, o ancora per gli abitanti dell'antica Roma. Al poeta sembra che il cielo goda alla vista dei quattro astri e compatisce l'emisfero settentrionale, quello delle terre emerse, che è vedovo di quelle fiammelle.
Dante distoglie la vista dalle quattro stelle e si volta verso l'altro polo, dove già l'Orsa Maggiore è tramontata, e vede un vecchio solo, con capelli e barba lunghi e bianchi. A prima vista capisce che è un uomo degno di tanta reverenza quanta un figlio non ne deve al padre ("vidi presso di me un veglio solo, / degno di tanta reverenza in vista, / che più non dèe a padre alcun figliuolo"). Le quattro stelle illuminano il suo volto tanto da far sembrare che siano i raggi solari a colpirlo ("Li raggi de le quattro luci sante / fregiavan sì la sua faccia di lume, / ch'io 'l vedea come 'l sol fosse davante"). Il vecchio in questione è Marco Porcio Catone, detto l'Uticense, celebre uomo politico romano il quale si schierò con Pompeo durante la guerra civile. Egli nel difficile periodo dello scontro tra Cesare e Pompeo cercò di far rispettare la legalità e impedire eccessi di crudeltà; quando Pompeo fu sconfitto a Tapso, provò invano a organizzare la resistenza contro Cesare nel tentativo di salvare la libertà repubblicana, quindi si uccise. Dante ce lo mostra illuminato dalle virtù cardinali perché, non solo a suo modo di vedere (molti storici latini e molti padri della Chiesa avevano sostenuto la grandezza di Catone), egli seguì le virtù morali e preferì uccidersi piuttosto che perdere la libertà. Nonostante fosse pagano e suicida, Catone non è relegato né nel Limbo né all'Inferno, il suo infatti fu sì un peccato, ma dettato da una solida morale e non da viltà o debolezza.
Visti i nuovi arrivati, Catone li accoglie subito con delle domande dirette e concatenate, in linea con l'austerità del personaggio. Prima di tutto chiede chi siano coloro che sono usciti dall'Inferno, poi vuole sapere chi li ha guidati in quel cammino insolito, infine si chiede se sono state violate le leggi infernali o se nel cielo è stata deciso un nuovo corso degli eventi ("<< Chi siete voi, che contro al cieco fiume / fuggita avete la pregione etterna? >>, / diss' el, movendo quelle oneste piume. / << Chi v'ha guidati? o che vi fu lucerna, / uscendo fuor de la profonda notte / che sempre nera fa la valle inferna? / Son le leggi d'abisso così rotte? / o è mutato in ciel novo consiglio, / che, dannati, venite a le mie grotte? >>"). Subito Virgilio induce Dante ad assumere un atteggiamento umile e a inginocchiarsi, così da evitare che il suo allievo sembri un dannato superbo che sfida le leggi divine. Fatto ciò, la guida spiega a Catone che non è uscito dall'Inferno di sua iniziativa, ma gli è stato chiesto da un'anima del Paradiso di accompagnare Dante. Gli rivela poi che il suo protetto non è morto ("non vide mai l'ultima sera"), ma per colpa dei suoi peccati è stato vicino alla morte dell'anima. Per salvarlo, dice, non c'è altro modo che percorrere la strada che stanno percorrendo, quindi gli ha fatto vedere i dannati dell'Inferno e adesso vuole mostrargli le anime del Purgatorio. Spiegare come abbia fatto a portarlo fin lì sarebbe troppo lungo, ma dall'alto ha avuto l'aiuto necessario. Spiegato a Catone come stanno le cose, Virgilio gli chiede di non opporsi e per convincerlo fa leva sul suo amore per la libertà, infatti dice che Dante cerca solo quella libertà tanto cara a chi per lei ha scelto di perdere la vita, riferendosi poi direttamente al suicidio in Utica del guardiano del secondo regno, il quale si spogliò di quel corpo che brillerà nel giorno del Giudizio Universale. Il discorso lo conclude ribadendo che non hanno violato alcuna regola divina, infatti Dante è vivo e lui non appartiene all'Inferno, ma a quel Limbo dove anche l'anima di Marzia, la moglie di Catone, è relegata: proprio in nome dell'amore per lei gli chiede di non opporsi a loro, promettendogli che porterà sue notizie all'amata. La risposta di Catone non tarda, ed è un misto della bontà dei suoi sentimenti e della sua rettitudine morale. Prima ricorda con dolcezza la moglie, che tanto amava da concederle ogni grazia, poi però ricorda che dal momento in cui Cristo lo liberò dal Limbo e sancì la sua separazione dalle anime lì rinchiuse, lei non gli interessa più. Il guardiano però non si oppone ai due pellegrini, essendo loro spinti dalle preghiere di un'anima del Paradiso, non c'è bisogno che lo preghino per continuare il viaggio. La risposta dell'Uticense ne esalta ancor di più l'animo nobile che ebbe in vita: non è estraneo ai sentimenti, ma li sottomette alla legge morale che per lui è sopra ogni cosa. L'ultima parte del suo discorso sembra quasi una lezione data sia a Virgilio che ai lettori dell'opera, egli acconsente al viaggio non perché lusingato dalle belle parole del poeta mantovano, ma semplicemente perché così deve essere: il suo vantaggio viene dopo la giustizia. Data la sua risposta, Catone indica a Virgilio un rituale di purificazione che Dante deve eseguire prima di presentarsi al cospetto del primo degli angeli che incontrerà a custodia della montagna: deve cingersi di un giunco senza nodi e lavarsi il viso dalla sporcizia di cui si è sporcato all'Inferno. Là dove le onde si infrangono sull'isola nasce un giunco dritto e flessibile, l'unica pianta che riesce a resistere all'impatto del mare. Il giunco simboleggia chiaramente l'umiltà, infatti grazie alla sua flessibilità riesce a resistere agli urti delle onde, mentre piante cariche di foglie e con fusti rigidi non riescono a sopravvivere. Perciò Dante deve cingersi di questo giunco, deve presentarsi al cospetto dell'angelo con un voto di umiltà. Catone infine dice ai due di non tornare indietro una volta concluso il rituale, seguendo la luce del sole troveranno una salita meno ripida (seguendo la grazia di Dio, si accede più facilmente alla beatitudine). 
Catone va via, Dante guarda la sua guida che lo invita a seguirlo lungo la discesa. La luce del sole inizia a rischiarare il cielo e il poeta vede in lontananza l'acqua increspata del mare. I due camminano come pellegrini che, dopo aver perduto la strada, la ritrovano e accelerano il passo. Arrivano in un luogo dove la luce del sole non riesce a far evaporare la rugiada, Virgilio stende le mani sull'erba bagnata e con quell'acqua lava le guance rigate dalle lacrime di Dante. Il pianto del poeta si spiega probabilmente con la sacralità del rito, egli è consapevole dell'importanza del momento in cui viene purificato ed è riconoscente al suo maestro. Arrivano poi nella zona deserta dove nessuno riuscì mai a navigare, Virgilio strappa un giunco e cinge Dante il quale assiste con meraviglia a un miracolo: il giunco tagliato ricresce all'istante. Il miracolo cui assiste il poeta è una metafora che ci indica come l'umiltà non sia una virtù passiva, ma una forza.

Già nel primo canto del Purgatorio è evidente la grande differenza dei versi rispetto alla prima cantica. Il linguaggio usato da Dante è meno aspro, il ritmo del canto sembra suggerire una maggiore tranquillità, le immagini sono rasserenanti e rendono l'atmosfera piacevole. Già è poi mutata l'essenza dei simboli, infatti essi non rappresentano più le miserie umane, ma servono a spiegare nel dettaglio i dogmi del Cristianesimo. Nel Purgatorio si attenua la componente umana e i sentimenti negativi come l'ira e il desiderio di vendetta spariscono, diventa molto più evidente la componente dogmatica dell'opera. Nel Paradiso la differenza sarà ancor più accentuata, infatti le rime raggiungeranno la loro massima virtù e l'opera diventerà un trattato di teologia in versi.

Francesco Abate

martedì 24 luglio 2018

ANALISI DEL RACCONTO "I MORTI" DI JAMES JOYCE

I morti è il racconto più famoso della raccolta Gente di Dublino scritta da James Joyce. 
Si tratta del racconto più lungo dell'intera opera, che la conclude e allo stesso tempo la riassume, riproponendo tra le sue righe tutti i temi già presentati dall'autore. Il titolo e il costante riferimento alla morte e ai morti non è casuale. La raccolta Gente di Dublino è fatta di racconti che possono essere divisi in quattro gruppi: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I morti potrebbe far tranquillamente parte del quarto gruppo, ma in realtà è un epilogo, l'atto conclusivo dell'esistenza umana.

Come in tutti i racconti della raccolta, I morti ha come tema centrale la paralisi culturale e umana. Joyce ci descrive la grande festa tenuta a casa delle zie del protagonista, Gabriel Conroy, in una notte d'inverno. A questa festa sono presenti diverse generazioni, si va infatti dalle anziane zie alle giovani allieve, diverse appartenenze religiose e diverse idee politiche. Nonostante la grande diversità ideologica degli invitati, non si arriva mai né a un vero confronto, né a uno scontro, le discussioni politiche e religiose vengono infatti troncate non appena iniziano a generare attriti, per il resto si canta e si balla. Gabriel è il centro della festa, addirittura tiene il discorso di ringraziamento a tavola prima della cena, la lascia quindi soddisfatto di sé, sentendosi una persona realizzata e felice. Nel tragitto verso la camera d'albergo, ripensa ai momenti belli della sua storia d'amore con la moglie, con cui conta di fare l'amore non appena arrivato. In camera però accade l'imprevisto. Gretta, sua moglie, piange al ricordo di un suo vecchio spasimante, il giovanissimo Michael Furey, che per lei si ammalò e morì. Questa rivelazione rivela a Gabriel di essere solo un'ombra nella vita della moglie, non il vero amore, e di colpo realizza quanto sia vuota la sua intera esistenza. Da questa nuova consapevolezza nasce la riflessione finale del protagonista, che si rende conto di come tutte le persone che ha visto alla festa, che sembravano così felici o così realizzate, stiano in realtà percorrendo un inesorabile viaggio "verso occidente", cioè verso la morte. 

Ne I morti, come ho già detto sopra, il tema centrale è la paralisi. In tutto il racconto nessuno fa niente, non ci sono conflitti e quelli sul punto di nascere vengono subito bloccati. Gabriel torna in albergo con brame amorose che vengono spente dalla rivelazione di Gretta. Tutto è immobile e vuoto, anche la felicità del protagonista e la sua solidità si rivelano di fatto apparenti, non è un personaggio centrale nemmeno nella vita della moglie.
Un ruolo fondamentale nelle opere di Joyce è quello dell'epifania, una rivelazione improvvisa che nasce in una persona a causa di un evento apparentemente banale e che in lei fa esplodere una nuova consapevolezza riguardo la propria esistenza. In questo racconto di epifanie ce ne sono due: la prima la vive Gretta, che vede riaffiorare nella sua mente il ricordo di Michael Furey a causa di una canzone sentita alla festa, e ricorda così colui che fu il suo vero amore; la seconda è di Gabriel, che capisce di essere solo un'ombra nell'esistenza della moglie quando questa gli racconta della storia mi Michael, arrivando poi a comprendere la vuotezza della propria e delle altrui esistenze. 

In questo racconto si mescolano di continuo il mondo dei vivi e quello dei morti. Gabriel ha come antagonista principale Michael, che è morto molti anni prima, e a causa di questo vede sgretolarsi il suo mondo di false certezze. 
La scena finale del racconto parla della neve che cade indifferentemente sui vivi e sui morti. Molti in questa immagine hanno visto una sorta di redenzione, una via di fuga dalla paralisi in cui l'essere umano è invischiato. A me dà invece un'idea di inesorabilità, essa infatti cade incessantemente, senza curarsi della condizione di chi sta coprendo sotto la propria coltre. Inoltre Gabriel percepisce questa neve mentre "sprofonda" nel suo letto, cioè mentre si sta seppellendo nella propria mediocre normalità dopo averne preso consapevolezza. Più che una speranza, in queste immagini io vedo molta rassegnazione.

Francesco Abate

lunedì 16 luglio 2018

COMMENTO AL CANTO XXXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

<< Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira >>,
disse 'l maestro mio, << se tu 'l discerni >>.
Il XXXIV canto dell'Inferno si apre con queste parole di Virgilio. Le prime tre formano il primo verso di un inno alla Croce, chiamato appunto Vexilia Regis, che la Chiesa canta nei vespri del tempo della Passione e nelle feste dell'Invenzione e dell'Esaltazione della Croce. Il poeta mantovano alle parole dell'inno aggiunge inferni, trasformando il significato da "avanzano i vessilli del re" ad "avanzano i vessilli del re dell'Inferno". I vessilli a cui si riferisce Virgilio sono le ali di Lucifero. Alcuni commentatori nel paragone tra le ali del primo angelo ribelle e le bandiere hanno visto un intento ironico, ma ciò sembrerebbe stridere con la figura drammatica del re dell'Inferno; oggi sembra aver prevalso la convinzione che l'uso dell'espressione latina presa da un canto sacro sia servita all'autore per creare il tono solenne idoneo a introdurre una figura tanto importante. Virgilio segnala a Dante che si avvicinano le ali del re dell'Inferno e lo invita a guardare davanti se riesce, infatti le tenebre sono fitte. Come quando scende la nebbia o cala la notte, il poeta riesce appena a intravedere quello che ha davanti, gli sembra un mulino che crea vento roteando le sue pale. Il vento è forte ed è costretto a ripararsi dietro la sua guida, perché ""non li era altra grotta". In un momento dove la realtà è tanto oscura da apparire incomprensibile, all'uomo non resta altro da fare che aggrapparsi alla ragione, unico vero riparo dall'errore. Si trovano adesso dove i dannati sono completamente immersi nel ghiaccio, apparendo "come festuca in vetro", somigliano cioè a un fuscello di paglia rinchiuso nel vetro. Iniziando la descrizione di questa nuova zona del Cocito, l'autore scrive che "con paura il metto in metro": sta per descrivere qualcosa di così grande da fargli nuovamente percepire l'inadeguatezza delle sue capacità umane. Sotto il ghiaccio ogni dannato è in posizione diversa ("Altre sono a giacere; altre stanno erte, / quella col capo e quella con le piante; / altra, com' arco, il volto a' piè rinverte").
Arrivati a una distanza da cui è possibile vedere Lucifero, Virgilio si scosta da Dante e gli lascia libera la visuale, dicendogli che quello è Dite e questo è il luogo dove è necessario che raccolga a sé tutta la sua forza. Il poeta viene pervaso dal terrore, una sensazione così forte e al di là dell'umana comprensione che sarebbe impossibile da spiegare. Non muore e non resta in vita, resta come in uno stato sospeso tra le due condizioni ("Com' io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, / però ch'ogne parlar sarebbe poco. / Io non mori' e non rimasi vivo; / pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, / qual io divenni, d'uno e d'altro privo"). Il corpo di Lucifero è conficcato nel ghiaccio ed è tanto grande da non essere misurabile, le sue sole braccia sono ben più grandi dei giganti. Osservandolo, il poeta si lascia andare a una considerazione: se fu tanto bello quanto ora è brutto, e se osò addirittura sfidare Dio, allora è giusto che da lui discenda ogni male. Con grande meraviglia Dante osserva che la sua testa ha tre facce: quella centrale è rossa, quella di destra è un bianco giallastro, quella di sinistra è nera. Gli studiosi si sono soffermati molto sull'interpretazione dei colori delle facce di Lucifero: per Del Lungo sono i colori degli uomini nei tre continenti allora conosciuti (Europa, Asia e Africa), quindi rappresentano la presenza nell'Inferno di anime provenienti da tutto il mondo; per Buti invece rappresentano ira, avarizia e accidia; per altri sono una contrapposizione alla Trinità divina. Le facce si uniscono al centro della testa, dove alcuni volatili hanno la cresta, e arrivano fino alla metà di ciascuna spalla. Sotto ogni faccia escono due grandi ali di pipistrello e il loro movimento genera il vento forte e freddo che gela le acque dell'intero Cocito. Lucifero piange dai suoi sei occhi e dalle sue tre bocche cola bava insanguinata, lacrime e saliva rossa si mischiano e colano. In ogni bocca c'è un peccatore che viene dilaniato. Il dannato dilaniato nella bocca centrale viene colpito anche con graffi tanto violenti da lasciargli a volte la schiena priva di pelle.
Virgilio spiega a Dante che l'anima a cui è riservata la pena peggiore appartiene a Giuda Iscariota, il quale è l'unico ad avere la testa dentro le fauci di Lucifero e le gambe fuori; gli altri due, che pendono a testa in giù dalle bocche, sono Bruto, dilaniato dalla testa nera, e Cassio, assegnato a quella giallastra. Nell'ultima zona del Cocito, chiamata Giudecca proprio in riferimento a Giuda, sono puniti i traditori dei propri benefattori. I tre dannati che vediamo nel canto però hanno fatto qualcosa di ben peggiore, qualcosa che gli vale la pena peggiore che esiste nell'universo: essi tradirono l'Impero (Bruto e Cassio, che ordirono la congiura contro Giulio Cesare) e la Chiesa (Giuda, che tradì Gesù Cristo). Essi hanno cospirato contro i pilastri dell'umanità, potere temporale e spirituale, sono per questo puniti dalla fonte stessa di ogni male del mondo, Lucifero. 
Dopo aver detto al discepolo chi siano i peccatori dilaniati da Dite, Virgilio dice che è tempo di andar via perché tutto è stato visto dell'Inferno. Dante si avvinghia al collo del maestro, il quale aspetta il momento in cui le sei ali raggiungono la massima apertura e si arrampica lungo i fianchi di Lucifero, usando i folti peli come appiglio. Arrivati dove la coscia si unisce all'anca, essendo il centro della Terra, la discesa dei pellegrini si trasforma di colpo in una risalita e Dante crede che stiano tornando indietro. Ansando a causa della forza di gravità, che in quel punto è al massimo, il maestro dice al suo allievo di tenersi forte perché è necessario andar via dall'Inferno, poi passa attraverso uno spazio creatosi tra Lucifero e la roccia, depone Dante sull'orlo dell'apertura di una grotta, infine si stacca dai peli del demonio e lo raggiunge. A questo punto il poeta vede le gambe capovolte di Lucifero, il quale è infisso nel centro della Terra, e una vista tanto diversa dello stesso mostro visto poco prima lo confonde. La sua guida però gli mette fretta e lo esorta a mettersi di nuovo in cammino, così ripartono. L'autore ci tiene a spiegare che non è un cammino paragonabile alla passeggiata in un palazzo, il suolo è infatti dissestato e non c'è luce. Dante è però confuso e chiede una spiegazione al suo maestro, chiede dove sia il lago ghiacciato, come Lucifero possa essere piantato nel terreno sottosopra e come si possa in così poco tempo essere passati dalla notte al giorno. Il maestro gli spiega che nel momento in cui sono passati dalla discesa alla salita hanno superato il centro della Terra, adesso sono in una zona dell'altro emisfero che corrisponde come posizione alla Giudecca. In questo emisfero è giorno quando nell'altro è notte e Lucifero è fisso nel terreno così come cadde dai cieli quando fu sconfitto dagli angeli fedeli a Dio. Quando fu scagliato dal Paradiso, la terra per paura si ritirò ed emerse nell'emisfero dove sono gli esseri umani, lasciando il mare al suo posto. Virgilio e Dante si incamminano e percorrono una distanza pari a quella dell'intero Inferno, seguendo il suono di un ruscello (il Lete). La frase con cui si conclude questo cammino ci dice molte cose: "E quindi uscimmo a riveder le stelle". Quando Virgilio ha esortato Dante a riprendere il cammino, gli ha detto che "già il sole a mezza terza riede", cioè che il sole è sorto già da un'ora e mezza. Essendo mattina in quell'emisfero, è improbabile che i due pellegrini abbiano visto le stelle. L'ultimo verso ci descrive il senso di liberazione provato dall'anima del poeta, passato dalla totale oscurità mista alle più svariate facce del male alla quiete di un cielo stellato. Il verso ci racconta la liberazione di un'anima in pena, immersa nelle sofferenze, che torna in uno stato di libertà e ne prova sollievo.

La figura di Lucifero domina questo canto, è la massima espressione del peccato e della degradazione che esso produce, diventa quindi quasi una sintesi di tutto quello che l'autore ci ha raccontato in questa cantica. Dante per la sua opera riprende la tradizione della grande ribellione degli angeli, guidata appunto da Lucifero, il quale osò paragonarsi a Dio e scatenò una guerra nei cieli, finendo sconfitto dall'arcangelo Michele e scagliato fuori dal Paradiso. Ci racconta Virgilio che, una volta caduto sulla terra, il suolo stesso si ritirò per non stare a contatto con lui, formando l'emisfero delle terre emerse e l'Inferno.
Il Lucifero di Dante è la massima espressione della degradazione causata dal peccato. L'angelo più bello di tutti è ridotto a un mostro con tre facce e le ali di pipistrello, confitto nel terreno a testa in giù. Dilania nelle sue tre bocche i peggiori peccatori del mondo, ma anche quest'azione è meccanica più che voluta, lui che si ribellò a Dio è adesso uno strumento della sua giustizia. La grande superbia dell'angelo ribelle è completamente mortificata, è solo un esecutore della volontà divina. Egli comprende la sua condizione e ne soffre, infatti piange dai suoi sei occhi. 
In tutta la prima cantica Dante ci ha raccontato di uomini disumanizzati, ridotti come le bestie, imprigionati per l'eternità dal peccato che li ha condannati. Lucifero è l'espressione più alta di questa condizione, la dimostrazione più evidente delle conseguenze dell'allontanamento dalla grazia divina. 

Col canto XXXIV si chiude la prima cantica della Divina Commedia. Questa è l'unica delle tre a essere composta da trentaquattro canti, le altre due ne hanno solo trentatré. La somma dei canti dell'intera opera è cento, il primo però va inteso come un'introduzione, infatti descrive la situazione morale del poeta che porta all'inizio del suo viaggio nell'oltretomba.

Francesco Abate

domenica 15 luglio 2018

RECENSIONE DE "LE AFFINITA' ELETTIVE" DI JOHANN WOLFGANG GOETHE

Pubblicato nel 1809, Le affinità elettive è, insieme a I dolori del giovane Werther, il romanzo più celebre dello scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe.
In questo romanzo vediamo l'autore portare avanti la storia così come un esperimento scientifico. In un ambiente isolato vivono in armonia due "elementi", Edward e Charlotte, i quali dopo tante vicissitudini sono riusciti a coronare la propria storia d'amore. D'un tratto sono introdotti due elementi esterni, il capitano e Ottilie, che rompono l'equilibrio. Nel corso di una chiacchierata tra i protagonisti, il capitano ed Edward illustrano a Charlotte la teoria delle affinità elettive: se a due elementi A e B si affiancano C e D, A si separa da B per unirsi a C mentre B si separa da A per unirsi a D, quindi A e C sono affini così come B e D. Nell'esperimento letterario di Goethe, Edward è tentato di separarsi da Charlotte per unirsi a Ottilie, Charlotte invece è attratta dal capitano. A differenza degli elementi chimici, però, le persone sono soggette anche a leggi morali. Si crea quindi un fortissimo contrasto tra le leggi della natura, che spingono verso la formazione delle nuove unioni, e quelle umane, che impongono il mantenimento dell'integrità del matrimonio di Edward e Charlotte. Questo contrasto non è indolore: Edward cede alla passione, ma gli eventi gli impediscono di arrivare alla nuova unione; Charlotte rinuncia al nuovo amore e lotta per tenere in piedi il matrimonio, senza però trovare collaborazione nel marito. Quando l'essere umano trova la forza per ribellarsi alla passione insana, così come succede a Ottilie dopo la tragica morte del piccolo Otto, il destino interviene e lo schiaccia nuovamente. Il conflitto tra uomo e natura finisce perciò per causare solo dolore e morte, sembra non esserci modo per uscirne felicemente.

L'opera di Goethe fu senz'altro ispirata da quella del chimico svedese Torbern Olof Bergman, che nel 1775 pubblicò la Dissertazione sulle attrazioni elettive, la quale conteneva la più completa tabella sulle affinità chimiche. Goethe credeva che fosse possibile studiare l'essere umano anche attraverso lo studio delle proprietà fisico-chimiche degli elementi, per questo tale dissertazione dovette attirare la sua attenzione.
In Le affinità elettive gli uomini sono come gli elementi chimici, soggetti ad attrazioni e repulsioni che poco hanno a che fare con il loro libero arbitrio anzi, lo stravolgono e spesso lo annullano. L'uomo è soggetto alla potenza dell'eros così come la sostanza chimica alla forza dei legami. Il romanzo presenta il contrasto tra le leggi umane e quelle naturali e ci mostra come le prime possano essere impotenti nei confronti delle seconde. Tra i protagonisti ognuno ha una reazione differente alla nuova passione. Edward si lascia travolgere e cerca di farla trionfare, arrivando addirittura a giudicare un presagio favorevole la morte del piccolo Otto, ma muore insoddisfatto; Charlotte rinuncia e prova a tenere vivo il proprio matrimonio, ma finisce per vederlo comunque rovinato; Ottilie prima accetta questo nuovo amore, poi cerca di fuggirlo, finendo però per essere perseguitata dal destino fino a morirne; il capitano mantiene un atteggiamento passivo, restando insoddisfatto. 
Il destino nel romanzo non è un elemento secondario. Quando Edward pare finalmente aver convinto Charlotte ad accettare la sua unione con Ottilie, spingendola tra le braccia del suo amato capitano, arriva la morte del piccolo Otto a rovinare i piani. Ottilie, convinta che l'evento luttuoso sia un ammonimento celeste, decide di rinunciare all'amante, ma un incontro fortuito le fa maturare la convinzione che mai potrà fuggire a questo amore così potente. La giovane decide di morire piuttosto che cedere a un sentimento che ormai ritiene sbagliato, ma il caso interviene ancora facendo morire poco tempo dopo Edward.

Le affinità elettive è un romanzo che presenta contenuti sicuramente interessanti. Goethe però, a mio modo di vedere, ha il demerito di riempirlo troppo con riflessioni personali (soprattutto di Ottilie) che appaiono poco funzionali sia alla storia che alla caratterizzazione del personaggio. Nel complesso la storia è interessante e si fa leggere, vi sono però al suo interno delle fasi un po' stagnanti che non invogliano alla lettura. Va tenuto ovviamente conto dell'intento di Goethe, cioè quello di studiare l'essere umano, ma a mio parere alcune parti potevano essere omesse.

Francesco Abate

domenica 8 luglio 2018

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto XXXIII dell'Inferno si apre con la risposta del conte Ugolino, il dannato che azzanna la testa del suo vicino, alla richiesta di Dante con cui si è chiuso il canto precedente. Nella trascrizione della vicenda del conte, l'autore raggiunge vette di altissima poesia, quindi ritengo necessario riportare integralmente i settantacinque versi che compongono la risposta del dannato e solo dopo commentarli. Credo non si possa commentare quest'opera senza dar modo ai lettori di godere appieno di uno dei suoi passi più belli e più famosi.
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: << Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò il velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io lo fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno >>.
I primi tre versi del canto sembrano descrivere una bestia che distoglie l'attenzione dalla preda che sta sbranando, il dannato infatti solleva la bocca "dal fiero pasto" e risponde alla domanda che Dante gli aveva rivolto alla fine del canto precedente. Dapprima sottolinea quanto gli faccia male raccontare la sua vicenda, tanto dolore già lo prova solo riportandola alla mente. Egli però si sforza e racconta, non per il desiderio di essere ricordato o per redimersi, semplicemente per gettare infamia sulla sua vittima. Rivela poi di aver capito dal modo di parlare che Dante viene da Firenze. Racconta di essere il conte Ugolino della Gherardesca e il suo vicino è l'arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. Questa è la seconda zona del nono cerchio, sono qui puniti i traditori politici e il conte Ugolino è vi è collocato come traditore dei ghibellini di Pisa per aver ceduto a Lucca e Firenze alcuni castelli. Il conte dice che non serve ricordare come fu catturato e ucciso, dato che è una storia nota a tutti e anche Dante, essendo fiorentino, non può ignorarla; racconterà quanto fu cruda la sua fine per permettere all'ascoltatore di dare un giudizio, come se convincendolo della crudeltà fattagli potesse rendere ancor più amara la pena per l'arcivescovo Ruggeri. Racconta che era rinchiuso già da diversi mesi nella Torre della Muda, una torre medievale di Pisa dove venivano tenute le aquile allevate dal comune durante la muta delle penne, soprannominata "torre della fame" proprio dopo la vicenda di Ugolino, quando un incubo gli anticipò gli eventi futuri. Nel sogno vide il capo della caccia e il signore ("maestro e donno") dar la caccia sul monte San Giuliano, quello che impedisce a Pisa e Lucca di vedersi, a un lupo con i suoi cuccioli. A inseguire le povere bestie c'erano tre importanti famiglie ghibelline (Gualandi, Sismondi e Lanfranchi) aiutate da cagne magre, bramose ed esperte ("studiose e conte"), e alla fine i poveri lupi finirono sbranati. Nel sogno è evidente la metafora della vicenda del conte, rappresentato dal lupo, e dei suoi figli, i cuccioli: essi sono braccati, ma l'arcivescovo (il capo della caccia) non si espose in prima persona e gli mise contro le più importanti famiglie ghibelline, queste furono poi la causa della tremenda morte del conte e dei suoi figli. Il sogno è una metafora in cui si mischia elemento irreale e animale con quello reale e umano, infatti mentre si vedono degli animali in una battuta di caccia, compaiono tre famiglie realmente esistenti della nobiltà pisana. Probabilmente questo miscelamento serve a rendere più semplice l'identificazione delle vittime (lupo e cuccioli) con personaggi umani, aumentando già da ora la tragicità dei versi. All'indomani mattina, il conte sentì i "suoi figli", intendendo con quest'espressione sia i figli che i nipoti, piangere nel sonno e implorare del cibo. Detto questo, interrompe un attimo il racconto dicendo all'ascoltatore che già solo immaginando quale presentimento ebbe in quel momento dovrebbe piangere, e se non piange, "di che pianger suoli?". Torna a raccontare: venne l'ora in cui si suole mangiare e lui sentì inchiodare l'uscio della sua cella, a quel punto guardò in faccia figli e nipoti senza dire parola, consapevole del terribile destino cui erano destinati. Non pianse (lo sottolinea spesso per spingere l'ascoltatore a comprendere il dramma che stava vivendo dentro in quel momento, dovendo nascondere la disperazione e apparire forte), piangevano però i suoi figli e Anselmo (che chiama affettuosamente Anselmuccio) gli chiese per quale motivo li guardasse in quel modo. Lui non pianse e non rivelò loro il suo presentimento, tutti tacquero per l'intero giorno e per l'intera notte, finché non venne la mattina successiva. Non appena la luce entrò nella cella, il conte poté vedere il volto dei suoi figli ormai sfigurato dalla fame, esattamente come il suo. A questo punto per il dolore prese a mordersi le mani e Anselmo, credendo lo facesse per sfamarsi, gli disse che avrebbero sofferto meno se avesse mangiato loro, chiudendo il discorso con una frase che evidenzia tutta la sua devozione per la figura paterna ("tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia"). Per non rattristarli ulteriormente, il conte tacque altri due giorni; nel ricordare questa lunga agonia, Ugolino chiede perché la terra non si aprì sotto i loro piedi. Al quarto giorno Gaddo si gettò ai suoi piedi e, ormai allo stremo, chiese al padre perché non l'aiutasse, poi morì. Quello del maggiore dei fratelli non fu un rimprovero nei confronti del padre, fu un lamento contro la terribile sorte patita. Dopo Gaddo, nei due giorni successivi, morirono anche gli altri tre. Reso ormai cieco dalla fame, per due giorni il conte brancolò sui loro corpi per riconoscerli e chiamò i loro nomi, poi la fame prese il sopravvento sul dolore e li mangiò. Finita di raccontare questa tragica vicenda, il conte azzanna il collo dell'arcivescovo con tanta forza da rompergli l'osso.
Sentito il racconto del conte Ugolino, Dante si lancia in un'invettiva contro Pisa. Non la pronuncia ad alta voce, la trascrive nei versi immediatamente successivi a quelli in cui racconta una delle pagine più nere della città. Il poeta apostrofa la città come vergogna degli italiani ("... vituperio de le genti / del bel paese là dove 'l sì suona" - l'Italia è descritta come paese in cui l'affermazione si esprime con il "sì"), poi auspica con una certa veemenza che le isole di Capraia e Gorgona chiudano la foce dell'Arno e lo facciano straripare, così che possa annegare tutti i pisani. Se il conte Ugolino aveva fama di aver tradito, scrive il poeta, non andavano puniti in modo tanto crudele i suoi figli e i suoi nipoti, i quali data la giovane età erano innocenti. Nell'invettiva Dante apostrofa Pisa come "novella Tebe", l'Inferno è infatti pieno di riferimenti mitologici a crimini orrendi avvenuti a Tebe, il poeta quindi paragona la città toscana ad una delle più corrotte dell'antichità. 
Dante e Virgilio passano nella terza zona del Cocito, dove sono puniti coloro che tradirono gli ospiti. I dannati qui hanno il viso rivolto all'insù, quindi le loro lacrime si congelano negli occhi stessi e provocano un maggior dolore. Sebbene il viso del poeta avesse perduto ogni sensibilità e non avvertisse più nulla, si accorge della presenza di un vento insistente e chiede spiegazioni a Virgilio, il quale si limita a dirgli che presto vedrà coi propri occhi da dove questo si origina. A un certo punto uno dei dannati chiede ai due di togliergli dagli occhi le lacrime ghiacciate, così che possa versarne di nuove e sfogare il proprio dolore. Nella richiesta del dannato si evidenzia un equivoco, egli infatti si rivolge ai poeti chiamandoli "O anime crudeli tanto che data v'è l'ultima posta", crede che siano due nuovi dannati destinati a quella zona dell'Inferno. Dante si offre di accontentarlo, ma solo a patto che riveli la propria identità, e per rafforzare la propria promessa auspica di essere destinato alla dannazione in quel luogo qualora dovesse venire meno al patto. Il dannato dichiara di essere Alberigo dei Manfredi (appartenente all'ordine laico dei cavalieri di Maria Vergine, fece uccidere due suoi parenti durante un pranzo a cui li aveva invitati). Adesso è punito con una pena superiore a quella che inflisse in vita ai parenti, quindi raccoglie "dattero per figo" (c'è anche un'allusione al suo crimine, egli infatti diede ai servi l'ordine di uccidere gli ospiti al momento di servire la frutta). Dante si stupisce, nell'anno in cui è ambientata la Commedia (1300) Alberigo era ancora vivo. Questi dichiara di non sapere come sia possibile che il suo corpo sia ancora nel mondo dei vivi mentre l'anima già è punita tra i morti, la Tolomea ha questo privilegio, sa però che, quando l'anima cade tra i dannati, il corpo è preso da un demonio che lo governa finché non arriva il momento stabilito per la morte. Alberigo gli rivela poi che dietro di lui giace l'anima di Branca Doria, genero di Michele Zanche (nominato nel canto XXII del poema) e suo assassino. Dante crede che sia una bugia, infatti Branca Doria era vivo nel 1300, il dannato però gli racconta che un demone si impossessò del suo corpo e di quello del congiunto che lo aiutò ben prima che Michele Zanche venisse ucciso e precipitasse tra i barattieri ("la dove bolle la tenace pece"). Finito il racconto, Alberigo invita Dante a mantenere la sua promessa e pulirgli gli occhi dalle lacrime ghiacciate, il poeta però non lo fa e giudica questa sua mancanza una cortesia nei suoi confronti. Il comportamento di Dante, che analizzato con leggerezza potrebbe sembrarci alquanto scorretto, è motivato dalla perfezione della giustizia divina: lenendo il dolore a chi patisce una pena sancita da Dio significherebbe contravvenire alla legge divina, che è perfetta. 
Il canto si conclude con un'invettiva contro i genovesi (Branca Doria fu genovese), che definisce lontani da ogni regola del bene e pieni di ogni vizio ("... uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna"). Si chiede perché non vengano sterminati e indica la vicenda di Branca Doria, già dannato benché vivente, come emblematica degli abitanti ("Ahi Genovesi, uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi? / Ché col peggiore spirito di Romagna / trovai di voi un tal, che per sua opra / in anima in Cocito già si bagna, / e in corpo par vivo ancor di sopra").

In questo canto Dante chiama la terza zona del Cocito "Tolomea". Tale nome è indicativo del peccato che lì è punito, il tradimento degli ospiti, e si riferisce probabilmente al personaggio biblico di Tolomeo, il quale fece uccidere durante un banchetto il suocero e i suoi figli. Per alcuni critici il richiamo è invece a Tolomeo d'Egitto, che fece assassinare Pompeo dopo averlo ospitato. Non è da escludere l'ipotesi secondo la quale Dante col nome Tolomea volle rifarsi a entrambe le vicende.
Una riflessione è d'obbligo sulla particolarità dei traditori puniti della Tolomea. Essi sono gli unici a patire il singolare destino di essere dannati ancor prima della morte. Tanto grave è il peccato di cui si macchiano, tradire coloro che ospitano, da rendere vana ogni possibilità di pentimento e da causare la dannazione nel momento stesso in cui è pensato. Branca Doria cade nella Tolomea prima di uccidere il suocero, quindi già il concepimento del piano omicida nel suo cuore è sufficiente a disumanizzarlo al punto tale da privarlo dell'anima: il corpo resta un involucro guidato da un demone mentre l'anima è immediatamente destinata all'eterna pena.

Francesco Abate