domenica 28 ottobre 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "FENICE"

Fenice è una poesia che ho pubblicato qualche mese fa sul sito Spillwords.com.
Come il titolo suggerisce, la poesia parla della rinascita dopo una grave caduta, della famosa resurrezione dalle proprie ceneri. Ogni sconfitta, per quanto sia dolorosa, deve servirci per rinascere migliori di com'eravamo. 
L'ispirazione mi venne dopo aver commentato il XXIV canto dell'Inferno di Dante (https://culturaincircolo.blogspot.com/2018/04/commento-al-canto-xxiv-della-divina.html), dove è appunto citato il mito della fenice.

"Foglie di nardo e amara mirra
sono il mio ultimo letto
quello in cui mi perderò"
Secondo la mitologia, la fenice si preparava un nido di nardo e mirra e lo esponeva al sole, il cui calore avrebbe incendiato le erbe e generato il fuoco in cui l'uccello si sarebbe immolato. La mirra si presta bene alla poesia, è infatti un'erba amara ed è l'amarezza di una delusione a distruggere l'animo umano, a farci bruciare come l'epico animale nella sua ultima ora. Il calore che dà la vita diventa il fuoco che uccide, ma da questa tremenda fine si può rinascere e tornare a nuova vita.

Potete leggere Fenice al link http://spillwords.com/fenice/.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Poi fummo dentro al soglio de la porta
che 'l mal amor de l'anime disusa,
perché fa parer dritta la via tòrta,
sonando la senti' esser richiusa;
s s'io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fòra stata al fallo degna scusa?
Dante e Virgilio varcano la porta del Purgatorio, quella che molte anime non giungono a vedere perché portati sulla cattiva strada dalle loro passioni carnali ("mal amor"), e dal rumore capiscono che l'angelo l'ha richiusa. Il poeta è tentato di voltarsi a guardare, ma ricorda l'ammonimento fattogli dall'angelo nel canto precedente ("di fuor torna chi 'n dietro si guata") e rinuncia, chiedendosi come potrebbe mai giustificare una così grave mancanza. Camminano lungo un sentiero scavato nella roccia i cui lati sono irregolari, richiamando alla mente dell'autore il movimento dell'onda. Virgilio lo avverte che è importante muoversi con prudenza e assecondare le irregolarità del sentiero ("<< Qui si conviene usare un poco d'arte >>, / cominciò 'l duca mio, << in accostarsi / or quinci or quindi al lato che si parte. >>"). Il cammino dei poeti perciò rallenta, tanto che la luna, quasi nell'ultimo quarto ("lo scemo de la luna"), fa in tempo a tramontare prima che raggiungano lo spazio aperto. Dante è stanco, ha infatti ancora il corpo mortale e per questo accusa la stanchezza fisica, e come anche la sua guida è incerto sul cammino da seguire; sono lì, davanti vedono il monte allungarsi verso l'alto e diventare più stretto in cima, si trovano su uno spiazzo più solitario delle strade che attraversano i deserti. ("io stancato ed amedue incerti / di nostra via, restammo in su un piano / solingo più che strade per diserti"). La cornice su cui si trovano misura circa cinque metri ("misurrebbe in tre volte un corpo umano"), è perciò piuttosto stretta, e da un lato confina col vuoto mentre dall'altro con la parete del monte. Ancora non ha ripreso il cammino il poeta, quando si accorge che la parete interna del monte è fatta di marmo candido e intagliata con tale armonia delle proporzioni da far vergognare non solo Policleto (grande scultore dell'antica Grecia) ma la natura stessa. Nel marmo è scolpita l'immagine dell'Annunciazione, con l'angelo che porta la lieta novella ("venne in terra col decreto") che aprì all'umanità il cielo lungamente chiuso a causa del peccato originale. In ogni cornice del Purgatorio si troverà scolpita una scena della vita della Madonna, questo perché san Bonaventura, nello Speculum Beatae Virginis, trovò in Maria le virtù che si contrappongono a tutti i peccati capitali. In questa immagine la virtù mariana rappresentata è l'umiltà, la donna infatti accetta senza richieste né proteste di essere veicolo della volontà divina.  L'immagine dell'Annunciazione è scolpita con tanta grazia da non sembrare una rappresentazione, sembra vera ("dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace"). Vedendo quell'opera si giurerebbe di sentir pronunciare all'angelo << Ave! >> e di sentir rispondere Maria << Ecco la serva del Signore >>. 
Mentre Dante è perso nella contemplazione dell'Annunciazione, Virgilio gli consiglia di non fermarsi a guardare in un solo punto. Guarda a destra, dietro la figura di Maria, e si accorge che è scolpito un altro evento nella roccia, perciò supera la sua guida e si avvicina. La scena rappresentata è la danza di re David al trasporto dell'arca dell'alleanza a Gerusalemme, appena diventata nuova capitale d'Israele: i buoi trainano il carro con sopra l'arca, l'oggetto che fa temere di cimentarsi in un'impresa non concessa da Dio (è un riferimento alla morte istantanea di Oza, il quale sostenne l'arca per non farla cadere, e fu punito per essersi arrogato un compito riservato ai soli preti levitici); intorno all'arca sono raffigurati sette cori, così ben rappresentati da far credere a Dante di udirne davvero le voci e di sentire veramente il profumo dell'incenso; a precedere l'arca c'è David che danza al suono delle cetre, sembrando allo stesso tempo più e meno regale di un sovrano, mentre dal palazzo la moglie Micol lo guarda contrariata (secondo la tradizione biblica, Micol non voleva che David si vestisse umilmente al cospetto del popolo e dei servi, ma il re disse che solo rendendosi più vile di ciò che era agli occhi del Signore sarebbe apparso più glorioso alle ancelle e ai servi). 
Spostandoti, Dante scopre un'altra rappresentazione dietro la figura di Micol. La vicenda narrata questa volta riguarda l'imperatore Traiano e gli valse la salvezza eterna grazie alle preghiere del papa Gregorio. Traiano è a cavallo e una vedova piange ai suoi piedi, tutt'intorno è circondato da soldati in armatura e dai vessilli con le aquile dorate, perché è in partenza per una battaglia. La vedova implora l'imperatore di darle giustizia per un figlio che le è stato ucciso, lui le risponde di aspettare che torni dalla battaglia, ma lei ribatte chiedendo cosa accadrebbe se lui non tornasse. Traiano laconicamente le assicura che ci penserà chi sarà suo successore, ma lei gli chiede se lasciar compiere ad altri il proprio dovere conta quanto compierlo, così lui si convince e decide di soddisfare la sua richiesta prima di partire, perché la giustizia così vuole. Vedendo l'immagine, il poeta si convince che sia opera di Dio, sulla Terra infatti non c'è niente di simile. La leggenda della giustizia fatta all'umile vedova dall'imperatore Traiano in procinto di partire per la guerra non fu un'invenzione di Dante, era ben nota nel Medioevo. L'autore la cita insieme agli altri due episodi perché, come quelli, è un grande esempio di umiltà: l'imperatore piega la propria volontà alla giustizia, la quale gli è suggerita dalla pietà (la vedova). Questo episodio non solo è un fulgido esempio di umiltà, ma vale anche la salvezza per Traiano, infatti, nonostante fosse pagano, il papa san Gregorio pregò per la sua anima. Dante accolse tale tradizione, infatti ritroveremo l'imperatore nel cerchio di Giove in Paradiso. Comunque, come già detto prima, le sculture osservate dal poeta sono tutti esempi di umiltà, ciò perché siamo nel cerchio dei superbi e in ogni cerchio del Purgatorio ci sono immagini della virtù opposta al peccato che si sta scontando.
Mentre Dante è preso dall'osservazione di quegli esempi di umiltà scolpiti nel marmo, Virgilio mormora che sono in arrivo delle anime e auspica che possano indicargli la via verso la cima del monte. Il poeta volge gli occhi verso la sua guida rapidamente, attratto dalla prospettiva di vedere cose nuove. A questo punto una preoccupazione nasce nell'autore prima di descrivere le anime dei superbi, rassicura il lettore dicendogli di non lasciarsi impressionare dalla pena inflitta ai peccatori in cerca della purificazione, deve ricordare che queste nel peggiore dei casi non possono protrarsi oltre il giudizio universale, mentre all'Inferno sono eterne ("Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento, per udire / come Dio vuol che 'l debito si paghi. / Non attender la forma del martire: / pensa la succession; pensa ch'al peggio / oltre la gran sentenza non può ire"). Vedendo le anime in quelle condizioni, il poeta si rivolge alla guida e confessa che non gli sembrano nemmeno persone, ma Virgilio gli spiega che sono rannicchiati a terra a causa del gran peso portato sulle spalle e si picchiano il petto in segno di pentimento. Visto lo spettacolo dei superbi schiacciati a terra dai massi, l'autore si lascia andare a un ammonimento nei confronti dei cristiani:
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola a la giustizia senza schermi?
Dì che l'animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?"
Il poeta chiede ai cristiani, che si fidano dei passi che li fanno retrocedere verso l'Inferno, se non si accorgono di essere solo vermi creati per formare la farfalla divina, cioè di essere nati solo per liberarsi del corpo e far parte della gloria di Dio. Chiede poi da cosa nasca la superbia se poi nell'aldilà sono insetti, vermi che non sono riusciti a diventare farfalla. Le anime dei superbi stanno con le ginocchia schiacciate al petto, come le figure usate per mensola a sostegno di solai o tetti, chi più e chi meno in base alla pesantezza del masso che porta sulle spalle, con quelli apparentemente più stanchi che sembrano dire di non riuscire più a continuare.

Francesco Abate      

martedì 23 ottobre 2018

COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

La concubina di Titone antico
già s'imbiancava al balco d'oriente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de' passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov'eravamo,
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;
quand'io, che meco avea di quel d'Adamo,
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai
la 've tutti e cinque sedevamo.
Il canto è introdotto da questi versi in cui l'autore ci racconta come, vinto dal sonno, si addormenta nel luogo in cui si era fermato insieme a Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina. I versi in questione sono molto belli, proiettano il lettore in una dimensione spazio-temporale e in uno stato d'animo propizio al sogno mistico che Dante si accinge a descrivere. L'aurora è definita "la concubina di Titone antico" perché nella mitologia latina Aurora si innamorò di Titone e spinse le divinità a concedergli l'immortalità, all'uomo non fu però donata l'eterna giovinezza e per questo è indicato come "antico". Già il chiarore dell'aurora sorge a oriente, è quindi il momento in cui, secondo la tradizione, i sogni diventano premonitori, quindi l'indicazione del tempo in cui si svolge il fatto non è assolutamente fine a sé stessa. A far da corona all'aurora ci sono le stelle dello Scorpione, il "freddo animale che con la coda percuote la gente". Intanto nel luogo opposto della Terra, dove "eravamo", cioè dove Dante era prima di iniziare il viaggio nell'oltretomba e dove i suoi compagni di viaggio erano prima di morire, la notte è iniziata da più di due ore ed è quasi passata la terza. Questi versi così raffinati hanno il preciso scopo di introdurre il sogno che Dante sta per fare, il lettore viene proiettato in una dimensione in cui prevale la parte mitologica, inoltre l'estrema cura estetica di questa parte del canto ci riporta agli anni giovanili dell'autore in cui, com'era consuetudine all'epoca, si dilettava in sonetti carichi di significati oscuri, ispirandosi principalmente alla poesia trobadorica. Arrivata l'ora dell'aurora Dante, che sente ancora il peso del suo corpo mortale, viene vinto dal sonno. Come già detto sopra, è l'ora in cui i sogni diventano premonitori. Il poeta sogna un'aquila dalle piume d'oro, pronta a calare da un momento all'altro. Gli sembra di essere nella Troade, sul monte Ida, dove Giove rapì Ganimede così da avere sempre un coppiere sul monte Olimpo (il luogo non è scelto a caso, fu sede di un rapimento di natura divina, esattamente ciò che sta per succedere a lui). Nel sogno, Dante ipotizza che l'aquila sia lì "per uso", cioè sia obbligata a prendere in quel luogo le sue prede o disdegni lei di prenderle altrove. L'aquila di colpo piomba su di lui come una folgore e lo afferra, per poi portarlo alla sfera del fuoco, dove diviene così intensa la sensazione di bruciare insieme all'animale che il sonno si interrompe.
Dante si sveglia di soprassalto e si guarda intorno spaesato, così come fece Achille quando si svegliò a Sciro dopo che la madre ce l'aveva portato di notte mentre dormiva. La faccia del poeta si fa smorta come quella di un uomo agghiacciato dallo spavento. Al suo fianco c'è Virgilio, il sole è già sorto da più di due ore e lo sguardo di Dante è rivolto verso il mare. La guida lo rassicura, gli dice di rinvigorirsi perché sono a buon punto, l'entrata del Purgatorio è già visibile poco distante; gli racconta poi che mentre dormiva, santa Lucia è venuta e ha chiesto di poterlo prendere per facilitargli un po' il cammino, poi l'ha preso e lo ha portato per un po' di strada, infine "li occhi suoi belli" (santa Lucia è considerata protettrice della vista) hanno indicato a lui l'entrata del Purgatorio. Il racconto di Virgilio chiarisce anche l'allegoria del sogno di Dante: l'aquila rappresenta santa Lucia che guida il pellegrino fino alla sua meta, quindi nel cielo c'è chi lo protegge e facilita il cammino difficile che sta compiendo.
Compreso il significato del sogno, Dante si rinvigorisce; Virgilio se ne accorge e riprende il cammino. L'autore a questo punto fa notare al lettore come la materia del canto diventi sempre più elevata, si sta infatti per entrare nel Purgatorio, e lo invita a non meravigliarsi se lui rinforzerà l'argomento con la sua arte. Si avvicinano e là dove sembrava essere interrotta la strada, vedono una porta sotto la quale ci sono tre gradini di colore diverso l'uno dall'altro e un angelo guardiano che resta in silenzio. L'angelo siede sulla soglia, tanto è luminoso il suo viso da risultare insopportabile per la vista del poeta, in mano ha una spada che riflette i raggi di luce verso lui e la sua guida, così da rendere impossibile guardarlo. Il silenzio è rotto dal guardiano che chiede ai pellegrini per quale ragione siano lì e dove sia la guida che li ha condotti, gli raccomanda poi di fare in modo che salire i gradini non gli arrechi un danno, quindi li invita a non sfidare le leggi divine. Virgilio spiega che a condurli lì è stata santa Lucia, l'angelo li invita allora a procedere e augura loro che Lucia guidi ancora in modo retto i loro passi. Si avvicinano ai gradini: il primo è bianco come il marmo e tanto pulito da riflettere l'immagine del poeta; il secondo è nero e presenta una spaccatura sia nel senso della lunghezza che in quello della larghezza; il terzo è di porfido rosso come il sangue che schizza da una vena aperta. Anche il colore dei gradini non è scelto a caso: il primo è bianco e lucido come uno specchio, rappresenta la chiarezza con cui bisogna guardare in sé stessi per leggere a fondo nella propria coscienza; il secondo è nero come il peccato e le spaccature rappresentano il dolore e il danno che i peccati arrecano all'anima; il terzo è rosso, rappresenta la carità di Dio e la voglia di ricongiungersi a Lui, che sono elementi indispensabili per la Redenzione. Sopra al terzo gradino poggiano i piedi dell'angelo seduto sulla soglia, la quale sembra fatta di diamante. Virgilio accompagna Dante sui gradini, poi gli dice di chiedere all'angelo che apra la porta ("... << Chiedi / umilemente che 'l serrame scioglia >> "). Il poeta si butta ai piedi dell'angelo, si batte tre volte il petto e chiede all'angelo di aprire. L'angelo con la punta della spada traccia sette P sulla sua fronte e gli raccomanda di curare queste ferite nel suo cammino dentro il Purgatorio. Da sotto il suo abito grigio (colore che rappresenta l'umiltà) l'angelo estrae due chiavi, una d'oro e l'altra d'argento, ed esaudisce il desiderio del poeta aprendo la porta. L'angelo spiega infine che se solo una delle due chiavi fallisce, la porta non si apre; una delle due è più cara, ma l'altra necessita di arte e d'ingegno perché è quella che scioglie il nodo del peccato; fu san Pietro a dargliele e a raccomandargli che è meglio sbagliare per eccesso di misericordia, quindi aprire la porta della Redenzione qualche volta di troppo, che non per eccesso di rigore, quindi tenerla chiusa più volte del dovuto, purché ovviamente il peccatore chieda umilmente misericordia. La simbologia delle chiavi è molto importante per comprendere l'idea dantesca della teologia. Le due chiavi rappresentano l'autorità che il confessore riceve da Dio (quella d'oro) e la capacità del confessore stesso di essere medico delle anime (quella d'argento): la prima è la più importante, ma senza un buon confessore è impossibile introdurre le anime alla Redenzione, quindi ci vuole da parte della guida spirituale la conoscenza delle Scritture (arte) e l'ingegno. Bellissima è anche la presa di posizione dell'autore circa i difetti o gli eccessi di misericordia, infatti per bocca dell'angelo sostiene che è meglio perdonare più del dovuto piuttosto che essere troppo zelanti nel condannare, prendendo così una posizione forte contro l'abuso di scomuniche (spesso emanate per ragioni più politiche che religiose). Dopo aver raccontato delle chiavi, l'angelo spalanca la porta del Purgatorio e invita i due a entrare, mettendoli però in guardia dall'abbandonarsi alla tentazione di guardarsi indietro, cosa che potrebbe farli finire di nuovo fuori (la penitenza necessita di perseveranza). I cardini della porta fanno lo stesso rumore che fece la rupe Tarpea nel momento in cui Cesare allontanò il tribuno Cecilio Metello per impadronirsi del pubblico erario. Il primo suono che raggiunge Dante è una voce che intona il Te Deum, un inno di ringraziamento, e il cui suono si alterna a quella che sembra essere la melodia di un organo.

Il canto IX è molto ricco di metafore e di passaggi dai versi molto poetici e lirici. Le tematiche trattate diventano sempre più importanti e questo canto ci mostra l'ingresso del Purgatorio, quindi ci fa vedere come il pentimento conduce alla grazia divina. Dante spiega i suoi argomenti e le sue idee con un'allegoria molto fine, non semplice da comprendere ma molto bella da leggere.

Francesco Abate

domenica 14 ottobre 2018

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla da lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand'io incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Il canto inizia con l'indicazione del momento della giornata. Il sole sta tramontando, è il momento in cui colui che è in navigazione sente intenerirsi il cuore e ripensa a tutte le persone care che ha dovuto lasciare; è anche l'ora in cui lo squillo delle campane accende la nostalgia nell'uomo che ha appena intrapreso un viaggio. Dante inizia a non curarsi più di ciò che sente quando vede una delle anime alzarsi e chiedere attenzione con i gesti di una mano. L'anima giunge le mani e le tende al cielo, volge lo sguardo verso oriente, come se volesse far capire a Dio che non le interessa altro che pregare ("come dicesse a Dio: << D'altro non calme >>"). Lo spirito inizia a intonare l'ultimo inno della Compieta, che è l'ora canonica con cui termina l'ufficio divino. L'inno è così soave nella musica e nelle parole da mandare in estasi il poeta; le altre anime si associano al canto e lo fanno guardando verso le sfere celesti ("e l'altre poi dolcemente e devote / seguitar lei per tutto l'inno intero, / avendo li occhi a le superne rote"). 
Dante si rivolge adesso direttamente al lettore, chiedendogli di aguzzare l'ingegno e cogliere il significato della simbologia contenuta nei versi del canto, dicendogli che adesso non è difficile farlo e che non c'è quindi da cercare un senso tanto diverso da quello più evidente ("Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggiero"). Il poeta vede le anime nobili dei principi, "quello essercito gentile", guardare silenziosamente verso l'alto, aspettando spaventate qualcosa di imminente. Dall'alto scendono due angeli brandenti spade infuocate, tronche e prive della punta. Gli angeli sono vestiti con abiti verdi come foglie e hanno dietro le spalle ali dello stesso colore. Non è casuale la scelta del colore della speranza, sono infatti creature divine che portano alle anime la speranza che serve per continuare la lunghissima penitenza. Uno dei due rimane poco sopra la posizione dove sostano Dante, Virgilio e Sordello; l'altro scende dalla parte opposta; in mezzo alle due creature celesti stanno raccolte le anime dei principi. Il poeta riesce dalla sua posizione a vedere che gli angeli hanno i capelli biondi, ma non riesce a riconoscerne i lineamenti del viso a causa dello splendore eccessivo che irradiano, così come non si riesce a sostenere la vista diretta del sole. Non è casuale nemmeno questo riferimento allo splendore dei volti: la virtù celeste è tanto straordinaria da non essere percepibile coi soli mezzi sensibili, così l'occhio non può cogliere il divino. Sordello spiega che entrambi discendono "dal grembo di Maria" e su questa espressione ci sono diverse interpretazioni: alcuni credono intenda che essi discendono dalla protezione di Maria; altri sostengono che discendono dal Paradiso, dove risiede la Vergine; altri ancora leggono in questi versi che gli angeli discendono da Gesù, il frutto del grembo di Maria. Vengono a guardia della valle, spiega ancora Sordello, per proteggere le anime dal serpente che arriverà tra poco. Dante, non sapendo da quale direzione arriverà questo serpente, si accosta spaventato al corpo di Virgilio. 
Sordello invita i due pellegrini a scendere nella valle tra i principi e parlare con loro, che di certo gradiranno molto. Scendono solo di tre passi e si trovano nella valle; subito il poeta vede una delle anime che lo osserva come se volesse fare la sua conoscenza. La notte sta già scendendo, ma non è ancora così scuro da impedire ai due di vedere, così vicini, ciò che prima gli era nascosto dalla distanza. Si avvicinano l'uno all'altro e l'autore descrive la scena con un verso che rende una straordinaria trepidazione ("Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei"), infatti l'anima è quella di Nino Visconti, un suo amico, e si rallegra nel constatare che non sia finito all'Inferno. I due si salutano, poi Nino chiede all'amico quando sia morto, credendo che sia lì appunto come anima del Purgatorio. Dante gli spiega che è arrivato lì passando per l'Inferno e vive ancora la sua esistenza terrena, percorrendo un viaggio che gli permetterà di guadagnarsi quella eterna. Sentita la risposta, sia Sordello che Nino si sorprendono e si spostano un po' all'indietro, quasi spaventate dalla straordinarietà dell'evento a cui stanno assistendo. Il primo poi si volge verso Virgilio, l'altro invece si gira verso un'anima, quella di Corrado Malaspina, e lo incita a venire a vedere quale prodigio divino si sta manifestando. Nino si rivolge poi nuovamente a Dante e gli chiede, in nome del prodigio voluto da Dio, colui di cui non si conosce e non si può conoscere il fine delle azioni, di chiedere alla figlioletta Giovanna (che nel 1300 aveva nove anni) di chiamarlo laddove gli innocenti trovano risposta, cioè di pregare per lui. Amaramente il Visconti dice di non credere che la madre di Giovanna, sua moglie, lo ami più, visto che ha contratto un nuovo matrimonio: lei è la dimostrazione di quanto poco duri l'amore di una donna quando non è acceso dal contatto diretto col marito. Sua moglie non avrà però una degna sepoltura, conclude, visto che sul sepolcro si troverà lo stemma del nuovo marito, una vipera con un fanciullo in bocca, invece che il gallo di Gallura, stemma dei Visconti di Pisa. Nelle parole che il poeta fa rivolgere a Nino contro sua moglie non c'è solo l'amarezza del marito che vede la propria donna sposare un altro uomo, c'è anche un risentimento politico che probabilmente apparteneva allo stesso Dante: Nino Visconti fu un guelfo morto in esilio, il nuovo marito di sua moglie invece fu un Visconti di Milano, capo dei ghibellini di Lombardia. Nino dice queste cose esprimendo nell'aspetto quello zelo legittimo che gli avvampa nel cuore.
Gli occhi di Dante, fortemente desiderosi di vedere, si alzano verso il polo del cielo, là dove le stelle percorrono un cerchio meno ampio che all'equatore. Virgilio lo nota e gli chiede cosa stia guardando, lui risponde che sta osservando le tre stelle che sembrano far ardere tutto il polo celeste. La guida gli spiega che le quattro stelle che ha visto al mattino sono adesso basse sull'orizzonte e si sono levate le tre che adesso sta guardando. In questa spiegazione è espresso un concetto molto importante ai fini del raggiungimento della beatitudine eterna: le virtù cardinali arrivati a questo punto del cammino non bastano più, perché si possa arrivare alla contemplazione dell'Eterno è necessario avvalersi dell'aiuto di Dio, di quelle virtù (teologali) che hanno origine direttamente dall'Onnipotente; l'uomo non può farcela più coi suoi soli mezzi, deve per forza avvalersi dell'aiuto della grazia divina. 
Mentre Virgilio spiega a Dante delle virtù teologali, Sordello si ritrae e indica ai due una biscia, forse quella che porse a Eva il frutto del peccato originale. Il serpente striscia tra l'erba e i fiori, perché la tentazione si fa strada tra le cose belle. Dante non si accorge del momento in cui si alzano in volo, ma gli angeli iniziano a sbattere le ali e il solo fruscio di queste basta a scacciare la bestia, poi tornano ai loro posti. 
L'anima che si era avvicinata a Nino Visconti quando l'aveva chiamata non smette di guardare Dante mentre gli angeli scacciano il serpente. Questa si rivolge al poeta e gli augura che la grazia divina dia alla sua volontà tanta forza da condurlo alla sommità del monte, gli chiede poi di riferirgli, qualora ne abbia, notizie della Lunigiana (Val di Magra) o della zona circostante; dichiara di essere Corrado Malaspina, discendente di Corrado I marchese di Mulazzo, che amò la sua famiglia di un amore che adesso si sta liberando delle caratteristiche terrene. Dante dice di non essere mai stato nei suoi possedimenti, ma la fama della liberalità dei Malaspina è viva in tutta Europa (diversi trovatori provenzali l'avevano celebrata), così le qualità di quella gente è nota anche a chi non è mai stato in quelle terre. Incassata la lode del poeta, Corrado ne predice l'esilio, anticipandogli l'ospitalità che proprio nelle sue terre troverà: il sole non sarà ancora tornato sette volte nell'ariete, quindi non passeranno sette anni, che la buona opinione di Dante sarà rafforzata dai fatti, come se venisse attaccata alla sua testa con dei chiodi, a meno che non muti nel frattempo il giudizio divino.

A differenza dei precedenti, questo canto abbandona la politica e torna a dedicarsi alla religione. Le anime dei principi passano in secondo piano, buona parte del canto ci dimostra come non bastino per giungere alla beatitudine le virtù dell'uomo retto (virtù cardinali), ma servano anche quelle che discendono direttamente da Dio (fede, speranza e carità). A rafforzare il concetto, oltre che l'immagine delle stelle, c'è la scena degli angeli e della biscia: anche in mezzo all'apparente quiete dell'anima può sorgere la tentazione (la biscia) e solo il diretto intervento di Dio attraverso la speranza (gli angeli vestiti di verde) può scacciarla e impedire alle anime di deviare dalla retta via. Gli angeli hanno armi spuntate, basta infatti la sola presenza di Dio per cacciare via la tentazione, non c'è bisogno di combattere.
In questo canto sembra quasi stonare l'inserimento di Corrado Malaspina, che riporta il poema su un piano meno teologico. Questa presenza si spiega con il bisogno del poeta di ringraziare coloro che lo ospitarono nel periodo dell'esilio, quindi usò il suo poema per tessere le lodi della famiglia.

Francesco Abate
   
  

domenica 7 ottobre 2018

RECENSIONE DEL ROMANZO "SOSTIENE PEREIRA" DI ANTONIO TABUCCHI

Sostiene Pereira è il romanzo più famoso di Antonio Tabucchi, uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento. Dall'opera, edita nel 1994, fu tratto l'anno dopo l'omonimo film diretto da Roberto Faenza che vede nei panni del protagonista il grande Marcello Mastroianni.

Il romanzo si svolge a Lisbona nell'agosto del 1938, nel pieno del regime dittatoriale salazarista. Pereira è un giornalista che ha abbandonato la cronaca nera e dirige la pagina culturale di un piccolo giornale locale, si disinteressa completamente della politica e vive in un mondo tutto suo, immerso nei suoi adorati classici francesi (che traduce per il giornale) e nel lutto per la recente morte della moglie. Mentre un giorno pensa alla morte, si imbatte in un saggio sull'argomento scritto dal giovane Monteiro Rossi; tanto lo colpisce l'opera del ragazzo da spingerlo a mettersi in contatto con lui e assumerlo come collaboratore, dandogli l'incarico di scrivere necrologi per letterati famosi non ancora morti. Monteiro Rossi è un ragazzo molto particolare, cambia lentamente e radicalmente la vita di Pereira che, senza nemmeno capire perché, lascia che tale cambiamento si concretizzi. Dopo aver compreso il mutamento che è in corso dentro di lui, grazie al prezioso aiuto del dottor Cardoso, e dopo essere entrato direttamente in contatto con la violenta repressione attuata dalla dittatura portoghese, Pereira decide di cambiare radicalmente la propria vita.
Come sempre ho spiegato la trama in modo da non rovinarvi il finale e i punti salienti, quindi mi perdonerete se ho descritto tutto in modo molto vago.

Sostiene Pereira mostra l'impatto che i totalitarismi hanno sull'uomo. Il protagonista vive nella Lisbona del regime salazarista, in un contesto dittatoriale e fortemente repressivo, eppure si disinteressa completamente di politica e la stessa per buona parte della vicenda si intravede solo vagamente sullo sfondo. La sua vita oscilla tra la traduzione dei classici francesi e le chiacchierate con la fotografia della moglie morta, è un uomo immerso in un mondo tutto suo fatto di un passato ormai perduto e una cultura priva di valore sociale. La storia però non permette a nessuno di chiamarsi fuori; Pereira fugge il dramma politico-sociale del suo paese, ma da questo viene raggiunto e investito in pieno. Il romanzo inizia con il protagonista assolutamente avulso dalla storia del mondo per poi terminare con un uomo che decide di prendere una posizione tanto pericolosa quanto inevitabile. In questo romanzo io ho visto un monito per tutti gli intellettuali: l'uomo di cultura non può fuggire dalla realtà, arriva un momento in cui l'arte deve diventare impegno sociale e l'intellettuale deve usare le proprie qualità per favorire nella gente una presa di coscienza. Se l'intellettuale vede un po' più in là dell'uomo comune, è giusto che aiuti quest'ultimo a vedere ciò che gli sfugge.
Attraverso la figura di Pereira, Tabucchi ci mette in guardia anche da una forma di finta libertà dell'intellettuale, quella che coincide con il disimpegno. Parlando del suo giornale, quando il protagonista critica i necrologi di Monteiro Rossi perché troppo politici, Pereira lo definisce "libero e indipendente". La libertà di cui parla il giornalista non è però reale e se ne accorge lui stesso quando gli viene intimato di abbandonare la letteratura francese perché figlia di una nazione politicamente nemica, è soltanto la scelta comoda di non schierarsi, di trascurare completamente ogni problema politico così da non avere guai. Questa non è affatto libertà, è solo una maschera creata per nascondere la vigliaccheria.

Pereira in questo romanzo subisce un'evoluzione, da intellettuale chiuso nel passato e isolato dal mondo diventa impegnato e interessato alla politica. Questo suo cambio di personalità è spiegato dal dottor Cardoso, che il giornalista incontra in una clinica, attraverso la teoria dell'Io egemone. Il dottore spiega che si tratta di una teoria enunciata da i "medici filosofi" Thèodule Ribot e Pierre Janet, secondo la quale la personalità di una persona è formata da una confederazione di anime posta sotto il controllo di un io egemone, il quale ne determina i comportamenti e i pensieri. Secondo i due medici francesi, può capitare a volte che emerga un nuovo io e che diventi egemone per attacco diretto o per lenta erosione, determinando così un cambiamento della personalità. Di fatto è quello che succede a Pereira, lentamente passa dal suo disinteresse per la politica a un interesse diretto, molto rischioso, e questo cambiamento si avvia dapprima lentamente, infine viene accelerato da una violenza subita in prima persona. 
Scientificamente parlando, la teoria dell'Io egemone fu spazzata via da Freud, che riportò in auge quella di un'anima unica. Tabucchi però in un'intervista rilasciata nel 1994 al quotidiano "la Repubblica" disse: "...l'ipotesi di Binet e Ribot è molto creativa, direi anzi che è il principio stesso della fiction: in ogni libro si esprime nel protagonista un io egemone dell'autore che la struttura aiuta a emergere dalle profondità celate dentro di noi". Tabucchi applica la teoria dell'Io egemone allo scrittore.  

Oltre a quella del protagonista, una figura che merita molta attenzione è quella di don Antonio. Si tratta del parroco confidente di Pereira e attraverso le sue parole, soprattutto quelle pronunciate in occasione dell'ultimo incontro col giornalista, evidenzia la distanza che si creò in quegli anni tra i preti vicini alla gente e il clero politico. Don Antonio racconta infatti dei preti baschi, schierati contro le truppe fasciste di Franco nella Spagna straziata dalla guerra civile, e del clero di Roma che si schiera contro di loro, perché politicamente vicino alle forze reazionarie.

Sostiene Pereira è considerato a ragione uno dei migliori romanzi del Novecento. Scritto in modo molto semplice e scorrevole, riesce a proiettarci in una realtà politicamente complessa analizzandone però l'effetto sull'uomo, mettendo la politica in secondo piano. Pereira è l'uomo qualunque, avvolto nei suoi drammi personali e nelle sue aspirazioni, sceglie di essere distante da una politica che non gli appartiene e non vuole capire, finché la vita non gli insegna che non è possibile ignorare ciò che ci succede intorno, perché prima o poi finiamo per subirne gli effetti. Mi sembra evidente che l'autore non si sia posto come scopo principale quello di fornire giudizi politici, semplicemente ci dice che dalla storia non si può fuggire e prima o poi una scelta va fatta.
La bravura di Tabucchi è anche quella di usare un pretesto affascinante come la teoria dell'Io egemone per farci comprendere in modo semplice l'evoluzione del pensiero e delle azioni del protagonista, in modo molto elementare ci spiega perché il Pereira di fine romanzo è differente da quello che abbiamo conosciuto all'inizio del libro.
Il protagonista del romanzo è uno di quelli di cui ci si può innamorare. Il perfetto prototipo di uomo medio che si scontra con una realtà più grande di lui e che ha cercato di evitare in tutti i modi. La scelta finale di Pereira può quindi essere un esempio per tutti noi, ognuno deve fare la propria parte perché giustizia, verità e libertà continuino a vivere in qualsiasi contesto storico e politico. Prima o poi dobbiamo scegliere da quale parte stare.
Un romanzo bellissimo di un autore di cui certamente leggerò altro.

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Poscia che l'accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: << Voi, chi siete? >>.
<< Anzi che a questo monte fosser volte
l'anime degne di salire a Dio,
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null'altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé. >>
Terminata col canto precedente l'invettiva che Dante ha lanciato all'Italia intera e in particolar modo a Firenze, riprende il racconto dell'incontro tra Sordello e i poeti. L'anima abbraccia quattro volte Virgilio, infine si ritrae e gli chiede chi sia. Sordello infatti non ha riconosciuto il poeta mantovano, la sua gioia è motivata solo dal trovarsi innanzi un concittadino. Virgilio risponde che morì prima dell'avvento della Redenzione, quindi prima della venuta di Cristo, quando non c'era ancora l'espiazione dei peccati sulla montagna del Purgatorio, e le sue ossa furono sepolte per ordine di Ottaviano Augusto; dice infine il suo nome e spiega di aver perso l'eterna beatitudine solo per mancanza di fede, non per altri peccati. Sordello rimane esterrefatto come chi non crede a ciò che vede, poi lo abbraccia umilmente e gli rende omaggio, definendolo colui che ha mostrato la potenza letteraria della lingua latina, lo chiama poi "pregio eterno" dell'Italia e chiede se questo incontro straordinario sia il premio per un suo merito o semplicemente un'opera della grazia divina. L'anima chiede infine al poeta se viene dall'inferno e da quale cerchio. Virgilio racconta di aver superato tutti i cerchi infernali per poter giungere lì; la volontà celeste lo ha spinto a questo viaggio. Spiega il poeta inoltre che ha perduto la beatitudine eterna "non per far, per non fare", cioè non sta pagando il fio di un peccato, ma semplicemente la mancanza di fede, perché solo dopo la morte ha conosciuto la religione Cristiana e la gloria di Dio. Virgilio racconta poi di non essere relegato in un cerchio infernale, si trova nel Limbo, dove non c'è alcun supplizio ma soltanto la consapevolezza di non poter mai raggiungere Dio ("Luogo è là giù non tristo di martiri, / ma di tenebre solo, ove i lamenti / non sonan come guai, ma son sospiri."); sta con i bambini morti prima di essere liberati dal peccato originale mediante il battesimo e con i grandi spiriti che non conobbero le tre virtù teologali (fede, speranza e carità), perché non conobbero Dio, ma esercitarono le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e perciò furono uomini retti. Terminata la sua spiegazione, il poeta chiede a Sordello se può indicargli la via più breve per giungere laddove inizia il vero e proprio Purgatorio. L'anima risponde che agli spiriti dell'antipurgatorio non è imposto di restare in un luogo definito, può muoversi liberamente lungo il monte e tutt'intorno, senza però poter varcare la soglia del Purgatorio; si propone infine come guida per i due pellegrini finché non saranno giunti dove lui non potrà più proseguire. L'anima fa però notare che la notte è ormai prossima e di notte non si può procedere, è opportuno invece pensare a un buon luogo dove riposare. Propone infine di condurre i poeti da un gruppo di anime che sta in disparte, dicendo che alcune gli sono di certo note. Virgilio è sorpreso, non era al corrente di questa legge e chiede se il cammino notturno gli sarà impedito da qualcuno o se verranno a mancare loro le forze. Sordello traccia col dito una riga sul terreno e spiega che, una volta giunta l'oscurità, non sarà possibile varcare nemmeno quella, sarebbe infatti troppo alto il rischio di ritrovarsi a scendere verso il basso o a vagare senza meta intorno al monte. 
Virgilio, sentita la spiegazione, invita Sordello a condurlo presso le anime che gli aveva nominato prima. Si allontanano di poco e Dante vede che il monte in quel punto è incavato, come le valli incavano i monti della terra. Sordello dichiara di voler condurre i due pellegrini dove il fianco della montagna di avvalla, lì passeranno la notte. Camminano per un sentiero che a tratti scende e a tratti sale, arrivano sul fianco della piccola valle, in un punto posto a meno di metà dell'altezza della valletta. I colori della natura sono estremamente vivaci e Dante ce li descrive associandoli a cose belle e preziose ("Oro e argento fine, cocco e biacca, / indaco, legno lucido, sereno, / fresco smeraldo ..."). Tanto sono splendidi i colori della natura in quel luogo da essere ciascuno bello più del doppio rispetto all'omologo esistente nel mondo dei vivi. C'è anche un odore indefinibile, frutto della miscelazione di mille magnifici profumi. Dante vede delle anime sedute sui fiori che iniziano a intonare il << Salve, Regina >>, una delle quattro antifone maggiori che si recitano in onore della Vergine Maria. A causa dell'avvallamento non aveva visto prima queste anime. Sordello dice che non li condurrà da loro prima che il sole tramonti; dalla loro posizione è possibile riconoscere i volti di tutti. Inizia a indicare quindi le anime che vuole far conoscere a Virgilio. Quello che siede più in alto di tutti e non canta con gli altri, pentendosi di non essere intervenuto per regolare le sorti d'Italia, è l'imperatore Rodolfo d'Asburgo. Un altro è invece Ottocaro II, che governò la terra dove nasce la Moldava, affluente dell'Elba, che si getta a sua volta nel Mare del Nord, cioè la Boemia. Ottocaro in fasce fu già meglio di suoi figlio Venceslao da adulto, infatti quest'ultimo vive nel peccato e nella lussuria. C'è poi Filippo III l'Ardito, uomo dal naso sottile (infatti Sordello lo chiama "Nasetto"), seduto vicino ad Enrico di Navarra, detto "il Grasso"; Filippo III morì durante la ritirata dopo una battaglia contro gli Aragonesi, per questo disonorò la Francia ("morì fuggendo e disfiorando il giglio"), e ora si batte il petto in segno di pentimento. Ce n'è un altro che tiene la guancia poggiata sul palmo della mano, è Filippo il Bello, figlio di Filippo III e genero di Enrico di Navarra, e viene definito da Sordello "il mal di Francia", per questo fa soffrire i suoi due parenti. Filippo il Bello in vita fu ostile alla Chiesa e all'Impero, Dante lo ritenne uno degli uomini più corrotti del suo tempo e questo spiega il giudizio così duro formulato da Sordello. C'è poi Pietro III d'Aragona che canta insieme a Carlo I d'Angiò, loro che furono nemici in vita. Alle spalle di Pietro III c'è suo figlio, sovrano promettente che però morì giovane; Sordello rimpiange tale avversa sorte, pensando che, se il potere si fosse continuato a trasmettere in una famiglia così eccellente, le cose sarebbero andate meglio di come andarono con Giacomo II e Federico II. Raramente, dice Sordello, la virtù umana risorge dai rami, cioè raramente si trasmette di padre in figlio, perché Dio vuole che essa discenda da Lui. Si riferisce Sordello anche alla discendenza ancora in vita di Carlo I d'Angiò e Pietro III d'Aragona, per mezzo della quale il Regno di Puglia e la Provenza soffrono. Tanto meno onesto e capace del padre è il figlio di Carlo I, quanto migliore fu Pietro III del sovrano angioino (per non ripetere i nomi nel paragone, nella seconda parte Dante cita i nomi delle mogli). In solitudine siede Arrigo III, re d'Inghilterra, la cui discendenza è la migliore. Più in basso di tutti, perché non è re, siede il marchese di Monferrato, Guglielmo VII, la cui morte causò la vendetta del figlio e portò tanti lutti ad Alessandria e nel Canavese.

Il canto VII si collega al precedente sia per la presenza dello stesso personaggio, Sordello, sia per la natura, è infatti anch'esso un canto politico. Mentre nel canto VI la parte politica è sviluppata da Dante stesso attraverso l'invettiva, e Sordello funge solo da pretesto, nel VII è l'anima mantovana a rappresentare l'incarnazione dello spirito patriottico, e dalla sua voce ci giunge una panoramica sui principi che in quegli anni ebbero in mano le sorti dell'Italia e furono negligenti. Questo canto appare quasi come un'amara riflessione circa l'incapacità dei principi di svolgere il proprio ruolo, come appare evidente nella figura dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo, che non canta perché tormentato dalle sue mancanze. Nel canto VI Dante si è lamentato dell'Italia governata male, in questo canto troviamo i colpevoli.

Francesco Abate

martedì 2 ottobre 2018

RECENSIONE DEL "DE PROFUNDIS" DI OSCAR WILDE

Il De Profundis di Oscar Wilde è una lunga lettera che lo scrittore scrisse al suo amante, Lord Alfred Douglas, durante gli ultimi mesi di detenzione nel carcere di Reading a causa del reato di sodomia. 
La stesura della lettera da parte dello scrittore avvenne tra il gennaio e il marzo del 1897, la pubblicazione dell'originale (precedentemente furono pubblicate solo delle copie piene di errori) avvenne solo nel 1959. Lord Douglas dichiarò di non aver mai ricevuto la lettera, ma a noi non è dato sapere se ciò sia vero o se fu solo un modo per snobbarne il contenuto.
Il titolo De Profundis (latino: "dal profondo") richiama il Salmo 129, il quale è un salmo penitenziale usato in suffragio dei defunti.

Per buona parte della lettera, lo scrittore rievoca la vicenda che l'ha portato alla rovina. Non lo fa per denigrare l'amante o per spingerlo a scusarsi, egli infatti ritiene che la superficialità sia "il vizio supremo", è quindi importante che il destinatario capisca ciò che ha fatto, non che se ne penta. Wilde sottolinea la grande differenza che ci fu tra il suo amore, profondo e incondizionato, e l'odio che spinse Lord Douglas a rovinargli la vita. L'odio è, dal punto di vista delle emozioni, "una forma di Atrofia" che uccide tutto tranne sé stesso. Mentre Lord Douglas agisce accecato dall'odio nei confronti del padre, non accorgendosi del baratro in cui getta l'amato, lo scrittore gli è vicino con amore e lo segue, pur sapendo che ne pagherà durissime conseguenze. Mentre scrive nel carcere, l'autore è convinto che il suo amato non si sia reso conto di essere stato lui a rovinarlo, perciò insiste affinché lo comprenda, perché "Tutto ciò che è compreso fino in fondo, è giusto". Non c'è quindi in Wilde il desiderio di ricevere scuse o di vedere l'amato implorare il suo perdono.

Oltre a ripercorrere la storia della sua caduta nel fango, Wilde si lascia andare alla descrizione della maturazione della sua anima durante il periodo di detenzione. Questa è una parte del libro molto carica di poesia e di contenuti profondi.
Pagine molto belle lo scrittore le dedica alla figura di Gesù Cristo. Lui non esalta la figura del Figlio di Dio, in lui non c'è infatti traccia di conversione religiosa, ma in Gesù vede il primo e il supremo artista da cui deriva tutta la buona arte. Egli è la perfetta fusione tra Bellezza e Dolore. Wilde lo definisce il principe degli innamorati, il quale vide che l'amore è il segreto che il mondo ha perduto e capì che solo grazie ad esso possiamo accostarci al trono di Dio. Lo scrittore contesta anche la visione di Gesù come filantropo, per lui fu invece un individualista: quando diceva di amare il proprio nemico, non lo faceva per il bene del nemico, ma per quello dell'anima a cui si rivolgeva, perché aveva capito che l'amore è meglio dell'odio; quando diceva al ricco di donare i suoi beni, non lo faceva per i poveri, bensì per l'anima del ricco, perché la ricchezza rovina l'anima più della povertà. Fu il primo individualista perché vedeva il Regno di Dio nell'anima di ciascun uomo.
Molto importanti sono anche le pagine che dedica alla scoperta del dolore. Nella sua esperienza carceraria, Wilde sente di aver compreso l'importanza di vivere il dolore. Lui ha già vissuto i piaceri, ma vivendo il dolore, comprendendo la bellezza di quest'altro lato della vita, sente che avrà una visione più completa della stessa. In lui non c'è una conversione religiosa, scopre l'importanza del dolore ma non rinnega affatto i piaceri della sua vita passata, che ritiene egualmente importanti. Non c'è in lui pentimento e non c'è neanche la volontà di diventare un uomo migliore, semplicemente sente di essere diventato un uomo più profondo. Questa sua nuova profondità non si manifesterà solo sulle azioni, ma anche nella sua arte.

Quando parliamo di Oscar Wilde, ci viene sempre in mente l'uomo che usò la sua arte e la sua vita per sovvertire ogni regola morale. I tanti aforismi che leggiamo di continuo in rete ci offrono l'immagine di un uomo cinico, che dedicò l'intera esistenza solo alla ricerca del piacere senza freni, un po' come il suo personaggio più celebre, Dorian Gray. In realtà proprio la fine di Dorian dovrebbe farci intuire che lo scrittore avesse un'anima ben più profonda, ma la lettura continua dei suoi aforismi, spesso sottratti al contesto in cui furono formulati, alimentano il mito del Wilde immorale e cinico.
Per ovviare all'equivoco di cui parlo sopra è fondamentale leggere il De Profundis. In questa lunga lettera c'è l'anima di Oscar Wilde. In essa possiamo vedere un uomo che per amore è andato incontro a una rovina prevedibile, una persona completamente in balìa dell'amore che viene maltrattata da un amante superficiale e a tratti violento. Wilde ama senza superficialità, per l'amante accetta di finire rovinato economicamente e di perdere il buon nome. Anche in carcere, l'autore sceglie di non cancellare l'amore dal suo cuore e di non cedere al rancore, sente infatti che così facendo distruggerebbe ciò che di bello rimane in lui. Lo scrittore poi nella sua esperienza carceraria opera una profonda riflessione che lo porta a una visione diversa della sua esistenza, in questo libro noi possiamo seguire la lenta maturazione di un Wilde, come egli stesso si definisce, più profondo.
Chi ama Oscar Wilde, o chi davvero vuole conoscerlo, non può sottrarsi a questa piacevolissima lettura.

Francesco Abate