domenica 29 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<<O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a l'affezione immensa,
e roratelo alquanto; voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa.>>
Il canto XXIV si apre con le parole di Beatrice rivolte agli apostoli: si rivolge a loro come agli invitati da Gesù (benedetto Agnello) al banchetto di sapienza (la gran cena - può essere anche un riferimento all'ultima cena) che nutre in modo tale da lasciare sempre intatta la voglia di averne ancora; gli chiede di rendere Dante partecipe del loro sapere, visto che per grazia di Dio può gustare gli avanzi di quel banchetto prima di essere morto; chiude la sua invocazione motivando la richiesta col fatto che essi bevono dall'eterna fonte a cui il poeta ha indirizzato ogni brama, cioè godono della sapienza che lui stesso ricerca. Gli apostoli mostrano il loro consenso diventando sfere che ruotano intorno a un asse fisso (spere sopra fissi poli) e aumentando l'intensità della propria luce, come fanno le comete. Le anime (che il poeta chiama carole, danza eseguita da più persone tenendosi per mano e ballando in cerchio) ruotano ognuna a una velocità differente, in base al maggiore o minor merito in vita, e ricordano a Dante il congegno ben ordinato degli orologi (orioli), in cui le ruote dentate girano a differenti velocità, tanto da far sì che la prima sembri ferma mentre l'ultima giri velocissima; queste differenze di velocità e luminosità fanno capire al poeta i loro diversi gradi di beatitudine ("E come cerchi in tempra d'orioli / si giran sì, che 'l primo a chi pon mente / quieto pare, e l'ultimo che voli; / così queste carole, differente- / mente danzando, de la sua ricchezza / mi facieno stimar, veloci e lente"). Tra i cerchi luminosi che girano, esce quello che deve appartenere all'anima più beata, perché tra gli altri che restano nella danza non ce n'è nessuno altrettanto luminoso; tre volte gira intorno a Beatrice e canta una melodia così divina da non essere descrivibile con la fantasia di Dante. L'autore spiega che non lo descrive perché la fantasia umana, così come le parole, non può risaltare in modo sufficiente la bellezza di quel canto; per spiegarlo fa riferimento alla tecnica pittorica del chiaroscuro: i pittori usano la tecnica del chiaroscuro per dare delicatezza alla piega dei vestiti e valorizzarla, quindi dietro le pieghe usano un colore di un tono più scuro per valorizzare la superficie più viva, ma la fantasia umana è un colore troppo chiaro per risaltare l'immagine col dovuto chiaroscuro ("Però salta la penna e non lo scrivo; / ché l'imagine nostra a cotai pieghe, / non che 'l parlare, è troppo color vivo"). 
L'apostolo più beato di tutti, che è san Pietro, si rivolge a Beatrice chiamandola sorella santa (santa suora mia) e le dice che la sua preghiera, così carica di carità, lo ha spinto a lasciare la corona di anime danzanti. Lei gli risponde chiamandolo luce eterna del grande uomo che ricevette da Gesù le chiavi del Paradiso, che Cristo stesso portò giù dal cielo, e gli chiede di testare le conoscenze di Dante circa la fede, grazie alla quale camminò sulle acque del mare di Galilea (episodio tratto dal Vangelo secondo Matteo), interrogandolo su argomenti facili e difficili, come meglio crede. La donna sa, e lo dice, che san Pietro vede tutto guardando in Dio e sa che Dante è in possesso delle virtù teologali (fede, speranza e carità), ma siccome nel regno di Dio sono fatti cittadini coloro che posseggono vera fede, è giusto che il poeta ci arrivi parlandone e glorificandola. Le parole di Beatrice ci spiegano che l'interrogazione di san Pietro a Dante non è un semplice riassunto delle conoscenze, ma ha lo scopo di introdurre la parte finale del poema, quindi la visione della Trinità, con una ferma professione di fede dal valore di trionfale introduzione.
Dante, sentendo le parole di Beatrice, fa come il baccelliere (il baccello era il primo grado accademico delle scuole teologiche, inferiore a quello di maestro e a quello di dottore) che tace fino a che il maestro non gli propone una questione, perché la sostenga con le tesi a favore, non perché la porti a compimento; egli richiama alla memoria la dottrina teologica così da essere pronto alle richieste di san Pietro.
La prima domanda di san Pietro, molto concisa, è cosa sia la fede. Dante guarda prima la luce da cui è provenuta la voce, poi si volta verso Beatrice la quale, senza parlare, lo esorta a spandere l'acqua fuori dalla sua fonte interna, quindi a manifestare le sue conoscenze. Non è casuale che il poeta prima di rispondere volga lo sguardo a Beatrice, essa infatti è normalmente per lui fonte di conforto, ma non dobbiamo dimenticare che rappresenta anche la teologia, quindi è da lei che deve infondersi in lui la conoscenza della risposta. Dante invoca Dio (la Grazia) affinché gli permetta di esprimere bene i suoi concetti a san Pietro, che lui definisce primopilo (il centurione più alto in grado nella legione romana). Dopo l'invocazione, il poeta risponde: come scrisse san Paolo, che mise Roma sulla retta via, la fede è il fondamento di ciò che speriamo di conseguire nella vita eterna ("è sustanza di cose separate") ed è la prova delle cose che la mente non vede ("argomento de le non parventi"); questa a lui sembra la sua essenza (sua quiditate).
San Pietro dice a Dante che la definizione è giusta, ma deve chiarire perché san Paolo pose la fede tra i fondamenti e le prove. Il poeta risponde: i misteri di Dio, che lui vede lì nel Paradiso, non sono visibili a chi è in vita, perciò chi vive in esso può soltanto avere fede e su questo si fonda la speranza, perciò la fede ne è fondamento; dalla fede poi conviene ragionare e pervenire alla certezza come si fa coi sillogismi, senza avere altre prove, per questo essa è prova.
San Pietro a questo punto dice che sulla Terra non esisterebbero discussioni e ricerca di cavilli se la dottrina teologica fosse da tutti compresa come l'ha compresa lui, poi aggiunge che ha valutato bene il peso e la lega della moneta (la fede) e gli chiede se la possiede. Subito Dante risponde di sì, ce l'ha bella lucida e integra perché su di essa non ha mai avuto dubbi ("Ond' io: <<Sì, ho, sì lucida e sì tonda, / che nel suo conio nulla mi s'inforsa>>").
Il santo ancora gli domanda come venne a lui la fede, la preziosa gemma su cui si fonda ogni virtù. Dante risponde che la grazia dello Spirito Santo, diffusa sugli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento (in su le vecchie e in su le nuove cuoia), è tanto persuasiva da fargli sembrare insufficiente ogni altro argomento di dimostrazione.
A questo punto l'apostolo gli chiede come possa essere sicuro che le Scritture contengano davvero la parola di Dio. Dante gli risponde che l'avverarsi delle profezie e i miracoli, di cui si narra nella Bibbia, sono una prova sufficiente, perché a loro confronto la natura pare un semplice fabbro, cioè un lavoratore dotato di mezzi limitati. San Pietro gli chiede a questo punto come possa essere sicuro che i miracoli narrati nella Bibbia siano davvero accaduti, infatti a testimoniarlo ci sono solo i libri sacri, la cui ispirazione divina il poeta non ha ancora dimostrato. Il poeta risponde che la proliferazione del Cristianesimo nel mondo in assenza di miracoli è già di per sé un miracolo cento volte più grande di quelli narrati dalla Bibbia; lo è il fatto che lo stesso san Pietro, povero e digiuno, andò a seminare la pianta che divenne poi la vigna del Signore, e che oggi a causa della corruzione del papato è diventata sterile e spinosa (pruno). Terminata la risposta del poeta, le varie corone dei beati intonano un Te Deum nella melodia che si canta in Paradiso.
San Pietro, il maestro che ha condotto l'allievo di ramo in ramo, tanto che ora è vicino alle ultime fronde (si avvicina la fine dell'interrogazione), gli dice che la Grazia, la quale domina la sua mente, l'ha fatto rispondere bene e lui approva ciò che ha detto, infine gli chiede di manifestare quello in cui ha fede e dire da dove questa gli derivi. Dante gli si rivolge come santo padre, ricordando come lui credette senza esitazione alla Resurrezione di Gesù e per questo entrò nel sepolcro prima di san Giovanni, che invece esitò e ne rimase fuori, e gli risponde circa la sostanza della sua fede e il motivo della stessa ("tu vuo' ch'io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo"): lui crede in un Dio unico ed eterno, che non è mosso, ma muove tutto il cielo con l'amore e il desiderio; circa l'esistenza di Dio lui non ha solo prove fisiche e metafisiche (descritte da san Tommaso nelle famose "cinque vie"), ma anche quelle date dalle Scritture attraverso Mosè, le parole dei profeti e dei salmi, il Vangelo e gli atti di loro apostoli che furono spinti a scrivere dallo Spirito Santo; crede nelle tre Persone eterne, le quali sono contemporaneamente unica e triplice essenza di Dio, tanto che per parlare di loro è possibile usare il verbo sia al singolare che al plurale; questa verità circa la Trinità di Dio non è comprensibile con la ragione, ma lui ne è certo grazie alla dottrina evangelica; questo è il principio, la favilla da cui scaturisce la fiamma della fede che in lui scintilla come una stella in cielo (la fede in Dio e nella sua Trinità e alla base di tutta la dottrina ed è per lui una guida).
San Pietro, come il padrone che ascolta il servo dargli una buona notizia e lo abbraccia quando questi tace, benedice Dante cantando e lo abbraccia tre volte non appena ha finito di parlare. Il canto termina con una constatazione del poeta: san Pietro, il migliore tra gli apostoli, canta e lo abbraccia tanto è rimasto contento delle sue parole. Questa conclusione non va interpretata come una manifestazione di presunzione, coi primi versi del canto successivo capiremo come in questa professione di fede egli confidi per essere riammesso a Firenze e ricevere l'incoronazione poetica nel Battistero di san Giovanni.

P.S. - essendo questo l'ultimo post del 2019, colgo l'occasione per augurarvi un 2020 carico di felicità e ottime letture.

Francesco Abate     

giovedì 19 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
prevene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l'alba nasca
Il canto XXIII si apre con una metafora: Beatrice guarda al cielo verso il meridiano dove il sole sembra muoversi più lentamente (la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta), cioè dove sta a mezzogiorno, con un'ansia paragonabile a quella con cui un uccello posato sul ramo dove tiene il nido aspetta l'arrivo dell'alba, così da poter provvedere alla ricerca del cibo per i suoi piccoli (un lavoro gravoso che per la madre diventa un piacere). Vedendola attendere con ansia, Dante diventa simile a colui il quale, pur desiderando ardentemente qualcosa, attenua la voglia consolandosi con la speranza di essere presto soddisfatto ("sì che, veggendola io sospesa e vaga, / fecimi qual è quei che disiando / altro vorria, e sperando s'appaga"). Dopo la nascita del desiderio nel poeta, passano pochi attimi e il cielo comincia a rischiararsi. Beatrice a questo punto annuncia le anime degli uomini che hanno ben operato grazie agli influssi delle stelle fisse, diventando beati (tutto 'l frutto ricolto dal girar di queste spere), e i combattenti dell'esercito di Cristo (le schiere del triunfo di Cristo); secondo alcuni critici in realtà in questa visione ci sono tutti i beati che il poeta ha visto nel suo viaggio in Paradiso, ma si tratta di un'interpretazione che andrebbe a cozzare con la struttura del poema. 
Alla vista di quello spettacolo, il viso di Beatrice a Dante sembra ardere, e i suoi occhi si riempiono di tanta grazia da spingere l'autore a rinunciare alla ricerca di parole per descriverlo ("Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni, / che passarmen conven senza costrutto"). Così come nelle notti di plenilunio la Luna (Trivia) splende tra le stelle, che illuminano il cielo intero, così vede sopra migliaia di beati (lucerne) una grande luce (sole) che le illumina come il sole fa con le stelle; in quella luce traspare la figura umana di Cristo (la lucente sostanza) in modo così splendente da non essere sostenibile per lo sguardo del poeta. Beatrice, che l'autore elogia e definisce "dolce guida e cara" (un elogio che, letto nella contemporaneità dei fatti narrati, suona come un grido d'aiuto, se invece lo leggiamo nella contemporaneità della scrittura, quindi dopo i fatti, suona come un ringraziamento), gli spiega che a vincere la sua vista è la virtù divina che è al di sopra di ogni cosa, colui che con la sapienza e la potenza aprì le strade tra il cielo e la terra (con l'Incarnazione e la Passione portò la pace e la grazia), cosa che si desiderava da tempo. Alla vista di questo prodigio, la mente di Dante esce da sé stessa così come il fulmine che, dilatato al punto da non poter più essere contenuto dalla nube, si scarica a terra; quello che accade poi, il poeta non lo ricorda. Circa il riferimento al fulmine, il poeta lo descrive come fuoco di nube che, non trovando spazio per dilatarsi nelle nubi di vapore acqueo, si scarica a terra: all'epoca così era scientificamente interpretato il fenomeno ("Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape, / e fuor di sua natura in giù s'atterra, / la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di se stessa uscio, / e che si fesse rimembrar non sape").
Beatrice invita Dante ad aprire gli occhi e guardarla, perché avendo visto la luce di Cristo, il poeta adesso può sostenere la vista del suo sorriso. Il poeta è come chi si sveglia da una visione dimenticata, che invano prova a ricordare, quando sente la donna fargli questa offerta degna di gratitudine che lui non cancellerà mai dal libro della memoria. Contempla così il sorriso di Beatrice, e ci dice che, se anche in suo aiuto giungessero tutti i poeti ispirati dalla musa Polinnia (musa della lirica) e dalle sue sorelle, non riuscirebbe a rendere neanche la millesima parte di quello splendore ("Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnìa con le suore fero / del latte lor dolcissimo più pingue, / per aiutarmi, al millesmo del vero / non si verria, cantando il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero"). 
L'autore a questo punto spiega che la descrizione del Paradiso impone che il poema salti alcune cose, come chi trova interrotto il proprio cammino, ma il lettore che si rendesse conto della grandezza del tema trattato e di quanto sia complesso per le potenzialità umane (lui usa la metafora del grande peso messo sulle spalle umane), di certo non biasimerebbe l'autore: il mare in cui sta navigando non è percorribile né da una piccola barca né da un timoniere che vuole risparmiare le forze. 
La narrazione torna di nuovo a Beatrice che parla e chiede a Dante perché, preso dall'estasi amorosa, per guardarle il viso non volge lo sguardo al giardino celeste che fiorisce sotto i raggi della luce di Cristo. Indica poi al poeta che lì c'è la Madonna e ci sono gli apostoli; in questa indicazione continua la metafora del giardino, infatti la Vergine è indicata come la rosa in cui si è incarnato il vero divino, mentre gli apostoli sono indicati come i gigli che col profumo indicarono la retta via (chiara metafora della loro predicazione). Dante, che è sempre pronto a seguire le indicazioni di Beatrice, torna di nuovo con lo sguardo alla battaglia contro quella luce che prima aveva faticato a sostenere. Così come in vita gli è capitato di vedere un prato fiorito illuminato da un raggio di sole filtrato dalle nubi, adesso vede le schiere di beati folgorati dalla luce di Cristo, senza però vedere l'origine di questa luce. Il poeta capisce di poter adesso vedere senza problemi i beati perché la luce di Cristo si è sollevata più in alto, per questo la esalta, visto che si è sollevata per permettere ai suoi occhi di vedere quello spettacolo ("O benigna vertù che sì li 'mprenti, / su t'esaltasti, per largirmi loco / a li occhi lì che non t'eran possenti"). 
Udito prima da Beatrice, il nome di Maria, che lui sempre invoca mattina e sera, lo spinge a guardare la luce più intensa; non appena alla sua vista si manifestano la quantità e la qualità della luce di Maria, che in Paradiso vince in luminosità i beati così come sulla Terra vinse tutti in virtù, dal cielo scende un lume ardente (facella) di forma circolare come una corona, che la cinge e gira intorno a lei. L'angelo, che incorona il più bel gioiello del cielo intero (il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s'inzaffira), intona un canto al cui confronto tutte le più dolci melodie della Terra, anche quelle capaci di attirare l'anima, sembrano il rombo di un tuono. L'angelo, che altri non è che l'arcangelo Gabriele, si presenta come l'amore angelico che gira intorno al ventre da cui nacque il Messia, poi annuncia che girerà finché Maria non seguirà Gesù nell'Empireo, rendendolo ancor più bello. Mentre l'angelo intona questo canto, gli altri beati cantano il nome di Maria. A questo punto la Vergine incoronata dell'angelo (la coronata fiamma) sale verso l'alto insieme a Gesù Cristo e Dante non riesce a seguirla con lo sguardo perché il nono cielo, che avvolge tutti gli altri ed è più acceso dall'amore di Dio perché più vicino, è tanto lontano da non essere visibile. A questo punto ciascuno dei beati tende verso l'alto la propria luce, così come il poppante tende le braccia verso la madre dopo aver preso il latte; questo rende palese al poeta il grande amore che essi hanno per la Vergine. I beati restano al cospetto di Dante e intonano il Regina coeli (preghiera recitata nel periodo pasquale) con una dolcezza tale che a distanza di anni ricorda ancora. 
La vista dello spettacolo spinge l'autore a chiudere il canto con delle considerazioni. Prima di tutto loda la ricchezza delle anime dei beati, paragonati nel canto a forzieri (arche) carichi di beni, che in vita furono terreni in cui fu bene seminare; la parola bobolce per alcuni significa lavoratori della terra, per altri campi da semina: nel primo caso essi sarebbero descritti da Dante come seminatori della parola di Dio ma, visto che non tutti i beati furono predicatori, è più giusto intenderli come terreni da semina, riprendendo così la parabola evangelica del terreno fertile in cui il seme della parola dà buon frutto. Continuando il suo elogio, l'autore scrive che nel Paradiso si gode del tesoro accumulato dalle sofferenze patite sulla Terra (ne lo esilio di Babillòn); lì trionfa san Pietro, che tiene le chiavi della Chiesa, insieme al Figlio di Dio, a Maria, e alle anime del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Francesco Abate

mercoledì 11 dicembre 2019

STORIA: IL FUMO DENSO DEL TERRORISMO

Il 12 dicembre è una delle date più tristi della storia dell'Italia repubblicana, ricorre infatti l'anniversario della strage di piazza Fontana. Si tratta di uno degli attentati che più scosse l'opinione pubblica, perché non colpì politici ma gente comune, ed è ancora oggi una macchia indelebile sulla storia del nostro paese, visto che a distanza di 50 anni resta una strage senza colpevoli.

Venerdì 12 dicembre 1969, alle ore 16:37, un ordigno contenente 7 kg di tritolo esplose nella sede della Banca Centrale dell'Agricoltura a Milano, in piazza Fontana. L'esplosione, avvenuta in orario di apertura al pubblico, uccise 17 persone e ne ferì più di 80. Raccontò alla televisione un impiegato: "...ho visto cadaveri da tutte le parti. Sulla destra c'era un signore senza le gambe che chiedeva aiuto" (Fonte: La notte della Repubblica - Sergio Zavoli).
Subito gli inquirenti iniziarono a seguire la pista anarchica, ricordiamo che era il periodo degli anni di piombo e fioccavano gruppi di estrema sinistra che usavano il terrorismo come strumento di lotta (ve n'erano anche di estrema destra, ma agli inquirenti sul momento non sembrò importante). Fu privilegiata la pista anarchica, ma nell'opinione pubblica si levò qualche voce di dissenso, tra cui quella del grande giornalista Indro Montanelli, il quale osservò come gli anarchici fossero soliti colpire obiettivi politici ben precisi, mentre la strage di piazza Fontana aveva colpito gente a caso. 
Nei quattro giorni successivi all'attentato vennero fermati solo a Milano 84 esponenti anarchici o di estrema sinistra.
Le accuse caddero subito su Giuseppe Pinelli, figura di spicco degli ambienti anarchici milanesi; gli interrogatori a Pinelli procedettero regolarmente per diverse ore, finché una notte l'interrogato volò giù dalla finestra della questura al quarto piano (e la moglie lo venne a sapere dai giornalisti). Nella stanza degli interrogatori con Pinelli erano presenti quattro poliziotti e un capitano dei carabinieri, nei confronti dei quali fu aperto un procedimento per omicidio volontario, mentre il commissario Luigi Calabresi fu accusato di omicidio colposo perché non presente al momento del fatto. I poliziotti e il carabiniere furono poi prosciolti perché "il fatto non sussiste"; la sorte peggiore toccò al commissario Calabresi che, ritenuto colpevole di omicidio volontario dai gruppi di sinistra extraparlamentare, fu ucciso tre anni dopo con cinque colpi di pistola. Ad oggi, la verità sulla morte di Pinelli non è nota. La tesi ufficiale dei presenti fu che si trattò di un suicidio, ma a distanza di anni Pietro Valpreda, amico di Pinelli e suo compagno "di lotta", nonché un altro accusato per la strage, in un'intervista rilasciata alla trasmissione La notte della Repubblica si dichiarò convinto che fosse stato ucciso, sollevando anche dei dubbi sull'arresto e le accuse mosse a Pinelli, segnalando come all'accusato fosse stata concessa una libertà normalmente non concessa neanche a un sospettato di reati minori (fu libro di muoversi in questura e telefonare a piacimento, inoltre in centrale ci arrivò seguendo le auto col proprio motorino e non in stato di arresto).
La pista anarchica portò all'arresto di Pietro Valpreda, anarchico amico di Giuseppe Pinelli; era arrivato a Milano la mattina presto del 12 dicembre 1969 e fu riconosciuto da un tassista in un confronto davanti ai giudici. L'accusa cadde subito, anche perché la testimonianza del tassista fu incerta e, benché ciò fu omesso negli atti ufficiali, a detta di Valpreda fu anche ritrattata dallo stesso testimone nel corso del confronto. 
Dopo un anno e mezzo di indagini, nuovi sviluppi portarono gli inquirenti a seguire la pista nera. Le indagini svolte a Treviso, dove erano risultati venduti i timer delle bombe, portarono ai nomi di Franco Freda e Giovanni Ventura (Ordine Nuovo il primo, MSI il secondo). Le dichiarazioni di Ventura portarono anche al nome di Guido Giannettini, uomo sul libro paga dei servizi segreti.
Dal momento in cui si iniziò a seguire la pista dell'estremismo fascista, iniziarono le ingerenze e i depistaggi del SID (servizi segreti). Il primo episodio riguardò Marco Pozzan, uomo di fiducia di Freda, che fu intercettato dai servizi segreti durante la latitanza e, benché fosse interessato da un mandato di cattura per concorso nella strage, fu fornito di passaporto falso e fatto espatriare. A Giovanni Ventura invece il SID fornì gli strumenti per evadere dal carcere di Monza, dove era detenuto. Anche Giannettini venne salvato dai servizi segreti non appena fu accusato di concorso in strage: il SID lo spedì in Francia e continuò a stipendiarlo. Ovviamente poi, oltre ai favori fatti agli accusati, il SID ostacolò le indagini riparandosi dietro al segreto di Stato ogni volta che un suo esponente si trovava davanti ai magistrati. 
Tanto fu massiccio il ricorso al segreto di Stato durante le indagini, che il Governo provvide con la legge n.801 del 24 ottobre 1977 a sancire che "In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordinamento costituzionale".
Il processo andò avanti a fasi alterne, con anche diversi spostamenti della sede per motivi di ordine pubblico. 
Negli anni '90 le dichiarazioni di vari pentiti, tra cui spiccarono Carlo Digilo e Martino Siciliano, portarono all'accusa di diversi esponenti di Ordine Nuovo e si arrivò alla condanna all'ergastolo nei confronti di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. La soddisfazione di aver dato un nome agli esecutori della strage durò solo tre anni, infatti in appello gli imputati furono assolti e i pentiti furono dichiarati inattendibili.
L'ultima beffa è arrivata il 3 maggio del 2005: il tribunale ha confermato la responsabilità di Ordine Nuovo e ha ritenuto valida la pista che porta alle responsabilità di Ventura e Freda, ma non è più possibile processarli perché sono stati già giudicati per lo stesso reato.

Sono passati 50 anni dalla strage di piazza Fontana e ancora oggi i colpevoli non hanno un nome. Non sappiamo perché hanno ucciso 17 persone, non sappiamo chi l'ha fatto e, quel che è peggio, non sappiamo perché i servizi segreti, i quali dovrebbero fare gli interessi dello Stato, hanno depistato le indagini. 
A distanza di tanti anni, appare condivisibile il pessimismo di Valpreda, che ai microfoni di Sergio Zavoli disse: "Io, per conto mio, sono convinto che alcune verità non si sapranno più. Credo che, anche aprendo tutti gli archivi dei servizi segreti, non possano emergere altre verità".

Francesco Abate

venerdì 6 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;
e quella, come madre che soccorre
subito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che 'l suol ben disporre,
mi disse: <<Non sai tu che tu se' in cielo?
Il grido dei beati con cui si è chiuso il canto XXI causa in Dante stupore e spavento, perciò si volta verso Beatrice come un bambino spaventato fa con la madre e lei, con la voce della madre che rincuora il piccolo spaventato e desideroso di capire il motivo del suo spavento, gli fornisce una rapida spiegazione. La guida attraverso due domande retoriche gli ricorda che ora si trova in cielo, dove tutto è giusto perché viene dall'amore e dalla volontà del bene (da buon zelo); gli fa notare poi che, se un grido lo ha tanto agitato e oppresso, può bene immaginare che effetto avrebbero avuto su di lui il suo sorriso o il canto dei beati; infine gli spiega che, se avesse compreso le parole del grido, avrebbe scoperto che si trattava di una preghiera con la quale i beati hanno invocato la giusta punizione contro coloro che hanno corrotto l'istituzione sacra della Chiesa, la quale sarà vista dal poeta prima della morte ("Come t'avrebbe trasmutato il canto, / e io ridendo, mo pensar lo puoi, / poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; / nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, / già ti sarebbe nota la vendetta, / che tu vedrai innanzi che tu muoi"). La giustizia di Dio, conclude Beatrice, è fuori dal tempo, ma per chi la invoca o per chi l'attende può risultare o troppo lenta o troppo veloce; detto ciò, invita il discepolo a prestare attenzione ai beati, perché avrà modo di vedere degli spiriti illustri. Circa il discorso di Beatrice, bisogna soffermarsi un attimo sulla profezia della "vendetta" vista da Dante prima della morte, pronunciata nei versi 14 e 15. Molti critici oggi vedono in queste parole una profezia indeterminata, cioè non collegata a un evento storico preciso, ma altri, visto il riferimento temporale, si azzardano a collegarla con l'episodio di Anagni (in cui papa Bonifacio VIII fu catturato e umiliato dai francesi) o con la morte di Clemente V.
Ascoltando le parole della sua guida, Dante volge lo sguardo ai beati e vede tantissime sfere che si abbelliscono vicendevolmente col loro splendore. Il poeta sta come chi reprime un desiderio acuto e non fa domande, consapevole che chiederebbe più di quanto sia lecito. A un certo punto la gemma più luminosa (la più luculenta di quelle margherite) avanza intenzionata a soddisfare la voglia del poeta, e da dentro quella luce Dante sente provenire delle parole. 
Lo spirito dice che, qualora il poeta vedesse come vede lui la carità che arde tra i beati, non esiterebbe a porre le domande che lo tormentano, poi gli dice che risponderà leggendogli le domande nel pensiero, così da evitare che la sua esitazione lo porti a completare in ritardo il suo sacro viaggio. Fatta questa premessa, il beato rivela di aver vissuto sul monte Cairo, nel cui pendio è Cassino, che era usato dai pagani per i sacrifici ad Apollo e a Diana, e lì fu il primo a portare il messaggio di Gesù (colui che portò quella verità che ora eleva i beati al punto in cui sono); tanta fu la grazia che su di lui splendette (non si prende il merito della diffusione del Cristianesimo, parla di sé come uno strumento di Dio) che allontanò gli abitanti delle città circostanti dal paganesimo ("e tanta grazia sopra me relusse, / ch'io ritrassi le ville circunstanti / da l'empio colto che 'l mondo sedusse"). Dopo essersi presentato, dalle sue parole è infatti chiaro che si tratta di san Benedetto, indica altri beati presenti lì con lui: Macario, san Romualdo, e i frati benedettini che rimasero fedeli alla sua Regola ("dentro ai chiostri fermar li piedi e tenner lo cor saldo"). I beati indicati da san Benedetto sono tutti collegabili alla vita monastica, san Romualdo infatti fu fondatore dei benedettini camaldolesi, ma ci sono delle incertezze biografiche circa Macario: è chiaro che Dante si riferisca a Macario d'Alessandria, ma questo nome è appartenuto a due eremiti egiziani che venivano all'epoca sempre confusi tra loro, perciò è impossibile stabilire con certezza a chi dei due facesse riferimento il poeta.
Sentite le parole del santo, Dante dichiara che sia l'amore da lui dimostrato parlando sia le luci dei beati hanno allargato la sua fiducia, come il sole spinge la rosa ad aprirsi al massimo delle sue possibilità ("come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant'ell'ha di possanza"), poi lo prega di mostrarsi nella sua immagine non celata dalla luce ("con imagine scoverta"). 
San Benedetto gli risponde che quel desiderio sarà esaudito nell'Empireo (ultima spera), dove si adempiono tutti i desideri, compreso il proprio, che lì giungono perfetti e maturi; spiega poi che nell'Empireo ogni punto è dov'è sempre stato, perché non si sviluppa nello spazio e non ha poli attorno cui girare, per questo è immobile (senza cambiamento di luogo, non può esserci movimento); fin lì arriva la scala, dice ancora, per questo il poeta non riesce a seguirla con lo sguardo (la contemplazione supera lo spazio e arriva fino all'Empireo, là dove la vista umana e la ragione non possono arrivare). Fin lassù, spiega il santo, arrivava la scala che Giacobbe vide in sogno, quando la parte superiore gli apparì piena di angeli. La scala arriva fin lassù, ma san Benedetto constata come nessuno oggi stacchi i piedi da terra per salirla, e la sacra regola che lui scrisse non è più rispettata da nessuno, restando perciò una scrittura utile solo a sporcare la carta; i monasteri che furono badie, cioè che ospitarono anime sante, adesso sono spelonche piene di ladri, e le tonache dei monaci sono sacche piene di farina guasta ("Le mura che solieno esser badia / fatte sono spelonche, e le cocolle / sacca son piene di farina ria"). Il santo continua la sua invettiva dicendo che l'usura, peccato grave, non offende Dio quanto i monaci che si appropriano delle rendite ecclesiastiche, perché tutto ciò che è custodito dalla Chiesa (quantunque la Chiesa guarda) appartiene ai poveri che chiedono l'elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei monaci o a persone ancor più indegne (concubine, figli illegittimi). Mitiga poi la sua invettiva con una constatazione circa la fragilità dell'uomo, la quale richiama al capitolo sessantaquattresimo della regola benedettina, la quale impone all'abate di correggere i vizi con prudenza e carità, ricordandosi della fragilità umana; dice che la carne dei mortali è così debole che qualsiasi opera buona iniziata alla nascita di una quercia dura fino alla nascita della ghianda. Dopo l'invettiva, san Benedetto ricorda che Pietro fondò la Chiesa senza alcuna ricchezza, lui stesso creò il proprio ordine con orazioni e digiuni, e san Francesco il suo convento lo fondò con umiltà; se però Dante guarda quegli inizi e poi vede come sono adesso quelle creazioni, vedrà il bianco mutato in bruno (tutto è rovinato). Il suo discorso il santo lo conclude rassicurando il poeta, dicendogli che i miracoli di Dio nel mar Rosso e nel Giordano, col mare che si aprì e il fiume che si voltò al passaggio degli israeliani, furono ben più grandi di quel che farà per riportare gli ordini e la Chiesa alla loro antica purezza.
Finito di parlare, san Benedetto si ricongiunge alle altre anime e tutte si stringono per poi turbinare verso l'alto. Beatrice con un cenno esorta Dante a salire lungo la scala e la sua volontà vince la natura umana del poeta, che avrebbe dovuto costituire un impedimento (sì sua virtù la mia natura vinse); il volo che fanno i due non è paragonabile alle salite e alle discese che si fanno sulla Terra per mezzo delle sole forze naturali ("né mai qua giù dove si monta e cala / naturalmente, fu sì ratto moto, / ch'agguagliar si potesse a la mia ala"). L'autore si augura di tornare un giorno al cospetto di quel devoto trionfo dei beati, per il quale spesso piange e si batte il petto in segno di penitenza, poi dice al lettore che non riuscirebbe a mettere il dito nel fuoco e tirarlo via per il calore in così poco tempo quanto lui ne impiegò per ritrovarsi nella costellazione dei Gemelli ('l segno che segue il Tauro). 
Dante si trova nel cielo delle stelle fisse e inizia un'invocazione alle stelle dei Gemelli, sotto il cui influsso sentì per la prima volta l'aria di Toscana (nacque) e da cui ha ricevuto il suo ingegno, qualunque esso sia, e in cui è stato disposto che si trovasse al momento della salita in quel cielo; a esse egli chiede la virtù necessaria per descrivere la parte finale del suo viaggio in Paradiso, quella che lo condurrà al cospetto di Dio.
Beatrice dice al poeta che si trova così vicino a Dio (l'ultima salute) che deve aver perduto i limiti terrestri della vista, quindi può vedere tutto chiaramente; detto questo, lo invita a guardare in basso e vedere quanto si è innalzato sotto la sua guida, così che il suo cuore si avvicini giocondo alla schiera trionfante delle anime che stanno in questo cielo. Dante fa ciò che gli ha detto la guida e vede i sette pianeti, con la Terra così piccola e lontana da indurlo a sorridere, a considerare più giusto il pensiero di chi decide di valutarla come cosa poco importante e a considerare davvero saggio chi decide di rivolgere al cielo i suoi pensieri. Vede poi la Luna illuminata (la figlia di Latona incensa) senza le macchie (i mari) che l'avevano indotto a credere che avesse maggiore o minore densità in alcuni punti. Vede poi il sole (che nella mitologia era considerato figlio di Iperione) la cui vista ora riesce a sostenere senza essere abbagliato, e vede come si muovano vicino a lui i pianeti Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di Dione). Vede poi il temperare (gli antichi consideravano Marte caldo e Saturno freddo, Giove nel mezzo era temperato) di Giove tra Marte, il figlio, e Saturno, il padre, e gli appare chiaro il loro movimento nel cielo. Dall'alto vede la grandezza e la velocità con cui si muovono tutti e sette i pianeti, come anche la distanza che li separa l'uno dall'altro. La Terra, che da quell'altezza gli appare come un'aia, un giardinetto, e che tanto feroci rende gli uomini, la vede tutta dai monti ai mari (per altri critici l'espressione da' colli a le foci significa "dalle colonne d'Ercole alle rive del Gange"). Osservato l'universo sottostante, Dante volge lo sguardo agli occhi di Beatrice.

Francesco Abate 
    

venerdì 29 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.
Il canto inizia col poeta che volge i suoi occhi a Beatrice e con essi a lei volge anche il suo animo, liberandolo da ogni altra incombenza; con questa immagine l'autore ci introduce già al tema della contemplazione, fondamentale visto che sta per mostrarci il cielo di Saturno, che è appunto quello degli spiriti contemplativi. Dante si accorge che lei non ride; la donna gli spiega che se lo facesse lo ridurrebbe in cenere, come accadde a Semele quando Zeus le si mostrò nella sua pienezza, infatti la sua grazia aumenta man mano che si risale verso i cieli superiori e, se non venisse attenuata, sarebbe troppo forte per i sensi di un mortale e lo distruggerebbe, come un fulmine fa con un ramo ("ché la bellezza mia, che per le scale / de l'etterno palazzo più s'accende, / com'hai veduto, quanto più si sale, / se non si temperasse, tanto splende, / che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore, / sarebbe fronda che trono scoscende"). Dopo avergli spiegato perché non ride, Beatrice informa Dante che sono saliti al settimo cielo, quello di Saturno, che in quel periodo è visibile dalla Terra nella costellazione del Leone. Alla fine la donna esorta il poeta a prestare attenzione a quello che sta per vedere ("Ficca di retro a li occhi tuoi la mente") e a fare in modo che i suoi occhi siano specchi che riflettono ciò che sta per apparire. La scelta dell'autore di informarci che Saturno nel periodo in cui si svolge la vicenda transita nella costellazione del Leone non è da considerarsi solo come uno dei tanti riferimenti temporali del poema, è allo stesso tempo un'introduzione allo spirito che apparirà nel canto: Saturno è il pianeta associato alla virtù contemplativa, mentre il Leone è la costellazione dell'ardore, e il santo che vedremo dopo nella vita unì in sé i meriti della contemplazione e della vita attiva.
Dante obbedisce all'esortazione di Beatrice e volge la sua attenzione al cielo in cui si trova. Scrive che solo colui che sa quanto egli godesse nel contemplare il volto dell'amata, può capire quanto gli piacesse obbedirle leggendo come volse rapidamente lo sguardo altrove ("Qual savesse qual era la pastura / del viso mio ne l'aspetto beato / quand'io mi trasmutai ad altra cura, / conoscerebbe quanto m'era a grato / ubidire a la mia celeste scorta, / contrapesando l'un con l'altro lato"). Il poeta guarda nel pianeta che porta il nome della divinità (Saturno) sotto il cui regno morì ogni malizia (l'età dell'oro, contraddistinta dall'innocenza dei costumi; ne parla Ovidio nelle Metamorfosi) e vede una scala color dell'oro su cui si riflettono i raggi del sole e che sale talmente in alto da non permettergli di vederne la fine. Per i gradini di questa scala vede scendere tante luci (i beati) da fargli credere che da lì venga ogni luce che è nel cielo. Il movimento dei beati ricorda a Dante quello istintivo ("per lo natural costume") delle cornacchie (le pole) quando all'alba, per scaldarsi le piume intirizzite, alcune volano dal nido per non tornare più, altre fanno un volo per poi tornare, altre ancora si aggirano volando là intorno; allo stesso modo sembrano comportarsi i beati quando raggiungono un gradino.
Un'anima si avvicina a Dante e aumenta il proprio splendore, rendendo evidente nella mente del poeta l'amore che prova per lui. Beatrice, colei da cui il poeta aspetta indicazioni sui modi e i tempi in cui parlare ("quella ond'io aspetto il come e 'l quando del dire e del tacer"), tace. Visto il solenne silenzio creato dall'anima e dalla guida, Dante decide suo malgrado di non spezzarlo e di non chiedere nulla. A questo punto la donna, vedendolo in silenzio, lo esorta a soddisfare il suo desiderio di chiedere. Il poeta si rivolge all'anima, dichiara di non essere degno di una sua risposta, ma lo esorta a soddisfarlo in nome di Beatrice ("colei che 'l chieder mi concede") e gli chiede come mai si sia avvicinata a lui e perché nel cielo di Saturno le anime non cantano come accade nei cieli inferiori ("e dì perché si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che giù per altre suona sì divota").
Lo spirito gli risponde che non cantano per lo stesso motivo per il quale Beatrice non sorride, infatti anche l'udito del poeta è umano come la vista e il loro canto lo incenerirebbe. Spiega poi che è sceso lungo la santa scala per manifestargli con la luce che lo avvolge la gioia di vederlo, ma non lo ha fatto per un maggiore amore che prova per lui, perché da lì in su i beati provano il suo stesso amore o anche di più, semplicemente l'ha spinto il volere di Dio (l'alta carità), di cui tutti loro sono servi.
Sentite le parole dello spirito, Dante manifesta il suo dubbio: sa bene come basti il loro libero amore per seguire il volere di Dio senza ricevere ordini, ma non riesce a spiegarsi perché mai sia proprio lui a essere destinato al compito di avvicinarglisi (non si spiega secondo quali criteri un'anima sia predestinata rispetto a un'altra).
Il poeta non finisce di porre la domanda che già la luce inizia a ruotare orizzontalmente intorno al proprio asse come una macina (mola), poi l'anima che da essa è avvolta gli risponde. Spiega che la luce divina penetra in lui attraverso la luce che lo avvolge e lo eleva al punto di permettergli di vedere la divina essenza da cui è emanata ("la somma essenza de la quale è munta"), ovviamente in proporzione ai suoi meriti in vita ("<<Luce divina sopra me s'appunta, / penetrando per questa in ch'io m'inventro, / la cui virtù, col mio veder congiunta, / mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio / la somma essenza de la quale è munta"); da qui viene la gioia che traspare dalla sua luminosità, che è tanto intensa quanto è chiara la sua visione della luce divina. Nonostante la capacità di vedere in Dio delle anime beate, perfino a Maria, l'anima che ha più chiara di tutte la visione di Dio, e perfino al serafino (i serafini costituiscono il primo ordine delle gerarchie angeliche), è impossibile rispondere alla domanda di Dante circa la predestinazione, questo perché è una questione che si inoltra così tanto nell'abisso delle eterne disposizioni di Dio da essere al di fuori dell'intelletto di ogni creatura ("da ogne creata vista è scisso"). Detto ciò, lo spirito invita il poeta ad ammonire i mortali, con particolare riferimento ai teologi che disputano sulla predestinazione, affinché non osino incamminarsi verso una meta così inaccessibile ("sì che non presumma a tanto segno più mover li piedi"), quindi non si permettano di fare congetture su un argomento così fuori dalla portata dell'uomo. La mente in cielo è luce pura mentre sulla Terra produce fumo, non è pensabile, conclude il beato, che laggiù si comprenda ciò che in Paradiso è incomprensibile.
Avuta la risposta circa il suo dubbio sulla predestinazione, Dante chiede all'anima chi sia. Questa risponde che tra i due mari, Tirreno e Adriatico ("due liti d'Italia"), ci sono delle montagne (l'Appennino umbro-marchigiano) e non molto distante da Firenze (circa 120 km) c'è una cima che si chiama Catria ed è più alta delle nuvole, per questo i tuoni rombano in basso ("tanto che ' troni assai sonan più bassi"); sotto Catria c'è un eremo (ermo) che ha per istituzione l'adorazione di Dio ("suole esser disposto a sola latria" - il termine latria indica nella religione cattolica un culto supremo riservato esclusivamente alla Trinità, distinguendosi dai culti di venerazione che hanno per oggetto angeli e santi). L'eremo a cui fa riferimento è quello di Fonte Avellana. Nell'eremo di Fonte Avellana, racconta ancora, si dedicò al culto di Dio con tanta fermezza da passare lietamente le estati e gli inverni mangiando cibi conditi solo con olio (liquor d'ulivi) e appagato dalla contemplazione del mistero divino. Un tempo quell'eremo rendeva al Paradiso una moltitudine di anime, dichiara ancora, adesso invece è così corrotto da rendere necessario che ciò presto si riveli. Nell'eremo egli fu Pier Damiani, mentre nella casa di Nostra Donna sul lido adriatico fu Pietro Peccatore. Poco gli era rimasto da vivere (quattordici anni) quando fu tolto dalla solitudine e fatto cardinale ("fui chiesto e tratto a quel cappello"), carica che passa da persone indegne ad altre ancora peggiori ("che pur di male in peggio si travasa" - riferito al cappello cardinalizio). Pier Damiani si lascia andare a un'invettiva: San Pietro (Cefas è uno dei nomi di Pietro nel Nuovo Testamento e in aramaico significa <<roccia>>) e san Paolo ("il gran vasello de lo Spirito Santo") vennero magri e scalzi, accettando il cibo da chiunque gliene offrisse; adesso i pastori moderni vogliono chi li accompagni, chi gli sollevi lo strascico e chi li aiuti a salire a cavallo, tanto sono grassi, e coprono i loro cavalli di mantelli così lunghi da ricoprire allo stesso tempo l'uomo e la bestia (due bestie è usato in senso dispregiativo).
All'ultima esclamazione di Pier Damiani, che conclude il suo discorso con un "oh pazienza che tanto sostieni", Dante vede le altre anime scendere dai loro gradini e girare, diventando più belle ogni volta che girano su se stesse. Gli altri beati si fermano intorno a Pier Damiani e insieme emettono un grido così potente da non assomigliare a nessuno di quelli che si odono sulla Terra; tanto forte è il suono da non permettere al poeta di capirne il contenuto, sente solo un rombo di tuono. Il senso del grido si spiegherà nel prossimo canto, adesso nel modo in cui è descritto anticipa soltanto il suo contenuto punitivo.

Su Pier Damiani vanno spese alcune parole.
Nel discorso del santo a un certo punto leggiamo che nell'eremo fu Pietro Damiano mentre nella casa di Nostra Donna fu Pietro Peccatore. Su questo punto la critica è da sempre molto divisa. Per alcuni critici il riferimento è alla stessa persona, che com'era prassi tra i monaci dell'epoca firmava i suoi scritti come Pietro Peccatore; per altri si tratta di due persone diverse, con Pietro Peccatore che sarebbe un riferimento a Pietro degli Onesti, monaco ravennate contemporaneo di Pier Damiani che, come lui, si firmava Pietro Peccatore, generando già all'epoca confusione tra le due identità. La critica moderna accoglie più favorevolmente la prima ipotesi, che in effetti appare più plausibile, perché nel discorso di questo canto Pietro degli Onesti non c'entrerebbe, inoltre se Dante avesse voluto riferirsi a due persone diverse avrebbe dovuto scrivere il fu' del verso 122 senza l'apostrofo, rendendolo alla terza persona (trasformando così la terzina: "in quel loco fu' io Pietro Damiano, e Pietro Peccator FU ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano"). Per tali ragioni anche io ho preferito nel commento privilegiare la prima ipotesi.
Un'altra disputa tra critici nasce sull'identificazione de la casa di Nostra Donna. Per alcuni si tratta della chiesa di S.Maria in Porto fuori di Ravenna , per altri di S.Maria in Pomposa vicino Comacchio.
Sempre riguardo la figura di Pier Damiani, è da notare come parli della sua nomina a cardinale quasi come una violenza, dicendo di essere stato strappato dal suo eremo ("fui chiesto e tratto a quel cappello"). In effetti in una lettera che scrisse a Nicolò II, il santo lamentò di essere stato tratto a forza dalla solitudine; pare che papa Stefano IX lo minacciò di scomunica nel caso in cui non avesse accettato la carica di cardinale. Per quanto riguarda il riferimento al cappello cardinalizio, si tratta di una metafora usata per indicare la carica, ma ai tempi di Pier Damiani ancora non era stato istituito (il santo morì nel 1072, mentre il cappello fu istituito da Innocenzo IV nel 1245).
Per quanto riguarda la biografia del santo, c'è da dire che fu un eremita ma allo stesso tempo si dedicò molto attivamente alle questioni politiche della chiesa, sostenne la collaborazione tra papato e impero, criticò aspramente la corruzione del clero (come fa anche nel canto).

Francesco Abate

giovedì 21 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quando colui che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,
lo ciel che sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una resplende.
Il canto comincia con l'aquila che smette di parlare come unico essere e le anime, aumentando la loro luce, iniziano a intonare canti così al di sopra dell'intelletto umano da essere impossibili da ricordare (labili e caduci). Questa scena richiama alla mente del poeta il tramonto, quando la luce del sole (colui che tutto 'l mondo alluma) smette di illuminare il cielo e questi si riempie di luccicanti stelle; anche in questo caso si quietano la voce potente e la luce sfavillante dell'aquila per lasciar posto alle tante voci e alle luci dei beati. L'autore si lascia andare a un'esclamazione: quanto appare ardente l'amore di Dio in quelle luci che sono ispirate solo da pensieri santi; in questa terzina (vv. 13-15) c'è la parola flailli, che dai critici è stata interpretata in due modi differenti: per alcuni deriva dal latino flare o dal francese antico flavel e significa "flauti", quindi fa riferimento alle voci con cui i beati cantano; altri invece la intendono come favilli, cioè "vive luci". Stando alle due interpretazioni, l'autore si riferisce nella sue lode ai beati o come a "quelle voci" o come a "quelle luci"; io, dovendo sceglierne una, ho scelto la seconda interpretazione, perché mi sembra più giustificata dall'intero verso 14 ("quanto parevi ardente in que' flailli"), visto che "ardente" in genere è riferito al fuoco che emana luce oltre che calore.
I beati, che Dante vede come gemme incastonate le cielo di Giove, pongono fine al loro canto e iniziano un mormorio simile al rumore di un fiume che scende da una montagna rocciosa, mostrando nell'abbondanza delle acque la ricchezza della sorgente ("Poscia che i cari e lucidi lapilli, / ond' io vidi ingemmato il sesto lume, / poser silenzio a li angelici squilli, / udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l'ubertà del suo cacume"). Il suono sale dal collo dell'aquila, facendolo sembrare vuoto (bugio), così come la musica si forma nel collo della cetra o attraverso il fiato del musicista che entra nel foro della zampogna. Questo suono nel becco dell'aquila si trasforma in parole, le quali erano già attese nel cuore del poeta, dove poi le imprime.
L'aquila invita Dante a concentrarsi sul suo occhio, l'organo che nelle aquile mortali fissa il sole, perché lì sono le anime più degne di beatitudine. A questo punto c'è la presentazione dei beati, che l'autore fa attraverso le parole udite dall'aquila. A formare la pupilla c'è re David, definito "cantor de lo Spirito Santo" perché scrisse i Salmi, il quale trasportò l'Arca dell'Alleanza dalla casa di Abinabad fino a Gerusalemme, passando per la casa di Obed-Edom Ghitteo (l'arca traslatò di di villa in villa); adesso vede il merito della sua opera di scrittura, che fu frutto della sua volontà, grazie alla corrispondenza del grado di beatitudine a essa. La precisazione che l'aquila fa circa il merito di David è figlia della Summa theolgiae di san Tommaso, in cui è asserito che Dio scrisse la Bibbia e si servì degli scrittori come strumenti, ciononostante gli uomini scrissero di propria volontà e secondo il loro stile e la loro cultura, quindi anche loro furono autori delle Sacre Scritture ed ebbero il merito di ciò che scrissero; attraverso le parole dell'aquila, Dante ripropone il concetto espresso da san Tommaso. Vengono poi presentati i cinque beati che formano il ciglio dell'occhio. Quello più vicino al becco è l'imperatore Traiano, che per pietà di una vedova a cui era stato ucciso il figlio posticipò la sua partenza per la guerra ed emise una rapida sentenza con cui le diede giustizia (si tratta di una leggenda molto creduta all'epoca di Dante); adesso conosce, dichiara l'aquila, quanto costi caro non seguire Cristo, perché ha avuto sia l'esperienza della dannazione (nel Limbo) che quella della beatitudine. Il beato che segue Traiano è Ezechia, re di Giuda, che ottenne un prolungamento di quindici anni della vita grazie alle sue preghiere, e ora sa che non si muta il giudizio di Dio quando con la preghiera di un degno cristiano viene rimandato quel che è stato già pronunciato; secondo l'episodio biblico, Ezechia chiese più tempo non solo per meritare la beatitudine, lui che era sempre stato retto, ma anche per pentirsi delle sue colpe (perciò l'autore parla di vera penitenza, allontanando l'equivoco che potrebbe far credere alla paura della morte come motivazione della preghiera). Dopo Ezechia c'è l'imperatore Costantino, il quale portò la capitale dell'Impero a Costantinopoli (si fece greco) per lasciare Roma alla Chiesa, concretizzando così un'intenzione nobile che però nel tempo ha dato cattivo frutto (il riferimento è alla Donazione di Costantino, falso storico a cui la Chiesa per secoli si è aggrappata al fine di giustificare il proprio potere temporale; Dante vede la Donazione come l'inizio del potere temporale della Chiesa e perciò della sua corruzione); ora vede che le conseguenze nefaste del suo dono non gli sono imputate e non ledono il suo diritto alla beatitudine. Il primo beato che sta dove l'arco del ciglio si abbassa (ne l'arco declivo) è Guglielmo II il Buono, che governò quelle terre (Napoli e la Sicilia) che ora soffrono per i malgoverni di Carlo II d'Angio e Federico II d'Aragona; adesso lui sa quanto il cielo apprezzi un governante giusto, lo si vede dall'intensità della sua luce ("ora conosce come s'innamora / lo ciel del giusto rege, ed al sembiante / del suo fulgor lo fa vedere ancora"). Nessuno crederebbe, sostiene l'aquila, che la quinta anima del ciglio è del troiano Rifeo, un pagano; adesso lui conosce il mistero della grazia divina, che nel mondo non è possibile distinguere, benché non ne possa sondare la profondità come fanno le altre anime ("Ora conosce assai di quel che 'l mondo / veder non pò de la divina grazia, / ben che sua vista non discerna il fondo"). 
L'aquila tace, somigliando all'allodola che vola nell'aria e canta, per poi fermarsi come estasiata dalle ultime note del proprio canto. Riferendosi all'aquila, il poeta la definisce come impronta di Dio, per il cui desiderio ogni cosa diventa com'è ("Quale allodetta che 'n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l'ultima dolcezza che la sazia, / tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta / de l'eterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ella è diventa"). Dante è però tormentato da un dubbio e, nonostante questo sia visibile ai beati, come se lui fosse di vetro trasparente, non ne sopporta il peso e finisce per chiedere cosa ha appena visto e udito (l'azione nei versi è descritta come se lui la subisse, è il peso del dubbio a cacciar fuori di forza le parole dalla sua bocca: "tempo aspettar tacendo non patìo, / ma de la bocca: <<Che cose son queste?>> / mi pinse con la forza del suo peso"). La luce delle anime aumenta, esse sono infatti contente di rispondere al dilemma che lo attanaglia; la risposta è data dall'aquila, il cui occhio aumenta di luminosità.
L'aquila spiega che vede come Dante creda alle sue parole, senza però riuscire a comprenderle, e per questo al suo intelletto restano oscure (ascose); fa come quello che conosce il nome di qualcosa e per questo capisce cos'è, senza però capirne la sostanza se qualcuno non gliela spiega. Il Regno dei cieli viene conquistato dalla carità e dalla speranza (il poeta lo descrive alla stregua di un atto violento scrivendo "violenza pate", cioè "subisce violenza"), le quali vincono la volontà di Dio; non è però una vittoria come quella dell'uomo che ne sopraffà un altro, la volontà divina infatti vuole essere vinta per trionfare con la sua bontà una volta che ciò è accaduto. Dante si meraviglia, constata l'aquila, per la presenza nel suo ciglio di due pagani (Traiano e Rifeo). Innanzitutto, a differenza di quel che crede, essi non morirono pagani, ma cristiani; Rifeo credendo al futuro martirio (passuri) di Cristo, Traiano al martirio già avvenuto (passi). L'aquila racconta la vicenda di Traiano: fu portato in vita dall'Inferno, dove non è più possibile il pentimento, per premiare la voglia che papa Gregorio mise nelle sue preghiere affinché l'antico imperatore romano potesse resuscitare ed essere convertito alla dottrina di Cristo; Traiano, nel poco tempo che rimase in vita, credette in colui che poteva salvarlo e si accese di un vero amore così ardente che lo rese degno di essere beato. Rifeo, in virtù della grazia divina, che sgorga da una sorgente così lontana che non può essere vista dall'occhio umano, si impegnò in vita per il bene e per la giustizia, per questo Dio gli fece conoscere il mistero della futura redenzione; lui credette nella fede cristiana e non riuscì più a tollerare le false credenze dei pagani, arrivando a criticare gli adepti (genti perverse); le tre donne che Dante vide vicino alla ruota destra del carro (le virtù teologali: fede, speranza e carità) lo battezzarono ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito. Narrata la storia di Rifeo, l'aquila loda la predestinazione, la cui origine è così lontana dall'intelletto umano, che non può comprendere interamente Dio. Dopo la lode, c'è un ammonimento fatto agli umani: devono essere cauti nel giudicare perché i beati, che hanno il vantaggio di poter vedere Dio, non conoscono ancora chi sono tutti gli eletti, e questa mancata conoscenza è per loro motivo di letizia, perché conforma ancor di più la loro volontà a quella di Dio ("E voi, mortali, tenetevi stretti / a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti; / ed ènne dolce così fatto scemo, / perché 'l ben nostro in questo ben s'affina, / che quel che vole Dio, e noi volemo"). 
Il canto si conclude col poeta che constata come l'aquila abbia schiarito la sua vista confusa con una soave medicina, poi racconta che, durante la spiegazione data da quel simbolo divino, ha visto le luci di Traiano e Rifeo guizzare all'unisono così come battono le palpebre, ricordandogli il buon suonatore di cetra che, per rendere più piacevole il canto, lo accompagna col suono dello strumento.

Il canto è dominato dalle figure di Traiano e Rifeo, che servono al poeta per ribadire come la volontà divina e la grazia siano incomprensibili per la mente umana.
Riguardo la vicenda di Traiano, era molto in voga la leggenda della vedova a cui ho già accennato, tanto da essere ripresa anche nella Summa theologiae di san Tommaso. Sempre la leggenda, che viene qui ripresa da Dante, narra che papa Gregorio pregò Dio e ottenne che l'anima dell'imperatore salisse al cielo. Il poeta aggiunge il passaggio della breve resurrezione di Traiano e della sua conversione, io credo perché nel canto precedente i beati hanno detto che solo chi crede in Cristo può accedere al Paradiso, e l'imperatore non poteva fare eccezione.
Di Rifeo c'è molto meno da dire. Si tratta di un personaggio minore dell'Eneide di Virgilio, il quale con Enea organizza l'ultima disperata resistenza e in essa perde la vita. Dante si rifà alle poche parole che il poeta latino scrisse sull'eroe, con cui lo definì "giustissimo", e lo usa per rafforzare ciò che già voleva affermare con Traiano. Può anche essere che all'autore piacesse che tra i beati, insieme a un imperatore romano, vi fosse un troiano, di cui i Romani si consideravano i discendenti. 

Francesco Abate
   

lunedì 18 novembre 2019

COMMENTO DE "L'ISOLA DI LAGO DI INNISFREE" DI WILLIAM BUTLER YEATS

Adesso mi alzo e vado a Innisfree,
e lì costruisco una piccola capanna, fatta di argilla e vimini intrecciati;
metto nove filari di fave, un’arnia per il miele d’api,
e vivo solo nella radura ronzante d’api.

E avrò pace laggiù, perché la pace arriva fluendo lentamente,
fluendo dal velo del crepuscolo al posto dove i grilli cantano;
là la mezzanotte è tutta un luccichio, e il mezzodì un bagliore purpureo,
e la sera è piena delle ali del fanello.

Adesso mi alzo e vado, tutte le notti e tutti i giorni
sento l’acqua del lago sciabordare presso la riva con suoni lievi;
mentre resto fermo in strada, o sul grigio marciapiede,
la sento nel profondo del cuore.

Questa che ho riportato sopra è la traduzione fatta da me della poesia Lake Isle of Innisfree ("L'isola di lago di Innisfree"), una delle più famose poesie del poeta irlandese William Butler Yeats.
Yeats compose questa poesia nel 1888 e la pubblicò due anni dopo sul National Observer
Innisfree è una piccola isola dove Yeats trascorreva in gioventù le vacanze; si trova nel Lough Gill, lago della contea di Sligo, in Irlanda.
Come si può facilmente dedurre dal testo, la poesia rievoca la nostalgia di un rapporto più profondo con la natura, ponendola nei versi finali in contrapposizione con la sterile vita di città (rappresentata dalla strada e dal grigio marciapiede).
Raccontò Yeats che a ispirarlo fu un getto d'acqua che vide in una vetrina a Londra e che serviva per promuovere un refrigeratore di bevande; il lieve rumore di quell'acqua gli riportò alla mente il Lough Gill e la contea di Sligo.
Nei versi Yeats dichiara l'intenzione di voler andare a Innisfree. Nella prima quartina ci mostra il soddisfacimento dei bisogni fisici in armonia con la natura, coi filari di fave e il miele; nella seconda invece evidenzia il benessere spirituale che quel posto gli può dare; nell'ultima il poeta ci mostra il desiderio e la nostalgia che abitano il suo cuore, tanto da fargli sentire i suoni di quella natura mentre si trova nel bel mezzo della caotica e civile Londra.
Questa poesia si può considerare un inno alla natura, un desiderio di fuga dalla civiltà e ritorno alla vita semplice e in armonia con la terra. Yeats da giovane lesse i saggi di Thoureau, scrittore statunitense che si costruì una capanna nel bosco e visse isolato, per poi descrivere questo suo ritorno a un contatto intimo con la natura nel romanzo Walden; ovvero La vita nei boschi; è evidente in questo componimento l'influenza che Thoureu ebbe su Yeats, cosa che tra l'altro confessò lo stesso poeta irlandese.

Ho scoperto Yeats di recente e mi ha tanto affascinato che ho voluto condividere con voi questa poesia, che mi sono divertito a tradurre.
Di Yeats bisogna dire che è considerato uno dei poeti più importanti del Novecento e la sua influenza è viva ancora oggi, tanto che nel 1986 il cantautore italiano Angelo Branduardi ha inciso un album, Branduardi canta Yeats, in cui ha musicato alcuni dei componimenti del poeta (tra cui anche questo, da lui tradotto come Innisfree, l'isola sul lago).

Francesco Abate

giovedì 14 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Parea dinanzi a me con l'ali aperte
la bella image, che nel dolce frui
liete facevan l'anime conserte.
Parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne' miei occhi rifrangesse lui.
Il canto XIX inizia con l'autore che ci descrive cosa vede nel cielo di Giove e che impressione desta in lui. Gli appare l'immagine dell'aquila dalle ali aperte, formata dalle anime riunite insieme (conserte) nella lietezza della visione di Dio (nel dolce frui); ciascuna anima sembra al poeta un piccolo rubino (rubinetto) che viene colpito da un raggio di sole e lo riflette ai suoi occhi (chiara metafora della loro luce che riflette la grazia di Dio). 
A questo punto l'autore precisa che ciò che sta per raccontarci non è stato mai detto, né scritto, né compreso con l'intelletto; l'aquila parla (Dante sente infatti parlare il rostro, quindi il becco) dì sé in prima persona usando i pronomi "io" e "mio", ma intende in realtà la collettività delle anime che formano il suo disegno ("E quel che mi convien ritrar testeso, / non portò voce mai, né scrisse inchiostro, / né fu per fantasia già mai compreso; / ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, / e sonar ne la voce e <<io>> e <<mio>>, / quand'era nel concetto <<noi>> e <<nostro>>"). Questa introduzione fatta dall'autore al discorso dell'aquila non ha solo lo scopo di favorire l'immaginazione del lettore, permette anche di mantenere l'attributo personale delle anime nonostante esse si esprimano collettivamente, riuscendo perciò a far coesistere la personalità dei singoli con l'universalità della giustizia divina a cui egli ora si rivolge.
L'aquila parla, spiega che si trova esaltata lì nel cielo di Giove, in quella gloria che non viene vinta dai desideri terreni, per essere stata in vita giusta e misericordiosa (ricordiamo che nelle Epistole e nel De Monarchia Dante illustrò l'idea dell'Impero, di cui l'aquila è simbolo, come fonte della pietà); tanto grandi furono le sue azioni, dichiara, che ancora oggi è ricordata anche dalle persone malvagie, le quali però la lodano (commendan lei) senza seguirne l'esempio. Il poeta nota come da tutte le anime esca una sola voce, così come da tante braci viene emesso un unico calore.
Sentite le parole dei beati, Dante parla loro, definendoli fiori che non avvizziscono mai perché irrorati dall'eterna grazia di Dio (l'eterna letizia) e che fondono i loro odori in un'unica perfetta fragranza. Il poeta gli manifesta un suo dubbio che sulla Terra non è mai riuscito a risolvere; lui sa bene, spiega, che la giustizia divina si specchia nel cielo in un'altra gerarchia che loro sono in grado di vedere chiaramente (che 'l vostro non l'apprende con velame), sanno poi bene quanto lui sia pronto e attento ad ascoltare le loro parole e li invita a parlare, non facendogli alcuna domanda perché loro sanno bene qual è il dubbio che lo tormenta.
Sentite le parole del poeta, l'aquila, che è formata dai beati che cantano lodi che solo in Paradiso si possono sentire, si anima, facendo come il falcone quando è liberato dal cappuccio di pelle, che sbatte le ali e si fa bello. L'aquila spiega al poeta che Dio, il quale tracciò i confini dell'universo e in esso pose le cose visibili e invisibili, non poteva fare ciò senza che il suo Verbo non restasse in eccesso, perché altrimenti l'universo sarebbe stato infinito; a mostrare la distanza tra la perfezione di Dio e l'imperfezione del creato c'è la vicenda di Lucifero ('l primo superbo), la più perfetta delle creature, che fu gettato via dal Paradiso per colpa della propria voglia di conoscere più di quanto poteva il suo intelletto senza aspettare il lume divino (per non aspettar lume); essendo la natura angelica incapace di vedere nella perfezione di Dio (quel bene che non ha fine e sé con sé misura), lo è di più quella umana, e la vista dell'uomo non può essere così forte da vedere Dio, visto che è solo uno dei raggi della Sapienza; l'uomo può vedere nella giustizia divina come l'occhio dentro il mare, che dalla riva vede bene il fondo, mentre dove l'acqua è alta non lo vede, benché il fondo ci sia comunque; l'unica luce che può portare alla vera conoscenza è quella che deriva da colui che mai si turba (Dio), le altri sono ombra o veleno. Fatta questa lunga premessa circa la necessità della Sapienza di Dio per la comprensione delle verità dell'anima, l'aquila passa ad affrontare direttamente il dubbio di Dante: adesso è stato aperto il nascondiglio (latebra) che celava al poeta la giustizia divina, spingendolo a chiedersi se sia giusto condannare un uomo nato sulle rive dell'Indo, dove nessuno parla del Vangelo e del Cristianesimo, che vive una vita retta nelle parole e nelle azioni, solo perché mai battezzato e non credente; l'aquila gli chiede come possa lui, che non vede a una spanna, giudicare ciò che succede a mille miglia di distanza; ci sarebbe ragione di dubitare, conclude, se non ci fossero le Sacre Scritture a guidare l'intelletto umano; Dio (la prima volontà) è il sommo bene e non si è mai mosso da sé stesso, in Lui volere il bene si traduce in causare il bene. In parole povere, gli spiriti del cielo di Giove spiegano che l'uomo non può comprendere la giustizia divina e deve astenersi dal giudicarla, deve solo ricordare che Dio è il bene e tutto ciò che da Lui è determinato è giusto.
Finito di parlare, l'aquila inizia a volare sopra il nido come la cicogna che ha sfamato i cuccioli e così Dante, come i cuccioli sfamati dalla madre, la guarda muoversi con le ali sospinte dai tanti voleri dei beati fusi in uno solo ("Quale sovresso il nido si rigira, / poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch'è pasto la rimira; / cotal si fece, e sì levai i cigli, / la benedetta imagine, che l'ali / movea sospinte da tanti consigli"). Volando in circolo, canta che come il suo canto è incomprensibile per il poeta, così lo è la giustizia divina per i mortali. Poi l'aquila, quel simbolo che rende i Romani ancora degni di rispetto nel mondo ed è formato dai beati (quei lucenti incendi dello Spirito Santo), si ferma e ricomincia a parlare. Spiega che nessuno è salito in Paradiso senza aver creduto in Gesù Cristo, né prima né dopo la crocifissione, poi lancia un monito: quando verrà il Giorno del Giudizio, molti di quelli che invocano Cristo saranno più lontani a Dio di quelli che non lo conoscono; questi Cristiani ipocriti saranno condannati dall'Etiope quando saranno formate le due schiere, una di quelli che saranno eternamente ricchi (i beati) e l'altra di quelli che saranno eternamente poveri (i dannati). A questo punto l'aquila diventa più specifica e si rivolge direttamente ai re cristiani: si chiede cosa diranno i Persiani quando sarà aperto il libro in cui saranno riportate tutte le cattive azioni dei re cristiani (insinua che perfino i pagani resteranno inorriditi dai peccati dei re cristiani); si vedrà che l'imperatore Alberto d'Asburgo ha occupato il regno di Praga per toglierlo a suo fratello; si vedrà il dolore che porta in Francia Filippo il Bello, che produce monete false per pagare l'esercito invasore delle Fiandre, il quale morirà colpito da un cinghiale (una morte senza onore); si vedrà la superbia che spinge Edoardo II d'Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia a farsi guerra per allargare i propri domini; si vedrà la vita lussuriosa e pigra di Ferdinando IV, re di Castiglia, e di Venceslao IV, re di Boemia, che mai conobbero valore; lo zoppo (Ciotto) di Gerusalemme, cioè Carlo II d'Angiò, vedrà nel libro segnate con una I le buone azioni e con una M quelle cattive, cioè saranno in rapporto di una a mille; si vedrà la viltà e l'avarizia di Federico II d'Aragona, che regge la Sicilia (l'isola del foco), dove morì il vecchio Anchise, e le sue malefatte saranno annotate con lettere abbreviate perché saranno troppe; saranno evidenziate le ignobili azioni dello zio e del fratello di Federico II (Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia e d'Aragona), che hanno insozzato due grandi nazioni e due grandi dinastie; si conosceranno le malefatte di Dionisio l'Agricola, re del Portogallo, e di Acone VII, re di Norvegia, e quelle di Stefano Urosio II, re della Serbia orientale, che fu falsificatore di monete; beate sarebbero l'Ungheria e la Navarra, se la prima non si facesse malgovernare da Andrea III e la seconda usasse i Pirenei per non farsi annettere alla Francia; come anticipo di questo che ha detto, ognuno deve sapere che già l'isola di Cipro si lamenta per la tirannia della bestia che la governa, Arrigo II di Lusignano, che in quanto a turpitudine non si differenzia dai sovrani sopra citati.

Francesco Abate   

giovedì 7 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Già si godea solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo;
e quella donna ch'a Dio mi menava,
disse: <<Muta pensier: pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogni torto disgrava>>.
Il canto XVIII comincia con l'immagine di Cacciaguida che si compiace del suo pensiero (verbo); ovviamente in questo compiacimento non c'è superbia perché egli non è soddisfatto di sé, bensì della luce divina in cui ha avuto visione del futuro di Dante, di cui egli è specchio (quello specchio beato). Il poeta intanto ripensa alla profezia dell'avo, mitigando l'amarezza per il futuro esilio col pensiero della gloria futura (temprando col dolce l'acerbo). Beatrice lo tranquillizza ricordandogli che lei si trova presso Dio, colui che ripara ogni ingiustizia; colei che lo ha tratto fuori dalla selva oscura, gli assicura che non gli negherà in futuro il suo sguardo benevolo e la sua intercessione presso Dio. Sentite le parole di conforto della donna, il poeta si gira verso di lei e nei suoi occhi vede splendere un amore di cui non può lasciarci alcuna descrizione; non sono l'incapacità di esprimersi o la mancanza di memoria a far desistere Dante dal descriverci ciò che vede, ma la consapevolezza che la mente umana non può richiamare a sé tale ricordo senza il sostegno della grazia di Dio. La visione di quello splendore toglie ogni desiderio e ogni turbamento dall'animo del poeta, perché sono i raggi che Dio indirizza sul viso di Beatrice e che da lì si riflettono verso di lui. La donna lo illumina con un nuovo sorriso e gli dice di prestare attenzione a Cacciaguida, perché non è solo nella contemplazione dei suoi occhi il Paradiso ("Vincendo me col lume d'un sorriso, / ella mi disse: <<Volgiti ed ascolta; / ché non pur ne' miei occi è paradiso>>").
Dante si volta verso Cacciaguida e nella sua luce vede che ha voglia di dirgli ancora qualcosa, così come guardando negli occhi una persona è possibile vederne il sentimento quando tutta l'anima ne è partecipe. L'avo paragona il Paradiso a un albero che viene nutrito dalla cima (cioè dalla grazia di Dio), fruttifica sempre e non perde mai nessuna foglia (accoglie sempre nuovi beati e non ne perde mai nessuno, essendo la beatitudine eterna); spiega che nel quinto cielo del Paradiso ci sono beati che in vita furono così importanti da poter essere con le loro gesta un ottimo argomento per la poesia; lo invita poi a guardare i bracci della croce, perché lui indicherà i nomi di alcune anime e queste, per farsi vedere, sfolgoreranno così come fa il baleno attraverso le nubi. Detto ciò, Cacciaguida elenca una serie di nomi: Giosuè, personaggio biblico che condusse il popolo ebraico nella Terra Promessa dopo la morte di Mosè; Giuda Maccabeo (l'alto Maccabeo), che liberò il popolo ebraico dalle imposizioni del re di Siria; Carlo Magno, qui collocato perché difese il papato dai Longobardi; Orlando, paladino di Carlo Magno, morto combattendo i Mori; Guglielmo d'Orange e il suo suddito Rainouart (Rinoardo), le cui statue furono erette ai lati del duomo di Verona; Goffredo di Buglione, che partecipò alla prima crociata e fu proclamato re della città santa; Roberto il Guiscardo, che promosse la riconquista della Sicilia occupata dai Mussulmani. Mostrati al discendente questi beati, Cacciaguida torna a ricongiungersi con le altre anime nella croce, e intona un canto così dolce che dà un'altra prova di quanto sia grande la sua arte di cantore delle cose divine ("Indi, tra l'altre luci mota e mista, / mostrommi l'alma che m'avea parlato / qual era tra i cantor del cielo artista").
Dante si gira verso destra per guardare Beatrice e sapere da lei, attraverso parole o gesti, cosa deve fare; vede la luce degli occhi della sua guida così splendenti da superare anche la loro ultima manifestazione (cioè quella che ci ha descritto nei primi versi del canto). Vedendo aumentare lo splendore della donna, Dante capisce di essere salito al cielo superiore, quello che descrive un arco più ampio rispetto al cielo di Marte; in Beatrice cresce la bellezza così come nell'animo dell'uomo disposto al bene cresce la virtù giorno dopo giorno (attraverso questa similitudine, l'autore ci mostra i valori della vita morale e quelli della perfezione del creato). Agli occhi del poeta si materializza un cambio di colore repentino: come il viso di una donna perde rapidamente il rossore e torna al candore naturale quando questa smette di vergognarsi, così lui vede svanire di colpo il colore rosso di Marte per far posto al bianco di Giove. L'autore definisce Giove "la temprata stella", questo perché Tolomeo riteneva il pianeta gigante una stella temperata, essendo posta tra il caldo Marte e il freddo Saturno. 
Dante vede i beati del cielo di Giove (lo sfavillar de l'amor che lì era) comporre con la loro luce delle lettere dell'alfabeto (nostra favella). Così come le gru si alzano in volo liete dopo essersi dissetate alla riva di un fiume, formando cerchi o una lunga fila, così i beati si dispongono mentre cantano a formare delle lettere: D, I ed L ("E come augelli surti di rivera / quasi congratulando a lor pasture, / fanno di sé or tonda or lunga schiera, / sì dentro ai lumi sante creature / volitando cantavano, e faciensi / or D, or I, or L in sue figure"). Le anime si muovono cantando e seguendo il ritmo del canto poi, formata la lettera, tacciono per un po' di tempo e gli danno la possibilità di leggerla. A questo punto l'autore invoca la diva Pegasea, che rende gloriosi e immortali gli ingegni dei poeti, così che essi riescano a rendere immortali le città e i regni, e le chiede di dargli la capacità di ricordare le lettere così come le vide, poi la incita a far risplendere nei versi seguenti la sua divina potenza. Secondo la maggior parte dei critici, la diva Pegasea non indica una Musa in particolare, ma è un'invocazione generica; secondo il mito, da un calcio del cavallo alato Pegaso scaturì in Elicona la fonte Ippocrene, detta appunto Pegasea, che era simbolo dell'ispirazione poetica.
Agli occhi di Dante si mostrano trentacinque lettere tra vocali e consonanti, e lui nei versi le annota nell'ordine in cui sono espresse. Prima compare la scritta "DILIGITE IUSTITIAM" ("amate la giustizia"), poi "QUI IUDICATIS TERRAM" ("voi che siete giudici sulla terra"); la scritta rappresenta il primo verso del libro della Sapienza, testo biblico attribuito a re Salomone. Le anime restano ferme sull'ultima lettera M, così da far sembrare l'argenteo Giove fregiato d'oro in quel punto. Vede poi altre anime fermarsi alla sommità della M, cantando quello che crede essere una lode al Dio che verso di sé le muove ("E vidi scendere altre luci dove / era il colmo de l'emme, e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch'a sé le move"). A un certo punto, Dante vede le anime salire ognuna a un'altezza diversa, determinata dal proprio grado di beatitudine; questa immagine gli ricorda le faville che si liberano dai tizzoni ardenti quando vengono percossi, sul cui numero e sul cui movimento gli stolti traggono i loro auspici. Ciascun'anima si ferma al suo posto, si forma il disegno della testa e del collo di un'aquila ("Poi, come nel percuoter de' ciocchi arsi / surgono innumerabili faville, / onde li stolti sogliono augurarsi, / resurger parver quindi più di mille / luci, e salir, qual assai e qual poco / sì come 'l sol che l'accende sortille; / e quietata ciascuna in suo loco, / la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi / rappresentare a quel distinto foco"). Colui che dirige la formazione del disegno, cioè Dio, non ha bisogno di prendere spunto dalla natura, bensì è Lui a imprimere alla natura la forma delle cose. Le anime rimaste a formare la M, che con le altre ferme alla sommità formano il disegno del giglio araldico (infatti l'autore parla d'ingigliarsi a l'emme), con piccoli movimenti vanno a completare il disegno dell'aquila. 
A questo punto l'autore si lancia in una lunga invettiva. Inizialmente glorifica Giove, la dolce stella, ricordando quale grande numero di anime (gemme) dimostrano che la giustizia sulla Terra discende proprio dal sesto cielo. Si rivolge poi a Dio, colui da cui nascono i moti e le virtù del cielo di Giove, pregandolo di guardare il luogo dove la cupidigia oscura il lume della giustizia, così che possa adirarsi di nuovo della presenza dei mercanti nel Tempio costruito con i miracoli e i martìri. Invita poi i beati del cielo di Giove, il cielo della giustizia, a pregare per coloro che sulla Terra sono sviati dal cattivo esempio dei papi. Prima si faceva la guerra con le spade, adesso invece i papi la fanno negando a loro piacimento il pane dell'Eucarestia, quel pane che Dio non nega a nessuno (si tratta di un chiaro riferimento all'abuso della scomunica). A questo punto il poeta si rivolge direttamente a un pontefice, colui che scrive solo per cancellare (allude all'annullamento dei benefici ecclesiastici, deciso per arricchire la Curia coi loro proventi), ricordandogli che Pietro e Paolo, che per la chiesa morirono, sono ancora vivi; immagina poi la risposta evasiva del papa, che si dichiara devoto di san Giovanni Battista (che visse solo nel deserto e morì a causa della danza di Salomè, la quale chiese la sua testa al padre come ricompensa) e dichiara di non conoscere il pescatore Pietro e nemmeno Paolo (Polo). Riguardo al papa a cui si riferisce Dante, la critica ritiene si tratti di Giovanni XXII; per quanto riguarda la frase di discolpa che il poeta gli attribuisce, probabilmente la dichiarata fedeltà a san Giovanni è un riferimento all'attaccamento del pontefice ai fiorini, il denaro fiorentino su cui c'era l'effige del santo, che fa rinnegare al capo della chiesa il culto di san Pietro (primo papa) e san Paolo.

Francesco Abate