giovedì 14 febbraio 2019

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Ne l'ora che non può 'l calor diurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno;
- quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in oriente, innanzi a l'alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
In quell'ora della notte in cui il calore del giorno intrappolato nell'atmosfera non riesce a vincere il freddo irradiato dalla luna e talvolta da Saturno (secondo gli antichi era un pianeta apportatore di freddo), quell'ora in cui i geomanti vedono sorgere a oriente prima dell'alba la loro Maggior Fortuna, a Dante appare in sogno una femmina balbuziente (balba), guercia, con i piedi storti, le mani monche e dal colore scialbo. I geomanti erano coloro che tracciavano sulla sabbia dei segni a caso e poi, in base alla figura risultante dal loro collegamento tramite linee, ne traevano un presagio. Siamo in quell'ora immediatamente precedente l'alba in cui per gli antichi i sogni assumevano un significato preciso, talvolta addirittura predicendo eventi futuri. Dante osserva questa femmina che in sé racchiude tutte le brutture possibili e il suo sguardo ha l'effetto del sole sulle membra raffreddate dalla notte; alla donna il volto si colora, la balbuzie sparisce e di colpo. Persa tutta la sua mostruosità, la femmina canta di essere la dolce sirena che disperde i marinai in mezzo al mare grazie al piacere che suscita il suo canto, lei ha distolto Ulisse dal suo viaggio avventuroso e al suo canto più ci si abitua più è impossibile rinunciare (<< Io son >>, cantava, << io son dolce serena, / che ' marinai in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s'ausa, / rado sen parte; sì tutto l'appago! >>). Non ha ancora finito di cantare che appare una donna santa e presta, la quale invoca Virgilio chiedendogli chi sia quel mostro, non perché ne ignori effettivamente l'identità, ma per esortare la guida di Dante a liberarlo dalle insidie della seduttrice. La guida, sentendo l'invocazione, si avvicina al suo protetto sempre tenendo gli occhi fissi in quelli della santa donna, come se fosse guidato a sua volta da lei. La santa donna nel frattempo squarcia le vesti della seduttrice e ne scopre il ventre nudo, lasciandone uscire la puzza di putredine, che è tanto intensa da svegliare il poeta dal sogno. Prima di proseguire oltre nella spiegazione del canto, è opportuno soffermarsi ad analizzare le due figure di questo sogno, cioè la femmina balba e la santa donna. Circa la natura e l'identità delle due immagini si discute da secoli. La prima interpretazione che fu data alla femmina balba fu quella della maga Circe, che sedusse Ulisse e lo distolse per lungo tempo dal suo cammino, o di una delle sirene che provarono a sedurlo col proprio canto, o ancora una fusione di entrambe. L'identificazione con Circe-sirena troverebbe conferma proprio nelle parole della femmina stessa, la quale dichiara di aver distolto Ulisse del suo cammin vago. Nel corso del XX secolo la figura è stata invece associata alla seduzione della poesia pagana, o ancora alla tentazione di un io narcisistico che si abbandona ai piaceri dei sensi e alla morte. Qualcuno nei difetti fisici della femmina balba ha visto anche un richiamo ai sette vizi capitali. Altri critici ancora, rapportando la figura del mostro-sirena a quella di Ulisse, l'hanno indicata quale rappresentante della ricerca del sapere solo mediante mezzi umani. Qualunque di queste interpretazioni si intenda seguire, essa comunque rappresenta una menzogna, è infatti tremenda e porta in sé la morte (rappresentata dalla puzza del ventre), ma a chi la guarda si presenta bella ed è in grado di sedurre con il suo canto. A salvare l'uomo dalla trappola di questo mostro ci pensa la ragione, rappresentata da Virgilio, chiamata a intervenire da una donna santa. Anche su questa figura positiva le interpretazioni sono state tante: per alcuni essa è santa Lucia che viene in soccorso del suo protetto, per altri è la Filosofia che salva dalla trappola dei sensi, per altri ancora rappresenta la temperanza che si oppone alla cupidigia. 
Dante si sveglia e sente Virgilio esortarlo ad alzarsi e cercare con lui il varco per salire alla cornice superiore. Il poeta si alza e si accorge che il sole è già alto tanto da illuminare l'intero monte. Si mette a seguire la sua guida guardando in basso, la sua mente è infatti piena di pensieri causati dal sogno fatto poco prima ("Seguendo lui, portava la mia fronte / come colui che l'ha di pensier carca, / che fa di sé un mezzo arco di ponte"). D'un tratto sente una voce celestiale come non se ne odono tra i vivi, la quale li invita a venire di lì per uscire dalla cornice. Lui e Virgilio si voltano e vedono un angelo tra due pareti del monte. La creatura celeste muove le ali così da cancellare la quarta P dalla fronte di Dante, poi dichiara beati coloro che piangono, perché saranno consolati. Gli accidiosi difettarono in amore e non piansero mai per gli affanni causati dallo spirito, per questo devono purificarsi nella cornice; al cospetto dell'angelo essi sono purificati dal peccato di accidia, quindi possono essere beati. 
Iniziano a scalare i primi gradini, Virgilio chiede a Dante come mai tiene la testa bassa e questi risponde di aver avuto una visione alla quale non riesce a non pensare. La guida gli spiega che ha visto la strega che si piange nelle cornici superiori (quindi la cupidigia che si espia nelle stesse) e come l'uomo può liberarsi di lei; lo esorta poi a farsi bastare quell'insegnamento, a calpestare i beni terreni e a volgere gli occhi a Dio. Per esortare il suo allievo a seguire Dio, Virgilio usa la metafora del falconiere, gli dice infatti di volgersi al logoro, che era il richiamo dei falconieri per i propri uccelli, e afferma infine che Dio lo regge con le rote magne, riferendosi ai movimenti delle sfere celesti. Le parole del poeta mantovano hanno l'effetto sperato e l'autore, per descrivere la propria reazione, continua la metafora del falconiere rappresentando sé stesso come il falco: così come l'uccello, udito il richiamo del logoro, ci si fionda convinto di trovar lì il pasto desiderato, Dante accelera il suo cammino e in men che non si dica arriva alla sommità della scala, giungendo là dove si riprende a camminare in cerchio, quindi nella cornice ("Quale il falcon, che prima a' piè si mira, / indi si volge al grido e si protende / per lo disio del pasto che là il tira, / tal mi fec'io; / e tal, quanto si fende / la roccia per dar via a chi va suso, / n'andai infin dove 'l cerchiar si prende"). 
Arrivato nella quinta cornice, vede gente che piange distesa a terra e col viso rivolto in basso. Sente dire alle anime in latino: << Stesa nella polvere è l'anima mia >> (Adhaesit pavimento anima mea è il venticinquesimo versetto del Salmo 118). Virgilio si rivolge alle anime e chiede loro dove possa continuare la salita per giungere alla sommità del mondo; gli viene risposto che, se sono lì liberi dall'obbligo di giacere al suolo, devono muoversi sempre in modo da avere il lato esterno della cornice a destra. Dante vede quale delle anime giacenti al suolo ha risposto, volge lo sguardo prima a lei e poi alla sua guida, finché questa con un cenno di assenso gli concede di rivolgersi a lei. Il poeta si avvicina a quell'anima e gli pone tre domande: chi era stato in vita, perché giace col viso a terra, se potrà giovargli in qualche modo una volta tornato tra i vivi. L'anima dice che gli dirà perché giacciono in quella posizione, ma prima gli rivela che fu successore di Pietro, il suo titolo nobiliare deriva dal torrente di Lavagna (una fiumana bella) che scorre tra Sestri Levante e Chiavari. Siamo in presenza di papa Adriano V, al secolo Ottobono Fieschi (i Fieschi furono conti di Lavagna). Il papa spiega che ebbe la carica per poco più di un mese, ma gli bastò a capire quanto pesa quell'incarico a chi vuole difenderne la dignità ("Un mese e poco pi prova' io come / pesa il gran manto a chi dal fango il guarda"). Si convertì tardi, ma non appena divenne papa capì quanto era stato bugiardo il suo amore per i beni terreni: non potendo ascendere a un grado superiore, vide tutto dall'alto e ne comprese la miseria. Fino alla sua conversione fu avaro e per questo è punito in questa cornice. A questo punto Adriano V spiega perché le anime degli avari siano punite in questo modo: i loro occhi non si volsero mai verso le cose celesti, così adesso sono piantati a terra e non possono guardare verso l'alto; così come l'avarizia spense in loro l'amore e la carità, la giustizia divina li tiene legati l'uno all'altro finché a Dio piacerà. 
Dante vuole rispondere all'anima e si inginocchia, ma questa subito gli chiede perché lo faccia. Risponde che si è inginocchiato per rispetto della più alta carica religiosa che ha davanti, ma Adriano V lo esorta ad alzarsi subito in piedi, essi sono entrambi servi dello stesso padrone, quindi hanno uguale dignità, lo rimanda poi al Vangelo, che spiega come nella vita ultraterrena non esista più alcuna distinzione di classe. Dettogli questo, il pontefice lo esorta ad andar via, perché la sua permanenza gli impedisce di piangere e di espiare così la propria pena. Gli dice infine di avere una nipote di nome Alagia (che Dante conobbe nel suo soggiorno in Lunigiana), la quale è di carattere buono, a meno che la corruzione dei parenti non la rovini, ed è l'unica che di lui si ricordi e gli dedichi preghiere ("Nepote ho io di là c'ha nome Alagia, / buona da sé, pur che la nostra casa / non faccia lei per essempio malvagia; / e questa sola di là m'è rimasta").

Francesco Abate

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