mercoledì 26 settembre 2018

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende;
e così da la calca si difende.
Il sesto canto del Purgatorio inizia con un paragone tra l'incedere di Dante in mezzo alla folla delle anime e quello del vincitore di un antico gioco medievale chiamato "zara". La zara era un gioco in cui i giocatori dovevano indovinare la somma che sarebbe venuta fuori dal lancio di tre dadi, prendeva il nome dalla parola che veniva detta quando il turno era annullato perché era venuta fuori una somma possibile solo con l'uscita di tre numeri uguali sui tre dadi (ad esempio 18, che si poteva ottenere solo con l'uscita di tre 6). Un po' come i giochi di carte odierni, erano favoriti coloro che mentalmente riuscivano a calcolare le probabilità di uscita di determinate somme man mano che si procedeva coi lanci; sempre come i giochi di carte dei nostri tempi, era un gioco d'azzardo e il vincitore si assicurava i soldi persi dagli altri giocatori. Dante evoca un'immagine tipica della partita di zara in una qualsiasi locanda dell'epoca: il perdente rimane immerso nei suoi pensieri, dove esamina le sue mosse per capire dove ha sbagliato, in vincitore invece esce dal locale circondato da persone che gli chiedono l'elemosina, sapendo che ha appena vinto una somma cospicua, così lui dona qualche spicciolo a quelli che lo seguono più da vicino ed esce dal locale. Così come il vincitore è circondato dalla calca dei mendicanti, Dante è circondato dalle anime che gli chiedono la grazia di essere ricordate tra i vivi affinché preghino per loro e lui procede promettendo che lo farà. Dopo averci descritto la scena, il poeta procede a un elenco delle anime che riconosce nella calca. c'è Benincasa da Caterina ("l'Aretin") , il quale fu ucciso da Ghino di Tacco, che volle punirlo per aver emesso delle condanne a morte contro alcuni suoi familiari; c'è poi Guccio dei Tarlatti, ghibellino che annegò nell'Arno durante un inseguimento; a pregarlo c'è anche Federico Novello, figlio di Guido e di una figlia di Federico II, che fu ucciso dai suoi parenti; vede poi Gano, figlio del pisano Marzucco, che fu ucciso dal conte Ugolino e fece apparire forte suo padre, che riuscì a sopportare cristianamente il dolore; c'è Orso degli Alberti di Mangona, ucciso dal cugino; c'è Pierre de la Brosse, il quale accusò giustamente la seconda moglie del re di Francia Filippo l'Ardito di aver avvelenato il figliastro Luigi al fine di favorire la salita al trono di suo figlio Filippo il Bello, ma venne impiccato perché ritenuto colpevole di tradimento (Dante auspica che la regina, "la donna di Brabante", si penta affinché non finisca nell'Inferno tra i falsi accusatori). 
Una volta liberatosi dalle anime dei morti per morte violenta, i quali pregano affinché si preghi per loro e si acceleri il loro accesso al Paradiso ("quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi / sì che s'avacci lor divenir sante"), Dante manifesta un dubbio alla sua guida. Il poeta ricorda un passo dell'Eneide in cui la Sibilla invita Palinuro, morto senza sepoltura, a desistere dal pregare gli dèi affinché cambino i loro disegni perché ciò non accadrà mai. Si chiede quindi, e manifesta tale dubbio a Virgilio, se le anime del Purgatorio preghino invano affinché si abbrevi il loro periodo di penitenza o se non ha colto qualcosa nel poema virgiliano. La guida spiega di non aver scritto il falso nella sua opera, ma allo stesso tempo le anime non pregano invano: con le preci, cioè le preghiere per le anime dei defunti, non si va ad alterare il giudizio di Dio, infatti la colpa è scontata interamente dall'anima o con la penitenza o con la carità di un vivente, quindi la soddisfazione dell'Altissimo rimane inalterata. Virgilio spiega anche che nel caso di Palinuro sarebbe stata una prece pagana, perciò inefficace, perché le preghiere servono ad accorciare la penitenza solo se nate in un cuore che è nel pieno della grazia di Dio ("... La mia scrittura è piana; / e la speranza di costor non falla, / se ben si guarda con la mente sana: / ché cima di giudicio non s'avvalla / perché foco d'amor compia in un punto / ciò che de' sodisfar chi qui si astalla; / e là dov' io fermai cotesto punto, / non s'ammendava, per pregar, difetto, / perché 'l priego da Dio era disgiunto"). Il poeta mantovano è però consapevole dell'incompletezza della sua spiegazione, quindi invita il suo discepolo a non perdere più tempo su queste riflessioni, perché in cima al monte troverà Beatrice che gli chiarirà meglio il concetto. In questi versi l'autore ci spiega come la ragione non possa comprendere appieno il dogma, per una completa comprensione di queste verità è necessario affidarsi alla teologia (Beatrice). Sentito il nome dell'amata, Dante si rianima e incita il maestro a riprendere la marcia, giacché la posizione del sole rivela che ormai è già pomeriggio; Virgilio gli annuncia che viaggeranno per tutto il giorno e per un altro ancora, il viaggio perciò è ancora lungo. 
Dopo aver spiegato a Dante la durata del viaggio, Virgilio gli fa notare un'anima che si mantiene a distanza e li guarda, così decide di farsi indicare da lei la via più veloce. L'anima li vede avvicinarsi ma non muta atteggiamento, se ne sta altera, non parla e si limita a posare su di loro lo sguardo pacato. Virgilio le chiede quale sia la migliore salita, ma questa invece di rispondere chiede di dove siano. Non appena sente che Virgilio è mantovano, gli si avvicina, si presenta come Sordello e dice di essere a sua volta di Mantova, infine i due si abbracciano.
Assistendo al mutamento dell'atteggiamento di Sordello, motivato solo dal fatto di aver ritrovato un compaesano, Dante si lascia andare ad una durissima invettiva contro l'Italia, la quale comincia con dei versi celebri che spesso troviamo citati anche sui social network:
"Ah serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!"
Il poeta stavolta non attacca una specifica città, come ha già fatto nei canti precedenti, ma l'Italia intera. La definisce ostello di dolore, è una nave senza nocchiere, cioè vaga nella storia senza una guida, non è una signora ma una prostituta. A far arrabbiare Dante è la consapevolezza che, mentre Sordello accoglie festoso Virgilio per il solo fatto che proviene dalla sua stessa terra, nella penisola i cittadini si uccidono e si fanno guerra per qualche pezzetto di terra o per il potere. L'invettiva è poi estesa al di fuori delle città, anche le zone costiere non sono libere da conflitti. Il poeta si chiede a cosa sia servita la legge di Giustiniano se poi non c'è una guida forte a farla rispettare? Avere le leggi e non usarle è una colpa ancor più grave che non averle. Si rivolge poi alla gente, dicendo che se avesse chiaro il disegno di Dio (per Dante il detentore del potere temporale è frutto della volontà divina), dovrebbe sapere che ci vorrebbe un Cesare a guidare l'Italia, invece senza un uomo a tenere con forza il potere temporale nella penisola la situazione si fa sempre peggiore. Accusa poi Alberto d'Asburgo di avere abbandonato l'Italia al proprio destino invece di riportarla sulla retta via, perciò auspica che su di lui cada il giudizio delle stelle e questo sia noto al suo successore, così che regni sapendo cosa rischia. Invita Alberto d'Asburgo a vedere come i signori italiani si fanno la guerra tra loro e come sono ridotte le varie città italiane. Lo invita a vedere Roma, che piange e invoca il suo imperatore, chiedendogli perché non la riporti all'antica gloria. Ironicamente il poeta gli dice di venire a vedere la gente quanto si ama. Dante si rivolge poi a Dio, chiedendogli se i suoi occhi sono rivolti altrove e si sia dimenticato dell'Italia. Dopo il dubbio, il poeta ritrova la sua fede e si chiede se invece sia questo un disegno imperscrutabile. Le città sono piene di tiranni e ogni villano diventa un usurpatore. L'invettiva si sposta poi dall'Italia intera a Firenze. D'apprima Dante è sarcastico e dice che Firenze può ben essere contenta di non meritare le critiche che prima ha rivolto alla penisola, poi dice che il popolo fiorentino ha la giustizia in bocca ma non l'animo per metterla in pratica. Molti rifiutano gli incarichi politici perché troppo complessi, non sentendosi all'altezza, invece i fiorentini con una colpevole leggerezza sono sempre pronti a sobbarcarseli. Il poeta poi torna sarcastico, dicendo che può essere lieta Firenze perché è ricca, pacifica e governata con intelligenza. Solone e Licurgo (i due noti legislatori di Atene e Sparta) diedero al bene pubblico un servizio trascurabile, se paragonato alle tante e articolate leggi di Firenze, che non durano un mese e mezzo ("Atene e Lacedemona, che fenno / l'antiche leggi e furon sì civili, / fecero al viver bene un picciol cenno / verso di te, che fai tanto sottili / provvedimenti, ch'a mezzo novembre / non giugne quel che tu d'ottobre fili"). Dante conclude l'invettiva paragonando i  mutamenti delle leggi fiorentine ai movimenti continui e inutili dell'inferma che non trova pace mentre è coricata sul letto.   

Il canto VI del Purgatorio è un canto politico, costruito interamente al fine di contenere l'invettiva rivolta prima all'Italia e poi a Firenze. Le anime che troviamo in questi versi sono quelle dei morti di morte violenta e tutti quelli che Dante riconosce sono morti in intrighi di palazzo o in battaglie. Il poeta ci mostra prima il male, poi ne sviscera le ragioni politiche (l'assenza di un sovrano forte e di leggi ben fatte) ed evidenzia la sofferenza del cittadino nel vedere una situazione così disastrosa.
A differenza di altri canti, i dannati sono presentati molto rapidamente e nessuno parla di sé, lo spazio è lasciato quasi tutto all'invettiva, dando a questa il suo ruolo centrale in questi versi.

Francesco Abate

domenica 23 settembre 2018

RECENSIONE DE "LA NOTTE DELLA REPUBBLICA" DI SERGIO ZAVOLI

La notte della Repubblica è la trasposizione su libro della fortunata trasmissione di Sergio Zavoli che andò in onda in 18 puntate tra il 12 dicembre 1989 e l'11 aprile 1990. La stesura del libro è stata curata dallo stesso Zavoli, presenta una struttura molto simile a quella della trasmissione, solo i dibattiti di fine puntata sono stati omessi ed è stata mantenuta esclusivamente la parte documentale, così da consentire al lettore di crearsi una propria opinione.
La scelta della foto con cui ho aperto la recensione non è casuale. La cosiddetta "notte della Repubblica" fu il periodo della storia recente in cui la democrazia italiana fu chiamata alla prova più dura. In questa celebre foto vediamo uno dei più autorevoli rappresentanti della politica, Aldo Moro, segretario della DC in procinto di formare il Governo, sequestrato dal più famoso e pericoloso gruppo sovversivo italiano, le Brigate Rosse: lo Stato tenuto in scacco dal suo peggior nemico. Il sequestro Moro fu uno dei momenti più tragici, ma anche più importanti, di quel periodo, e forse ne accelerò addirittura in qualche modo la fine.
Ne La notte della Repubblica troviamo tutti gli eventi più drammatici che segnarono la storia della seconda metà del secolo scorso: gli attentati come quello alla stazione di Bologna, lo scandalo della P2, gli omicidi politici. Il libro, riprendendo una trasmissione che fu girata quando le ferite erano ancora aperte, riesce non solo a esporre la storia e analizzarla, ma trasporta il lettore nel clima di agitazione, di rabbia, di paura e di smarrimento che si visse allora. Grazie a un lavoro di documentazione molto scrupoloso, Zavoli riesce a dare un'idea della grande galassia di gruppi terroristici fascisti e comunisti che nacquero e operarono in quegli anni, analizzando con grande cura i principali, su tutti le Brigate Rosse.
Leggendo il libro di Zavoli, il lettore ha un quadro completo e dettagliato degli eventi e del clima politico-sociale in cui si svolsero. Sono riportate nelle pagine che lo compongono anche le interviste che vennero realizzate, così il lettore può entrare in diretto contatto col punto di vista di vittime e carnefici, capirne le ragioni anche al di là delle semplici questioni politiche. Considero questo libro una lettura indispensabile, permette infatti di conoscere meglio una fase della nostra storia evitando le banalizzazioni e le faziosità a cui oggi la sua lettura è soggetta.
Leggere La notte della Repubblica, in special modo le interviste realizzate ai terroristi, non permette solo di conoscere la storia, ma anche di osservare un particolare meccanismo che scattò nella mente di chi uccise o ferì in nome di un ideale. Leggendo le parole dei terroristi, diventa chiaro come l'appassionata e totale adesione all'ideale politico spinse molte persone a vedere la realtà in modo distorto, essi infatti videro nei loro atti violenti una rivoluzione, pur non avendo alle spalle un popolo che li appoggiasse, inoltre smisero di considerare le loro vittime come persone, erano solo nemici meritevoli di morte, cessarono di vederli come esseri umani con famiglie e sentimenti. L'inquietudine morale e politica del tempo attecchì tanto in coloro che scelsero di vivere in clandestinità e uccidere da spingerli in una realtà parallela assolutamente priva di fondamento. Combattevano una rivoluzione che vedevano solo loro e sostituivano il ruolo politico all'umanità. Da questo punto di vista, il libro offre anche notevoli spunti di natura psicologica e sociologica.
Il periodo storico abbracciato dal libro va dal Sessantotto, fatto di movimenti turbolenti ma di natura pacifica, al fenomeno del pentitismo, che portò alla fine del terrorismo. In mezzo è documentata una lunghissima scia di dolore e sangue, nata dall'obiettivo dichiarato di sovvertire lo Stato democratico così com'era allora strutturato. Si vede come lo Stato fu per molto tempo incapace di gestire il fenomeno del terrorismo, così come era stato incapace di cogliere i mutamenti sociali e ideologici in seno alla società, come i servizi segreti deviati addirittura depistarono le indagini su alcuni attentati, fino alla risposta finale che decretò la vittoria della democrazia sui terroristi. Essendo un'opera giornalistica, destinata quindi a un pubblico ampio, l'argomento è trattato con tanta semplicità quanta completezza, non è necessario possedere importanti rudimenti di storia per riuscire a seguirlo.

Dopo aver terminato la lettura di un libro, mi chiedo sempre se sia valsa la pena leggerlo. I giorni passati a leggere La notte della Repubblica sono stati tra quelli meglio spesi della mia vita di lettore, mi hanno permesso infatti di orientarmi meglio in un argomento appassionante e scottante, di cui in genere si parla tanto pur sapendo poco e male, di cui oggi ognuno dissotterra solo ciò che sente conveniente. Zavoli mi ha insegnato che il terrorismo fu un fatto molto complesso, non sintetizzabile con etichette come "esaltati comunisti" o "fascisti violenti", fu in realtà un black out dell'umanità di un gran numero di persone, le quali provarono a trasformare in guerra quel che nel paese reale era solo un confronto democratico, seppur molto aspro. Il libro spiega anche come sia ingiusto addossare la colpa del terrorismo alla sinistra parlamentare e ai sindacati, che ne presero le distanze e furono essi stessi vittima delle BR (non dimentichiamo Guido Rossa), e come in generale sia riduttivo associarlo a una sola fazione politica. Fortunatamente mostra anche come una democrazia, rimanendo saldamente ancorata ai suoi valori costituzionali, possa sviluppare gli anticorpi contro certe ideologie distruttive e ridurle a un brutto ricordo.

Francesco Abate

martedì 18 settembre 2018

COMMENTO AL CANTO V DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Io era già da quell'ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito,
una gridò: << Ve' che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca! >>.
Dante si è già separato dalle anime e segue il cammino di Virgilio, d'un tratto è distratto da una di esse che, vedendo i raggi del sole che non lo attraversano, urla il proprio stupore. Lui si volta e le vede tutte cariche di meraviglia; interviene però Virgilio, il quale lo rimprovera aspramente. La guida gli chiede perché mai si lasci tanto distrarre dalle chiacchiere altrui, lo invita a ignorarle come fa la torre che non crolla a causa del vento, infine gli spiega che quando l'uomo lascia sovrapporre tra loro più pensieri, finisce per rimandare i propri proponimenti e diventare inconcludente ("Vien dietro a me, e lascia dir le genti: / sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti; / ché sempre l'omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l'un de l'altro insolla"). Dante arrossisce, mostrando così di essere sinceramente pentito della propria negligenza, e lo segue. L'asprezza del rimprovero di Virgilio si spiega col senso di colpa che ha provato quando Catone, indirettamente, l'ha rimproverato per essersi fermato con Dante a sentire il canto di Casella. Il poeta mantovano ha capito la lezione, il raggiungimento dell'eterna beatitudine è l'unico obiettivo su cui si debba concentrare, deve perciò resistere a tutte le tentazioni dell'animo umano.
Lungo la costa che incrocia il cammino dei pellegrini, si imbattono in un gruppo di anime che canta il Miserere, il salmo della penitenza. Quando le anime vedono che i raggi del sole non attraversano il corpo di Dante, interrompono il loro canto e producono un "oh!" di stupore, poi due di loro si avvicinano e chiedono spiegazioni riguardo alla natura del poeta. Virgilio spiega loro che il suo compagno di viaggio è vivo e, se si rivolgeranno a lui con cortesia, potrà fare in modo che tra i vivi si rivolgano preghiere per loro. Sentite queste parole, le anime si avvicinano al poeta con una rapidità superiore a quella delle stelle cadenti o dei lampi nelle nubi d'agosto. Dante usa queste due similitudini perché, ai suoi tempi, sia i lampi che le stelle cadenti erano giudicate effetto dell'accensione dei vapori. Tutte si avvicinano a Dante, Virgilio lo invita ad ascoltarle senza arrestare il proprio cammino. Le anime lo invitano a fermarsi e a guardare se c'è tra loro qualcuno che conosca; gli spiegano poi che furono negligenti pentitisi in punto di morte. Il poeta gli risponde che non conosce nessuno di loro, ma li invita a raccontargli le loro storie così che possa farle conoscere, così da guadagnarsi quella beatitudine che come loro sta cercando. 
Dal coro delle anime se ne separa una, quella di Jacopo del Cassero, di Fano, che fu podestà di Bologna e di Milano. Gli dice che si fida di Dante e non c'è bisogno che giuri di portare le sue notizie tra i vivi. Gli chiede di far pregare per lui la gente di Fano, sua città natale, qualora dovesse riuscire a vedere la Marca Anconetana, posta tra la Romagna e il Regno di Napoli governato da Carlo II d'Angiò ("... se mai vedi quel paese / che siede tra Romagna e quel di Carlo..."), così che possa purificare la sua anima. Ricorda che fu di Fano, ma la morte la trovò nella zona di Padova, città che la tradizione vuole fondata da Antenore, là dove credeva di essere al sicuro. Fu Azzo VIII d'Este a farlo uccidere, ma Jacopo sostiene che provava nei suoi confronti più rancore di quanto dovesse: in pratica sentiva di avere delle colpe nei confronti del duca, ma non erano tanto gravi da giustificare l'omicidio. Immagina poi che se si fosse rifugiato a Mira, un borgo tra Padova e Oriago, sarebbe ancora vivo. Ferito a morte, scappò nella palude e cadde nel fango, dove vide il sangue spandersi dalle sue ferite. Nonostante sia pentito delle sue malefatte e stia percorrendo il cammino verso la beatitudine eterna, Jacopo del Cassero prova ancora dolore per la sua morte prematura e rivive nella mente ancora gli ultimi drammatici istanti della sua esistenza terrena. ("Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, / quando fu' sovraggiunto ad Oriaco, / ancor sarei là dove si spira. / Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco / m'impigliar sì, ch'i' caddi; e lì vid'io / de le mie vene farsi in terra laco").
Subito un'altra anima si fa avanti e prega Dante, qualora la bontà divina lo porti a terminare con successo il proprio viaggio, di portare nel mondo il suo ricordo. Si tratta di Buonconte di Montefeltro, figlio di Guido, che guidò l'esercito di Arezzo contro Firenze nella battaglia di Campaldino e lì trovò la morte. Si lamenta del fatto che la moglie Giovanna non preghi per lui, lasciandolo solo nel suo cammino di redenzione. Dante chiede a Buonconte cosa accadde al suo corpo, che mai fu ritrovato dopo la battaglia: quale forza umana o divina ne impedì il ritrovamento? Buonconte racconta che ai piedi del Casentino c'è il torrente Archiano. Là dove l'Archiano si getta nell'Arno ("Là 've il vocabol suo diventa vano") arrivò ferito gravemente alla gola e fuggendo a piedi. Nel momento in cui la vista si appannò e la parola morì, gli venne in mente l'Ave Maria e morì recitandola. Quello che accadde dopo è così stupefacente che raccomanda a Dante di riportarlo ai vivi: l'angelo di Dio prese la sua anima mentre un angelo dell'Inferno, che invano la reclamava, decise di infierire sul corpo senza vita e scatenò un temporale così violento che fece esondare il fiume, così le acque sciolsero la croce che con le braccia Buonconte si era formata sul petto e trascinarono il corpo sul fondo dell'Arno ("Quivi perdei la vista, e la parola; / nel nome di Maria finì; e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola. / Io dirò vero, e tu 'l ridì tra ' vivi: / l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno / gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l'etterno / per una lagrimetta che 'l mi toglie; / ma io farò de l'altro altro governo!". / ... / Lo corpo mio gelato in su la foce / trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse / ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce / ch'i' fe' di me, quando 'l dolor mi vinse; / voltommi per le ripe e per lo fondo, / poi di sua preda mi coperse e cinse "). Le parole di Buonconte sostengono la teoria del potere demoniaco sui fenomeni atmosferici, il male scatena la tempesta al solo fine di far sparire il corpo di Buonconte, come per renderne meno dolce la salvezza ottenuta in punto di morte. Nell'immagine del demonio che porta invano le proprie rimostranze all'angelo, vi è anche a mio parere una fotografia dell'impotenza del male contro la misericordia divina. Il male può agire sul corpo e farne strazio, ma quella preghiera fatta in punto di morte basta a privarlo di ogni potere sulla parte più importante dell'essere umano, cioè l'anima. Inoltre si può dedurre dall'immagine che il corpo è inesorabilmente destinato a subire le azioni del male, non ha scampo, è l'anima l'unica parte dell'uomo che può fuggirlo.
L'ultima anima che si rivolge a Dante è Pia de' Tolomei. Con molta delicatezza, chiede al poeta di ricordarsi di lei quando avrà finito il suo viaggio e si sarà riposato. Si presenta, dice di essere nata a Siena e morta in Maremma, poi accenna appena alla sua storia. Di Pia de' Tolomei non sappiamo molto di più rispetto a ciò che ci racconta Dante, le cronache dicono soltanto che a causare la sua morte fu la gelosia del marito o la sua volontà di sposare un'altra donna. Lei però non accusa direttamente il consorte, semplicemente allude al fatto che lui sa che lei morì violentemente in Maremma.

Il canto V è incentrato principalmente sulle storie delle anime che Dante incontra. Jacopo e Buonconte sono avversari politici, hanno combattuto la stessa battaglia e hanno fatto una fine tremenda. Sono ancora fortemente legati alla propria vita terrena, la cui tragica fine ricordano con dolore e sentono il bisogno di condividere. La redenzione che arriva attraverso il pentimento qui trascende la politica, le ideologie opposte non cambiano l'immagine dell'anima agli occhi di Dio.
La figura di Pia, nella sua diversità, dà un tocco dolce al canto. Ci viene presentata una donna mite e delicata, che parla senza però voler caricare l'interlocutore di alcuna responsabilità, non vuole pesare. Le sue poche parole non servono a raccontare quanto cruenta fu la sua fine o il suo pentimento, lei ricorda suo marito e le sue nozze. Nonostante sia lui il suo assassino, nemmeno lo accusa direttamente, ma fa solo un'allusione velata alla vicenda. Anche Pia è legata ancora alla sua vita terrena finita prematuramente, ma non concentra i suoi pensieri sul momento della morte, bensì su quelli d'amore, e si esprime con una delicatezza che quasi cancella l'asprezza dei versi precedenti. Non a caso la figura di Pia, arricchita di elementi romanzeschi, ebbe molta fortuna nel Romanticismo.
In questo canto, dove abbiamo letto di tre morti violente, vediamo chiaramente una delle grandi differenze tra l'Inferno e il Purgatorio. Nella prima cantica i morti di morte violenta esprimevano un aspro rancore nei confronti dell'assassino, manifestando l'umana tendenza alla vendetta e augurandogli spesso una dannazione peggiore della loro. In questo canto del Purgatorio invece le vittime accennano appena ai loro assassini, pur in alcuni casi descrivendo nei dettagli la loro morte. Non c'è l'auspicio che l'assassino patisca una sorte peggiore, non ci sono parole di vendetta. Lo stato delle anime del Purgatorio è quello di chi vede la beatitudine, non c'è spazio in loro per il risentimento.

Francesco Abate


domenica 9 settembre 2018

COMMENTO AL CANTO IV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
l'anima bene ad essa si raccoglie,
par ch'a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch'un' anima sovr'altra in noi s'accenda.
E però, quando s'ode cosa o vede
che tegna forte a sé l'anima volta,
vassene il tempo e l'uom non se n'avvede;
ch'altra potenza è quella che l'ascolta,
e altra è quella c'ha l'anima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.
Tutto preso dalle parole di Manfredi, Dante non si accorge più del passare del tempo. Nei suoi versi il poeta, per descriverci questa mancata percezione, riporta e smentisce il pensiero dei neoplatonici secondo cui l'essere umano ha più anime. Il poeta dice infatti che per una ragione particolare una delle facoltà dell'animo umano (che sono: vegetativa, sensitiva e razionale) può essere così presa da annullare le altre due, ma non c'è affatto la manifestazione di un'altra anima, come viene sostenuto dai neoplatonici. Lui è in questo stato, preso dalle parole di Manfredi, e perde completamente la percezione del tempo che passa. Si rende conto che il sole è salito di ben cinquanta gradi, quindi sono passate tre ore e venti minuti dall'alba (il sole sale di quindi gradi ogni ora). Non appena la schiera delle anime gli indica il sentiero e si allontana, Virgilio si incammina lungo un sentiero più stretto del varco della siepe che il contadino richiude con una piccola forca di pruni per difendere l'uva, seguito da Dante. Il poeta, che a causa dell'esilio ha percorso alcune delle alture più scoscese d'Italia, ci fa capire quanto arduo sia il percorso dicendo che per l'uomo sarebbe bene poter volare per percorrere quel sentiero, invece lui lo scala e segue il maestro che lo guida. I due salgono per una viuzza stretta scavata nella roccia, poi si trovano allo scoperto. La via è ardua, come quella della penitenza che porta alla virtù: quest dura salita è quindi tutta una metafora. Dante chiede al maestro che via seguiranno e questi gli raccomanda di non sbagliare alcun passo e di seguirlo finché non apparirà una nuova guida. Il poeta vede come l'altezza del monte sia tale da renderne invisibile la sommità, mentre la pendenza supera i quarantacinque gradi. Stanco, chiede al maestro di guardarlo, convinto che resterà indietro e solo se questi non si fermerà un poco. Virgilio lo esorta a tirarsi su un ripiano del pendio, così i due si mettono seduti e Dante può guardare la salita percorsa, quella vista che dà gioia allo scalatore ("A seder ci ponemmo ivi ambedui / volti a levante ond' eravam saliti, / che suole a riguardar giovare altrui"). Seduto, il poeta prima guarda in basso, poi volge lo sguardo verso il sole e nota che si trova alla sua sinistra. Virgilio si accorge che il suo allievo ha colto questa stranezza e gli dice di immaginare come Gerusalemme sia esattamente agli antipodi della montagna del Purgatorio: quando nell'altro emisfero il sole viaggia verso nord, in questo si muove verso sud ("Ben s'avvide il poeta ch'io stava / stupido tutto al carro de la luce, / ove tra noi e Aquilone intrava. / Ond'elli a me: << Se Castore e Polluce / fossero in compagnia di quello specchio / che su e giù del suo lume conduce, / tu vedresti il Zodiaco rubecchio / ancora a l'Orse più stretto rotare, / se non uscisse fuor del cammin vecchio. / Come ciò sia, se 'l vuò' poter pensare, / dentro raccolto, imagina Siòn / con questo monte in su la terra stare / sì, ch'amedue hanno un solo orizzòn / e diversi emisperi; onde la strada / che mal non seppe carreggiar Fetòn, / vedrai come a costui convien che vada / da l'un, quando a colui da l'altro fianco, / se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada >>"). Dante mostra di aver capito, aggiungendo che l'equatore è tanto distante dal Purgatorio (circa 32° a sud del Tropico del Capricorno) quanto da Gerusalemme (32° a nord del Tropico del Cancro), poi chiede al maestro di dirgli quanto dovranno ancora salire, infatti la montagna è così alta che non ne vede la fine. Il maestro gli spiega che questa montagna è durissima da scalare per chi parte dal basso, ma più si va su e meno diventa faticosa da risalire, e arriverà un momento in cui salire sarà leggero come navigare seguendo la corrente: in quel momento sarà alla fine della scalata e potrà liberarsi dai suoi affanni. Quello che accadrà dopo non può dirglielo perché non lo sa. 
Virgilio ha appena terminato di esortare Dante a riprendere la sua fatica fisica e morale, quando una voce, quasi a volerlo contrastare, gli dice che forse prima dovrebbero starsene seduti e riposare. I due si girano in direzione della voce e scorgono una gran pietra di cui non s'erano accorti, dietro la quale ci sono delle persone sedute. Una di loro, che sembra stanca, siede e tiene le ginocchia tra le braccia, tenendo il viso tra le ginocchia. Visto quest'uomo, Dante dice al suo maestro, con tono palesemente ironico, di guardare uno che sembra fratello della pigrizia. L'anima risponde a tono, invitando lui a scalare la montagna, visto che è valente, ma lo fa senza nemmeno girare il viso, come se anche il leggero movimento della testa gli costasse troppa fatica ("<< O dolce segnor mio >> diss'io, << adocchia / colui che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia. >> / Allor si volse a noi, e puose mente, / movendo 'l viso pur su per la coscia, / e disse: << Or va tu su, che se' valente! >>"). Dante riconosce dalla voce e dalla pigrizia Belacqua, un fabbricatore di liuti e chitarre fiorentino famoso per la sua pigrizia. Nonostante sia ancora stanco della scalata gli si avvicina di più. Belacqua alza la testa e gli chiede se ha visto che il sole segue il cammino inverso rispetto al mondo dei vivi. C'è da notare che nella sua domanda non c'è la voglia di apprendere che troviamo nei discorsi tra Dante e Virgilio, è da vedere un po' come le considerazioni che si fanno sul clima quando si incontra qualcuno e non si sa cosa dire. Il poeta, ricordando la sua pigrizia, sorride a quelle brevi frasi e alla sua manifesta voglia di non muoversi, mostra di averlo riconosciuto, dice di non temere più adesso per la sua sorte (sa che non è dannato) e gli chiede se stia aspettando che qualcuno lo accompagni o se sia stato ripreso dalla sua antica pigrizia. Belacqua gli spiega che non avrebbe senso per lui salire, infatti l'angelo che presidia la porta del Purgatorio non lo lascerebbe entrare perché ai negligenti che si pentirono solo al termine della vita spetta stare nell'antipurgatorio tanto tempo quanto ne vissero nell'impenitenza; solo le preghiere per la sua anima potrebbero abbreviare la sua attesa. Il loro dialogo è interrotto da Virgilio, il quale esorta Dante a riprendere il cammino perché la notte sta già per coprire il Marocco.

Questo canto, se si eccettua la parentesi di Belacqua e la sua spiegazione circa la penitenza dei negligenti, è contraddistinto dalle indicazioni astronomiche. In questi versi il poeta ci descrive il movimento del sole nell'emisfero dov'è il monte del Purgatorio, così facendo spiega con precisione la forma della Terra. Il canto inizia con le considerazioni sul movimento del sole nell'emisfero del Purgatorio, con diverse indicazioni astronomiche, e termina con qualcosa di simile quando Virgilio dice che "cuopre la notte già col piè Morrocco". 
Altro elemento che rende importante questo canto è la spiegazione del cammino lungo la montagna. Virgilio spiega a Dante che la salita sarà sempre meno ripida man mano che si sale, finché non diventerà simile al navigare lungo la corrente. Non si tratta di un semplice incoraggiamento, viene accennato come la penitenza patita dalle anime sarà più lieve man mano che esse saliranno e che patiranno di più coloro che partono dall'antipurgatorio. Virgilio anticipa anche che, giunto al Paradiso Terrestre, non potrà più essere la guida di Dante. 

Francesco Abate

venerdì 7 settembre 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "CANTO DEL LUPO SOLITARIO"

Un lupo solitario nella notte buia
ulula il suo canto a una luna sorda
che sorride incurante del suo dolore
perché chi vive troppo in alto
non vede le lacrime scendere.
Canto del lupo solitario è una poesia che pubblicai sul sito Spillwords.com il 27 marzo 2018 e parla della solitudine. 
"...la mia strada è troppo fuori mano / per chi non ha voglia di camminare", quando chi ci sta accanto non è disposto a sforzarsi, non può comprendere e curare i malanni della nostra anima. 
Tante sono le promesse che facciamo e riceviamo nella nostra vita, ci accarezzano le orecchie e ci donano speranza, ma spesso accade che "Le dolci promesse di anni fa / sono volate via nel vento / e non c'è modo che ritornino / perché leggere come foglie secche". Molte promesse suonano bene, ma non hanno consistenza e sono irreali, così finiscono per donarci solo un rimpianto. Travolti dalla solitudine, finiamo quindi per sentirci abbattuti ("il cielo mi cade pesante sulle spalle") e demoralizzati ("Il freddo mi ghiaccia l'anima ferita"), finendo in un circolo vizioso, perché nessuno arriva in nostro soccorso dato che "...chi vive troppo in alto / non sente il pianto nel vento".

Qualora voleste leggere la mia poesia, la troverete al link http://spillwords.com/canto-del-lupo-solitario/. Buona lettura.

Francesco Abate

domenica 2 settembre 2018

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi strinsi a la fida compagna:
e come sare'io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?
Il terzo canto del Purgatorio si apre con Dante che, guardando le anime disperdersi in varie direzioni verso il Purgatorio a seguito del rimprovero di Catone, si stringe alla sua guida e si chiede come avrebbe fatto a correre verso il monte senza di lui. La corsa delle anime è infatti priva di riflessione, esse si sono abbandonate a un piacere umano e sono state richiamate dalla ragione, rappresentata da Catone, a correre verso il monte della giustizia, cioè la montagna del Purgatorio. La visione di questa corsa disordinata e istintiva verso un bene superiore, indotta da una ragione esterna, intenerisce l'animo del poeta, il quale si aggrappa all'uomo che per lui rappresenta la ragione, cioè Virgilio, e si chiede senza di lui come avrebbe fatto a giungere alla beatitudine. Il canto inizia quindi con un elogio della ragione umana, che può fungere da guida verso il bene supremo. Dal canto suo Virgilio si sente in colpa, rendendosi conto che il rimprovero di Catone era rivolto indirettamente anche a lui, colpevole di essersi lasciato distrarre dal canto di Casella e aver temporaneamente dimenticato la sua funzione di guida. Constata Dante il peso che ha sull'animo buono anche il più piccolo errore ("o dignitosa coscienza e netta, / come t'è picciol fallo amaro morso!"). Nel momento in cui la guida riprende a camminare senza fretta, la quale toglie decoro a ogni atto, la mente di Dante inizia a concentrarsi su altre cose e lui alza gli occhi a osservare il monte del Purgatorio che si erge dall'oceano. Si accorge dell'ombra che il suo corpo proietta a causa del sole che splende alle sue spalle, ma vedendone una sola si spaventa e si volta, temendo che il maestro l'abbia abbandonato. Virgilio gli chiede perché mai abbia ancora dubbi e come mai ancora abbia paura di esser da lui abbandonato. Gli spiega quindi che il suo corpo mortale, che proiettava ombra, è sepolto a Napoli e perse la vita a Brindisi; lo invita a non meravigliarsi del fatto che la sua immagine adesso non proietti ombra, l'anima è come i cieli, i quali brillano di luce propria senza intercettare però quella degli altri. Nonostante l'anima non proietti ombra, spiega ancora, essa prova sensazioni uguali a quelle del corpo, e questo la somma virtù non spiega come sia possibile. Virgilio dà poi del matto a chi pensa di spiegare le verità celesti solo attraverso la ragione umana, dicendo che se fosse stato possibile non sarebbe stata necessaria la Reincarnazione, e i filosofi conoscerebbero l'impossibilità di conoscere Dio nella sua interezza, desistendo così dal loro desiderio, lo stesso che tormenta in eterno le anime del Limbo. Virgilio tra questi "matti" cita Aristotele e Platone, poi china la fronte e resta turbato, facendo capire che include anche sé stesso nella categoria. 
I pellegrini arrivano ai piedi del monte, la cui salita è così ripida da far sembrare una comoda scala i dirupi a strapiombo della Liguria. Virgilio si ferma e si chiede quale sia il lato migliore per iniziare la salita. Mentre il poeta mantovano pensa a testa bassa, Dante vede sopraggiungere da sinistra delle anime che viaggiano a passo molto lento. Il poeta incita la guida a rivolgersi alle anime in cerca di informazioni, convinto che loro sapranno indicare la strada più adatta. Lo sguardo di Virgilio si rasserena e questi dice che è il caso di andare incontro alle anime visto il loro lento incedere. Ancora c'è una grossa distanza tra i pellegrini e le anime sopraggiungenti, quanta un buon lanciatore riuscirebbe a coprire con un sasso, che queste ultime si fermano e, prese dal panico, si stringono tra loro addossandosi alla parete. Le anime sono spaventate dal vedere due persone compiere il cammino opposto al loro, fatto evidentemente innaturale. Virgilio si avvicina loro e, dopo averli definiti "spiriti eletti" la cui pace è già stata decretata, gli chiede dove la montagna è meno ripida. Dal gruppo di anime ne esce una, come nei branchi di pecore c'è sempre la più curiosa che si stacca dal gregge per avvicinarsi a qualcosa di nuovo, e questa arretra quando vede l'ombra proiettata a terra dal corpo di Dante. Vedendo l'anima arretrare, anche le altre si spaventano e fanno altrettanto, pur non sapendo quale visione l'abbia fatta trasalire. Dedotto il motivo del loro spavento, Virgilio si affretta a spiegargli che Dante è vivo e che la sua volontà di scalare la montagna non contrasta i disegni della virtù celeste. Le anime parlano in coro, come un sol corpo, e accompagnandosi coi gesti dicono ai pellegrini di procedere verso destra. Una delle anime si rivolge direttamente a Dante, chiedendogli di guardarlo e ricordare se mai l'abbia visto nel mondo dei vivi. Il poeta si volge verso l'anima e vede un uomo bello e dall'aspetto nobile, con un ciglio spaccato da una ferita; gli dice infine di non averlo mai visto prima. L'anima a questo punto gli mostra un'altra ferita sul petto, poi dice di essere Manfredi, il nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla, e chiede di andare a dire a sua figlia che le voci sulla sua morte da scomunicato sono false. Manfredi spiega di essersi pentito in punto di morte dei propri orribili peccati, ma "la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei". Il principe dichiara poi che se l'arcivescovo di Cosenza, che gli diede la caccia per ordine di Clemente IV, conoscesse la misericordia di Dio, non avrebbe fatto disseppellire il suo corpo dal tumulo di pietre erto in suo onore presso Benevento. Il diritto canonico allora vietava la sepoltura degli scomunicati, quindi l'arcivescovo di Cosenza fece applicare una norma, non tenendo conto, a detta di Manfredi, della misericordia divina e del suo pentimento in punto di morte. Le ossa di Manfredi furono trasferite fuori dallo Stato della Chiesa, accompagnate da lumi spenti e capovolti (come imponeva la cerimonia) e ora sono consumate dalla pioggia e dal vento. Manfredi spiega poi che la scomunica della Chiesa non nega l'accesso alla gloria eterna, però obbliga l'anima dello scomunicato a stare nell'Antipurgatorio per un tempo trenta volte superiore a quello trascorso fuori dal seno della Chiesa, quindi nella scomunica. Il tempo di permanenza può essere però accorciato dalle preghiere dei viventi. Il discorso di Manfredi si conclude con l'esortazione a Dante affinché porti sue notizie alla figlia e le dica di pregare per lui, così da accorciare il suo tempo di permanenza nell'Antipurgatorio.

I nuclei fondamentali di questo canto sono due: il ragionamento sulla ragione umana e quello sul potere della scomunica.
Nella parte iniziale del canto la ragione ci viene presentata come mezzo per giungere alla beatitudine, infatti grazie al rimprovero di Catone le anime, seppur disordinatamente, riprendono la via verso la montagna e i pellegrini riprendono il loro viaggio sacro. Virgilio però, pochi versi dopo, ammonisce circa la presunzione di comprendere le verità celesti attraverso la ragione umana, che è limitata e quindi non può comprendere in pieno Dio e i suoi misteri. Il messaggio è chiaro: la ragione è un mezzo e non va abbandonata, bisogna però fuggire la presunzione di poter conoscere completamente Dio attraverso essa.
Interessante è anche il discorso circa la scomunica, che Dante tratta attraverso il principe Manfredi. Molti canonici all'epoca di Dante sostenevano che morire in scomunica destinasse inevitabilmente all'Inferno, non c'era quindi scampo. Tale convinzione, seppur magari supportata da valutazioni di natura teologica (non ne so abbastanza, oltretutto l'argomento è così vasto da non poter essere trattato nelle poche righe di un articolo), era sicuramente figlia dell'opportunità politica: all'epoca la scomunica era un'arma usata spesso dal papa contro nemici politici e di certo faceva comodo convincere la vittima che non era solo il rischio dell'isolamento politico a incombere su di lui, ma anche la dannazione eterna. In quest'ottica il pensiero di Dante è chiaro, e per certi versi straordinariamente moderno. Egli non priva di peso l'uscita dalla protezione della Chiesa, che è detentrice del potere spirituale, ma riconosce comunque la superiorità della misericordia divina sull'intransigenza del clero: se il peccatore si pente, Dio lo perdona e non c'è scomunica che possa mandarlo all'Inferno. Dante priva il papato della capacità di destinare all'Inferno i propri nemici, però lascia comunque alla scomunica parte delle sue proprietà per non disconoscere del tutto il potere degli uomini di chiesa sull'anima umana. Se oggi questa posizione può sembrarci addirittura troppo morbida nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, nel Trecento dovette invece essere una posizione coraggiosa di un uomo che credeva nel potere della Chiesa pur non tollerandone gli abusi.

Francesco Abate