sabato 27 aprile 2019

COMMENTO AL CANTO XXVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro,
ce n'andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: << Guarda: giovi ch'io ti scaltro >>,
feriami il sole in su l'omero destro,
che già, raggiando, tutto l'occidente
mutava in bianco aspetto il cilestro:
e io facea con l'ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt'ombre, andando, poner mente.
Dante, Virgilio e Stazio proseguono il loro cammino lungo la parte esterna della settima cornice, col poeta mantovano che più volte allerta il suo protetto affinché stia attento ai passi che compie. Ricordiamo che stanno procedendo a poca distanza dal precipizio, non potendo avvicinarsi alla parte interna a causa delle fiamme. Il sole splende alla destra di Dante e si avvia al tramonto, mutando in bianco il colore del cielo che solitamente è celeste, e l'ombra del poeta fa apparire più rosse le fiamme. Di questo fenomeno si accorgono le anime, le quali iniziano a interrogarsi circa la natura del fenomeno. Iniziano le anime a parlare del poeta e constatano come non sembri una semplice ombra, ma il corpo di una persona viva. Alcuni si avvicinano anche per guardarlo meglio, avendo però cura di non uscire dalle fiamme e non interrompere così la loro pena ("poi verso me, quanto potean farsi, / certi si fero, sempre con riguardo / di non uscir dove non fosser arsi"). Una delle anime si fa coraggio e si rivolge direttamente a colui che attira l'attenzione di tutti; gli parla con gentilezza, si rivolge a lui come "tu che vai, non per esser più tardo, ma forse reverente, a li altri dopo", cioè come colui che procede dopo gli altri non per lentezza, ma per rispetto, e gli chiede di placare la sete di conoscenza che tormenta lui che arde tra le fiamme ("O tu che vai, non per esser più tardo, / ma forse reverente, a li altri dopo, / rispondi a me che 'n sete ed in foco ardo"). Fatta la premessa, specifica che non solo lui brama una spiegazione, ma tutte le anime la desiderano più di quanto gli abitanti delle terre calde di India ed Etiopia desiderino l'acqua fresca, e gli chiede come possa proiettare un'ombra come se fosse ancora in possesso del corpo avuto in vita. L'evento è così insolito che l'anima non si azzarda a dare per scontata la spiegazione più ovvia, cioè che il suo nuovo interlocutore cammini tra i morti pur essendo ancora in vita. 
Alla domanda appena fattagli, Dante risponderebbe senza esitazione, ma qualcosa attira la sua attenzione e lo distrae dal colloquio. Arriva un gruppo di anime le quali, camminando tra le fiamme, procedono in senso opposto a quelle viste fino ad ora. Le due schiere di anime si incontrano e, pur senza fermarsi, si scambiano baci; l'autore paragona questa immagine a quella della schiera di formiche le quali, procedendo nei due sensi di marcia, si incrociano e si annusano tra loro, forse (immagina il poeta) per scambiarsi indicazioni sulla strada da seguire e su cosa troveranno ("Li veggio d'ogne parte farsi presta / ciascun'ombra e basciarsi una con una / sanza restar, contente a breve festa: / così per entro loro schiera bruna / s'ammusa l'una con l'altra formica, / forse a spiar lor via e lor fortuna"). Non appena fanno per allontanarsi dal breve incontro, ancor prima di aver completato il primo passo che le dividerà, ciascuna delle anime appena giunte grida "Sodoma e Gomorra" mentre le altre, quelle viste per prime dal poeta, rispondono urlando la storia di Pasifae, moglie di Minosse, che si fece chiudere in una vacca finta per poter avere un rapporto sessuale col toro di cui s'era innamorata. Le urla delle anime ci indicano i peccati che scontano: quelle procedenti in senso inverso, quelle apparse dopo alla vista del poeta, scontano il peccato di sodomia, quindi la lussuria contro natura; le altre invece pagano la lussuria eterosessuale. Le schiere di anime si allontanano nelle due direzioni opposte, come gru che si dividono in due gruppi, alcune migrando verso il gelo dei monti, altre verso il caldo dei deserti africani, e tornano piangendo a cantare l'inno Summae Deus clementiae (incontrato nel canto precedente) e a gridare gli esempi di rimprovero del loro peccato. L'esempio delle gru chiarisce maggiormente il motivo per cui sono divisi in questa cornice i due tipi di lussuria: le gru tendono a svernare nei paesi caldi, quindi quelle che migrano verso il gelo dei monti sono contro natura, così come le anime che procedono in direzione opposta a quella degli altri lussuriosi. Ci sono perciò due tipi di lussuria: quella commessa da chi si lascia trasportare eccessivamente dagli istinti umani e quella di chi viola la natura umana e la stravolge ("Poi come grue ch'a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver' l'arene, / queste del gel, quelle del sole schife, / l'una gente sen va, l'altra sen vene; / e tornan, lagrimando, a' primi canti / e al gridar che più lor si convene").
Passata la schiera dei sodomiti, l'altra si avvicina di nuovo a Dante, aspettando la risposta alla domanda fattagli poco prima. Il poeta non tarda a rispondere, dapprima consola le anime ricordando la loro futura beatitudine, poi spiega loro che il suo corpo non è rimasto morto nel mondo dei vivi, ma è lì con lui, quindi lui si trova in loro presenza pur essendo in vita; spiega poi di essere in cammino per ascendere al Paradiso, dove una donna (per alcuni la Vergine Maria, per altri Beatrice) intercede per lui presso Dio affinché possa completare il suo viaggio e liberarsi dalle tenebre della mente. Terminata la sua spiegazione, Dante augura alle anime di aver presto sazia la voglia di salire all'Empireo e vedere Dio, poi chiede chi siano loro e chi le anime passate prima in senso opposto ("Ma se la vostra maggior voglia sazia / tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi / ch'è pien d'amore e più ampio si spazia, / ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi, / chi siete voi, e chi è quella turba / che se ne va di retro a' vostri terghi"). Le anime restano un attimo in silenzio a causa dello stupore, come il montanaro che scende in città e viene travolto dalla meraviglia dei monumenti e delle consuetudini urbane. Superato il momento, l'anima che gli aveva rivolto la domanda prima gli esprime invidia, infatti lui può avere da vivo esperienza del mondo dei morti e uscire dagli errori in cui è caduto, poi gli spiega che il gruppo appena incrociato è quello di coloro che commisero lo stesso peccato che Giulio Cesare fece con Nicomede: scontano il loro peccato gridandolo e vergognandosi; il suo peccato e quello delle anime adesso presenti è invece lo stesso di Ermafrodito, per questo quando si separano dalle altre anime gridano il nome di Pasifae. Data la spiegazione, dice che non c'è tempo di elencare i nomi di tutte le anime lì presenti, e nemmeno li conosce tutti, ma gli rivela il proprio: lui è Guido Guinizzelli ed è lì perché si pentì prima di morire. Prima di continuare la narrazione del canto, è necessario spendere qualche parola circa il riferimento fatto a Giulio Cesare. Nella Roma imperiale girava voce, probabilmente fondata visto che venne ripresa anche da Cicerone, che Cesare avesse avuto rapporti sessuali col re di Bitinia, Nicomede. A causa di questo episodio, quando i soldati romani in trionfo ebbero la libertà di prendere in giro il loro capo, lo acclamarono "Regina" anziché "Re"; questo è l'episodio a cui fa riferimento Guinizzelli per spiegare il peccato dei sodomiti, il quale si oppone all'amore di Ermafrodito (figlio di Mercurio e Venere) per la ninfa Salmace. Per quanto riguarda la figura di Guinizzelli, si tratta del poeta bolognese indicato dallo stesso Dante come precursore del Dolce stil novo.
La reazione di Dante al sentire il nome di colui che ritiene un maestro, o addirittura un padre, è estremamente commossa. Ricorda l'episodio mitologico dei figli di Isifile, i quali sfidarono i soldati di Licurgo, re di Nemea, e salvarono la madre condannata a morte dalle mani dei carnefici; lui è preso dalla stessa commozione, ma non osa avvicinarsi troppo a Guinizzelli a causa delle fiamme che lo avvolgono. Nel descrivere la scena, l'autore descrive il poeta come "padre mio", infatti è per lui un maestro verso cui prova devozione e affetto. Si muove senza dire e sentire niente, resta pensieroso a guardarlo, non si avvicina solo per via delle fiamme ("Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo, / quand'io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amore usar dolci e leggiadre; / e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui, / né, per lo foco, in là più m'appressai"). Terminata la commossa contemplazione, Dante giura di esser pronto al suo servigio. Guinizzelli dichiara che la grazia concessa da Dio a Dante ha lasciato dentro lui un tal segno che neanche le acque di Lete, che danno l'oblio, potranno cancellarlo; gli chiede poi, in nome del giuramento fatto, di spiegargli come mai prova per lui tanto affetto. Dante gli spiega di ammirarlo per le sue poesie le quali, finché durerà l'uso del volgare (l'uso moderno), saranno preziose. Guinizzelli indica un'anima e dice che quello è il miglior costruttore della lingua materna (il provenzale); dichiara che scrisse poesie d'amore e romanzi che superarono tutti gli altri poeti provenzali, poi invita Dante a non dare ascolto alle voci che ritengono superiore Gerault de Bournelh, del Limosino, perché sono idee fondate solo sull'opinione corrente, formate senza dare ascolto all'arte e alla ragione; fa un esempio simile, quello di Guittone d'Arezzo, che lui stesso inizialmente aveva dichiarato suo maestro, il quale venne per diverso tempo ritenuto il miglior poeta in circolazione, fin quando la verità non trionfò per opera di altri poeti che gli furono superiori. Terminato il suo discorso sulla scarsa attendibilità delle opinioni, Guinizzelli chiede a Dante di recitare un Padre Nostro per lui quando sarà al cospetto di Cristo, ricordandogli di omettere la formula << non indurre in tentazione >>, che è inutile per le anime del Purgatorio. 
Finito di parlare, forse per dare spazio all'anima che aveva indicato poco prima, Guinizzelli sparisce tra le fiamme. Dante avanza un po' verso l'altro e lo invita a presentarsi. La risposta del nuovo interlocutore è tutta in lingua provenzale e si può tradurre così:
"Tanto mi diletta la vostra cortese domanda,
che non mi posso né voglio a voi celare.
Io sono Arnaldo, che piango e vo cantando;
addolorato vedo la mia passata follia,
e vedo con gioia davanti a me il giorno che spero.
Ora vi prego, per quel valore
che vi guida alla sommità della scala,
di ricordarvi a tempo debito del mio dolore!".
L'anima in questione è Arnaldo Daniello, il quale si limita a presentarsi e a manifestare la speranza della purificazione futura. Daniello chiede poi a Dante di ricordarsi di lui quando sarà nel Paradiso, in pratica, come Guinizzelli, chiede qualche preghiera in suffragio. Fatto ciò, sparisce tra le fiamme.

Francesco Abate
   

mercoledì 24 aprile 2019

IL MEDIO ORIENTE SPIEGATO DA MASSIMO CAMPANINI

Conosciamo il Medio Oriente attraverso i telegiornali. La situazione politica instabile si traduce in un continuo spargimento di sangue di cui veniamo a conoscenza ogni giorno. L'immagine che ho scelto per aprire l'articolo ci mostra la Siria di oggi, un paese raso al suolo da una guerra civile che va avanti da circa otto anni.
Se le notizie riguardo le vicende mediorientali non ci mancano, è pur vero che abbiamo pochi mezzi per poter comprendere quello che realmente succede. I paesi occidentali, quindi anche noi e i nostri alleati, hanno interessi politici ed economici diretti nella zona, quindi anche le informazioni spesso sono filtrate in base all'opportunità del momento. Eppure quello che succede in quei paesi lontani ci riguarda molto da vicino, basti pensare al terrorismo di matrice islamica, che sempre più spesso insanguina l'Europa, o ai soldati italiani impegnati nelle varie zone di guerra mediorientali. La cattiva interpretazione delle vicende che riguardano il mondo arabo e islamico sta portando inoltre a un odio verso i musulmani tutti, il quale nasce proprio da una cattiva comunicazione fatta, spesso in malafede, da giornalisti faziosi e politici intenzionati a cavalcare la paura e l'odio.
Il contesto mediorientale è molto complesso ed è facile valutarlo in modo errato, vista anche l'enorme differenza culturale che c'è tra noi occidentali e il mondo arabo, per questo diventa necessario trovare dei libri che ci guidino lungo questo sentiero così tortuoso. 
Un testo che merita di essere letto per conoscere meglio la cultura e la storia mediorientale è di certo Storia del Medio Oriente contemporaneo di Massimo Campanini. Si tratta di un libro scritto col rigore dello storico, che quindi non si lascia guidare da valutazioni ideologiche dettate dalla sensibilità dello scrittore, e che descrive la travagliata storia del Medio Oriente nel periodo che va dal colonialismo europeo fino ai giorni nostri. Si tratta perciò di una guida preziosa che permette di osservare e analizzare il contesto socio-politico che ha portato agli eventi che oggi stiamo vivendo da vicino (guerra in Iraq, Al Qaeda e ISIS, guerra in Siria, ecc.).

Il libro di Campanini ci permette innanzitutto di vedere come nell'area mediorientale, zona che va dal nord Africa fino all'Arabia Saudita, la situazione politica sia stata sempre molto turbolenta, anche a causa di una sorta di immaturità della popolazione, la quale non è stata mai in grado di sfruttare le occasioni di svolte democratiche. Un esempio sono le << primavere arabe >>, giusto per citarne uno cronologicamente vicino, le quali portarono al rovesciamento di regimi dittatoriali senza però riuscire a sostituirli con governi democratici e stabili. 
La storia del Medio Oriente è fatta perciò di rivolte, di governi autocratici e di golpe militari, di libertà negate e spesso buttate via quando ottenute. Un ruolo di primo piano nella storia di questi paesi lo ricopre l'Islam, e forse uno dei meriti principali di Campanini è quello di spiegare il ruolo della religione nei vari governi e nelle varie transizioni. Oggi noi siamo abituati a pensare ai paesi islamici come posti dove si governa in nome del più rigido oscurantismo religioso, arrivando a concludere che la dittatura religiosa e la violenza siano tare proprie dell'Islam, ma la storia mostrata dall'autore ci dimostra come per buona parte del XX secolo i governi mediorientali siano stati laici, semmai la successiva svolta religiosa fu causata dal tentativo operato dai governanti di imporre la laicità invece di introdurla gradualmente (errori compiuti ad esempio da Kemal in Turchia e Nasser in Egitto).
Riguardo poi ai musulmani, noi siamo abituati a immaginarli come degli ottusi tradizionalisti chiusi a ogni dialogo. Questo libro ci fa capire che non è così. L'autore descrive nei particolari i dibattiti filosofico-religiosi che impegnarono i pensatori musulmani sia all'epoca del colonialismo che ai giorni nostri; leggendo le pagine che Campanini dedica all'argomento, si scopre un Islam vivace e desideroso di accogliere i mutamenti storico-sociali del mondo. 
La storia mediorientale è poi, come in linea di massima già molti sanno, storia di sfruttamento e ingerenze da parte dell'Occidente. Il libro inizia mostrandoci il colonialismo francese e britannico in nord Africa e Medio Oriente; finisce facendoci vedere le ingerenze statunitensi nelle politiche di paesi come Iraq e Afghanistan. A motivare tale invadenza occidentale ci sono l'intenzione di sfruttare le risorse del posto e quella di mantenere i paesi dell'area in una relativa debolezza politica ed economica. Esempio emblematico di quello che ho appena detto è l'atteggiamento degli USA nei confronti di Saddam Hussein: lo appoggiarono quando attaccò l'Iran khomeinista, usandolo così come mezzo per tenere l'Iran debole; gli diedero addosso quando attaccò il Kuwait, perché l'Arabia Saudita ebbe paura di perdere il proprio ruolo egemonico e chiese aiuto; quando gli sciiti in Iraq si rivoltarono, non li aiutarono, lasciando che Saddam reprimesse la rivolta nel sangue e mantenesse il potere; nel 2003, sfruttando accuse poi rivelatesi false, lo deposero, lo fecero impiccare e crearono un governo "democratico". Il libro ci racconta di questa invadenza interessata dell'Occidente e ci mostra poi come sia stata una delle cause del fiorire di gruppi terroristici come Al Qaeda e l'ISIS, i quali fondano la loro propaganda facendo leva sulla miseria della gente e sul rancore nei confronti dell'invasore straniero.
Anche il tema del terrorismo è trattato in modo approfondito nel libro. Campanini ci mostra il primo terrorismo degli anni Settanta, poi quello degli anni Novanta, infine quello dei giorni nostri, e fa tra loro un paragone. Interessante è una valutazione, che io condivido perché è già mia da tempo, secondo cui l'attuale terrorismo islamico è in realtà un nichilismo che usa la bandiera dell'Islam per distruggere; i terroristi non sarebbero altro che uomini violenti e privi di valori, i quali usano la religione come pretesto per versare sangue.  

Consiglio vivamente la lettura di Storia del Medio Oriente contemporaneo, lo ritengo infatti il miglior mezzo con cui liberarsi di tutti i pregiudizi che politici e mass media ci inculcano riguardo il mondo arabo e i musulmani in generale.
Il mondo arabo-islamico è molto complesso e le sue vicende sono frutto di una storia molto travagliata, le valutazioni spicciole cui siamo abituati noi non potranno mai essere esatte. Campanini ci mostra come quei popoli siano stati maltrattati, come abbiano perso le occasioni di democratizzazione a causa delle divisioni interne, come alcune aree siano state politicamente alterate da invasori stranieri (l'Iraq è un invenzione inglese, il Libano lo crearono i francesi, di Israele non c'è neanche bisogno di parlare) e quindi come alcune divisioni siano state volontariamente acuite. La storia del Medio Oriente è storia di sfruttamento, di lotte per l'egemonia politica, di guerre e terrorismo, ma anche di sviluppo delle idee e progresso. Un mondo complesso ha bisogno di essere visto nel suo insieme per essere compreso; questo libro ci mostra tutto ciò che c'è da vedere, lo fa con rigore e con semplicità, rendendo l'argomento accessibile a tutti.

Francesco Abate

sabato 13 aprile 2019

COMMENTO AL CANTO XXV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Ora era onde 'l salir non volea storpio;
ché 'l sole avea il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l'uom che non s'affigge,
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
Il canto XXV del Purgatorio si apre con la descrizione della salita dei poeti alla settima cornice. Si è arrivati a quell'ora in cui non sono ammessi ritardi nella salita ("'l salir non volea storpio"). L'autore ci fa capire che sono passate due ore dopo mezzogiorno dicendoci che il sole ha lasciato il meridiano al Toro e la notte allo Scorpione. Poiché l'ora è tarda, i poeti fanno come l'uomo che non si ferma nonostante sia chiamato dai suoi bisogni. Imboccano la strettoia (callaia) che porta alla settima cornice in fila indiana, perché non c'è abbastanza spazio per camminare affiancati. I protagonisti di questa salita sono ovviamente Dante, Virgilio e Stazio. 
Dante ha una gran voglia di soddisfare una curiosità che lo tormenta, ma reprime questo bisogno per timore di essere inopportuno. Per esprimere la sua situazione, l'autore si paragona al piccolo di cicogna, che apre le ali per volare via dal nido, salvo poi ripensarci e richiuderle per paura ("E quale il cicognin che leva l'ala / per voglia di volare, e non s'attenta / d'abbandonar lo nido, e giù la cala, / tal era io con voglia accesa e spenta / di dimandar, venendo infino a l'atto / che fa colui ch'a dicer s'argomenta"). Virgilio si accorge del bisogno del suo protetto e lo sprona a chiedere, dicendogli di scoccare la freccia, visto che la corda dell'arco l'ha già tesa al massimo. Il poeta chiede come possano le anime dimagrire in quel luogo dove il cibo non è necessario. La guida gli risponde citando due esempi: Maleagro, che morì al consumarsi di un tizzone ardente, e l'immagine riflessa dallo specchio, la quale ripete i movimenti compiuti dal corpo che riflette. Se Dante tenesse a mente il mito di Maleagro e l'immagine riflessa dallo specchio, non troverebbe tanto difficile comprendere il motivo per cui le anime possano dimagrire; siccome l'allievo non riesce a soddisfare da solo il suo dubbio, il maestro incarica Stazio di spiegarglielo. 
Stazio inizia chiedendo scusa a Virgilio perché spiegherà a Dante l'azione della Provvidenza di Dio (la veduta etterna) nonostante il poeta mantovano possa farlo più degnamente, ma non può rifiutare la richiesta fattagli con tanta gentilezza. In queste parole di Stazio c'è a mio parere da ravvisare un'espressione di cortesia dovuta all'ammirazione che prova per il poeta mantovano, infatti lui è un'anima purificata che sta ascendendo al Paradiso, per questo dovrebbe saperne di più sull'argomento rispetto a chi trascorre l'eternità del Limbo e alla gloria di Dio nemmeno può accedere. Fatta la premessa, Stazio invita Dante a custodire nella mente le parole che gli dirà perché con esse risponderà alla sua domanda.
Stazio inizia parlando della generazione umana. Il sangue più puro, che non viene mai riassorbito dalle vene e rimane come cibo non toccato a una mensa, acquista nel cuore paterno una virtù informativa atta a formare tutte le membra umane, così come quell'altro sangue che scorre nelle vene, le nutre e in esse si trasforma ("Sangue perfetto, che mai non si beve / de l'assetate vene, e si rimane / quasi alimento che di mensa leve, / prende nel core a tutte le membra umane / virtute informativa, come quello / ch'a farsi quelle per le vene vane"). Ancora puro, il sangue scende nei genitali maschili ("ov'è più bello tacer che dire") e poi si unisce al sangue femminile nell'utero ("quindi poscia geme sovr' altrui sangue in natural vasello"). Qui si raccolgono insieme, uno disposto a subire e l'altro a fare grazie al cuore da cui discendono ("per lo perfetto loco onde si preme"); il seme maschile prima coagula e poi dà vita alla materia che ha prodotto, il feto. Quando la virtù attiva è diventata anima, questa è simile a una pianta (anima vegetativa), con la sola differenza che quella umana è ancora in via di perfezionamento, mentre la pianta in questo stato è già giunta a perfezione. L'anima vegetativa già si muove e sente, come una spugna marina, e da qui inizia a sviluppare i cinque sensi. La virtù informativa, che discende dal padre, si spiega e si distende a formare le membra umane. 
Spiegato come si forma il corpo umano, Stazio dice a Dante che ancora non ha spiegato come si sviluppa l'anima razionale. Si tratta di un punto spinoso, tanto da aver indotto all'errore il filosofo Averroè, per cui l'intelletto era immateriale e disgiunto dall'anima sensitiva, e che commise tale sbaglio perché non trovò nel corpo umano un organo da cui l'intelletto dipende ("Ma come d'animal diventa fante, / non vedi tu ancor: quest'è tal punto, / che più savio di te fé già errante, / sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto"). Non appena nel feto è compiuta la formazione del cervello ("sì tosto come al feto l'articular del cerebro è perfetto"), Dio (lo motor primo) si volge a lui, lieto di quel capolavoro compiuto dalla natura ("a lui si volge lieto sovra tant'arte di natura"), e gli soffia un'anima nuova, piena di virtù, che attira a sé anima vegetativa e sensitiva, formando un'anima sola che vive, sente ed è consapevole della propria esistenza ("che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira"). Perché Dante sia meno meravigliato dalle sue parole, Stazio gli fa l'esempio del succo d'uva che, grazie al calore del sole, diventa vino. Quando poi la Parca Lachesis non ha più lino, quindi quando sopraggiunge la morte, l'anima si libera dal corpo e porta con sé le potenze corporali e spirituali (l'umano e 'l divino): le potenze vegetativa e sensitiva restano inerti perché non funzionano più gli organi, invece le potenze dell'anima (memoria, intelligenza e volontà) diventano molto più acute di prima. Senza indugio, l'anima cade o sulla riva dell'Acheronte, se è dannata, o su quella del Tevere, se è salva. Arrivata sulla riva del fiume, qualunque esso sia, la virtù informativa raggia intorno all'anima così come ha fatto per formare le membra del corpo, quindi l'aria che è intorno all'anima assume l'immagine che fu del corpo; si tratta di un processo simile a quello che porta alla formazione dell'arcobaleno quando i raggi del sole si riflettono nell'umidità dell'aria ("Tosto che loco lì la circunscrive, / la virtù formativa raggia intorno, / così e quanto ne le membra vive. / E come l'aere, quand'è ben piorno, / per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, / di diversi color diventa adorno; / così l'aere vicin quivi si mette / e in quella forma ch'è in lui suggella / virtualmente l'alma che ristette"). Il corpo aereo così formato segue l'anima ovunque, così come la fiammella segue sempre il fuoco. Poiché l'anima ha l'aspetto del corpo che ha lasciato, è chiamata ombra, e del corpo sviluppa i cinque sensi fino alla vista. Per questa ragione le anime ridono, piangono, desiderano: l'ombra è immagine degli stati d'animo che provano. 
Mentre Stazio parla, i poeti giungono alla settima cornice. Girano a destra e devono prestare attenzione al fuoco che viene sprigionato dalla parete della montagna; fortunatamente un vento soffia nella cornice e spinge le fiamme verso l'alto, così che la parte esterna della cornice sia percorribile. I tre poeti si trovano costretti a procedere uno alla volta lungo il lato esterno della cornice, perciò Dante ha paura sia di bruciarsi con le fiamme sia di cadere giù. Virgilio spiega che nella cornice si vuole che chi la percorra tenga a freno gli occhi, perché è molto facile sbagliare. Il commento del poeta mantovano può avere due significati: può riferirsi esplicitamente alla situazione di pericolo che c'è nella cornice, ma può allo stesso tempo essere un giudizio sul peccato di lussuria e sulla facilità con cui ci si può cadere. Dante sente cantare un inno che inizia con le parole "Summae Deus clementiae", si tratta di un inno che si canta al mattutino del sabato e che probabilmente l'autore inserì nel canto perché fa esplicito riferimento in alcuni versi alle fiamme che bruciano le carni affinché le membra siano vigili e il peccato di lussuria rimosso. L'inno che sente gli fa desiderare di volgersi verso il fuoco per vedere le anime che lo cantano, non dimenticando però di prestare attenzione al cammino, così come gli aveva consigliato Virgilio ("<< Summae Deus clementiae >> nel seno / al grande ardore allora udi' cantando, / che di volger mi fé caler non meno; / e vidi spirti per la fiamma andando; / per ch'io guardava a loro e a' miei passi, / compartendo la vista a quando a quando"). Terminato il canto, le anime gridano forte "Virum non cognosco", che secondo la tradizione evangelica furono le parole pronunciate dalla Vergine Maria all'arcangelo Gabriele quando questi le annunciò la maternità; si tratta perciò di un esempio di castità, virtù opposta alla lussuria. Le anime riprendono il canto a bassa voce e, terminatolo, ricordano la dea Diana che si nascose nei boschi per mantenersi casta e cacciò via la ninfa Elice, che era stata sedotta da Giove. Riprendono nuovamente a cantare, inframezzando il canto ad altri esempi di castità, sempre camminando nel fuoco: così scontano la loro pena ("Indi al cantar tornavano; indi donne / gridavano e mariti che fuor casti, / come virtute e matrimonio imponne. / E questo modo credo che lor basti / per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: / con tal cura convene e con tai pasti / che la piaga da sezzo si ricuscia").

In questo canto torna protagonista l'elemento teologico. Attraverso Stazio, Dante tratta il tema della formazione dell'anima e della sua immagine dopo la morte, spiegando poi come possa lo spirito patire i mali o godere dei piaceri che sono propri del corpo. 
Secondo la visione dantesca, la formazione dell'anima avviene con un concorso di forze naturali e dell'opera divina. Il feto si forma grazie al sangue puro e alla virtù informativa che viene dal padre, ma la differenza tra uomo e animale, quindi la formazione dell'anima razionale, si realizza grazie all'intervento diretto di Dio. Dopo la morte, torna in azione la virtù informativa che permette la formazione dell'immagine dell'anima, l'ombra, sulla quale diventano visibili gli effetti delle pene o delle beatitudini dell'aldilà.
A spiegare le verità dell'anima e della grazia divina non è idonea la ragione umana, infatti non è Virgilio a parlarne, ma serve l'opera della filosofia morale, per questo è Stazio che spiega e che occupa con le sue parole la maggior parte del canto. La ragione, cioè il poeta mantovano, riesce solo a chiarire la questione con due esempi, uno mitologico (Maleagro) e uno scientifico (l'immagine riflessa dallo specchio), ma non può esprimere la spiegazione nel dettaglio.

Francesco Abate   

martedì 9 aprile 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "IO SONO QUI" DI MICHELLE GRILLO

Pubblicato nel febbraio del 2018, Io sono qui è il romanzo d'esordio della scrittrice Michelle Grillo.
Scritto in uno stile molto asciutto e diretto, il romanzo tratta un tema molto delicato, quello dell'abbandono. L'autrice ci porta in un viaggio dentro il mare nero che si forma nel cuore di una persona dopo aver subito il peggiore abbandono che si possa subire, quello della madre.

Protagonista della vicenda è Céline, giovane donna single che vive nel sud Italia la quale, mentre vive una normalissima giornata, riceve la notizia della morte della madre. Accetta di occuparsi delle formalità del caso nonostante la madre sia morta a Parigi e, soprattutto, nonostante sia stata abbandonata da lei quando aveva tredici anni. La tragedia le fa intraprendere un viaggio nella capitale francese dove, vedendo i luoghi in cui si è rifatta una vita la madre, sente riaffiorare violento il rancore e l'odio nei suoi confronti. La vita sa però essere imprevedibile e lentamente Parigi diventa il luogo dove Céline subisce una maturazione violenta e vede cambiare drasticamente i sentimenti che prova per la madre.
La vicenda di Céline si svolge con Parigi sullo sfondo, una città magnifica ma ferita; siamo infatti nei giorni degli attentati al Bataclan e allo Stade de France.
Della trama non posso dirvi di più, vi rovinerei il piacere della lettura e andrei a vanificare la suspense creata dall'autrice con un abile uso di sogni e flashback.

Io sono qui è, come ho già detto all'inizio, un romanzo che tratta il tema dell'abbandono. L'autrice usa Céline per mostrarci l'abisso che si crea nell'animo di una ragazza che perde un genitore nel periodo più delicato della propria vita, quello dell'adolescenza. Céline in apparenza sembra aver superato brillantemente il trauma, ma la storia ci mostra una ragazza tanto fragile da evitare ogni stabile legame sentimentale. Ferita gravemente dalla persona che più amava, sceglie inconsapevolmente di non correre altri rischi e si rifugia in una tranquilla e innocua routine.
Lo sviluppo della storia ci dà anche un altro insegnamento. Céline prova un profondo rancore nei confronti della madre, eppure scavando nella sua vita è costretta a cambiare giudizio. Il romanzo ci insegna perciò a non essere troppo severi nei confronti di chi ci fa soffrire, a volte infatti dietro a un comportamento che ci ha ferito potrebbe esserci una ragione che non comprendiamo. Nei rapporti umani, come del resto in tutto ciò che concerne l'umanità, difficilmente c'è l'assolutamente giusto o l'assolutamente sbagliato; le sfumature sono infinite e non sempre siamo in grado di coglierle, perciò non dobbiamo mai essere troppo drastici e superficiali nei giudizi.  
Anche se apparentemente lo tratta poco, nel romanzo non manca il tema della violenza sulle donne. Non posso rivelarvi troppo per non anticiparvi parti importanti della trama, nella storia sono però ben descritti gli effetti devastanti degli abusi sessuali sulla psiche di una ragazza.

Io sono qui è un buon romanzo di formazione che ci permette, attraverso l'evoluzione di Céline, di riflettere sui rapporti umani e sulle cicatrici che la vita può lasciare nelle persone. Si tratta di una lettura piacevole oltre che proficua. Michelle Grillo è anche brava a creare l'attesa dello sviluppo degli eventi, riuscendo a diffondere nell'atmosfera del libro quell'aria di tensione che invita a divorare le pagine. 
Dal mio personale punto di vista, che è quello che espongo sempre nelle mie recensioni, la scrittura di Michelle Grillo ha un solo difetto: la storia pecca un po' di originalità e in alcuni passaggi, così come nell'epilogo finale, diventa un po' prevedibile. Nonostante ciò, per i motivi che ho detto sopra, credo che Io sono qui sia una buona lettura.

Francesco Abate

domenica 7 aprile 2019

COMMENTO AL CANTO XXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Ne 'l dir l'andar, ne l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento.
E l'ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.
Il canto XXIV si apre con la continuazione del dialogo tra Dante e l'amico Forese Donati, con l'autore che constata come né il chiacchierare rallenti il loro cammino né il muoversi intacchi il vigore delle osservazioni dell'anima, ma si spostano velocemente come la nave spinta dal buon vento. Le anime intanto, consunte dalla pena della cornice (rimorte), guardano con stupore l'uomo che cammina tra loro pur essendo ancora in vita. D'un tratto, Dante constata come Stazio proceda nel cammino più lentamente di quanto avrebbe fatto se fosse stato solo, accompagna i poeti nel loro viaggio e questo lo rallenta, dopodiché chiede a Forese dove sia sua sorella Piccarda e se può indicargli tra quelle anime qualcuno degno di essere notato. L'amico risponde subito dicendo che la sorella, che non sa se fu più buona o più bella, trionfa tra le anime del Paradiso; spiega poi che non è vietato nella cornice indicare i nomi delle anime, dato che esse sono rese irriconoscibili dall'estrema magrezza che le sfigura. Fatta l'introduzione, Forese indica Bonaggiunta da Lucca, giudice e poeta lucchese; più in là fa notare a Dante un volto più screpolato e grinzoso degli altri ("...e quella faccia di là da lui più che l'altre trapunta..."), si tratta del pontefice Martino IV, il quale fu canonico della diocesi di Tours ("dal Torso fu"), ed ebbe fama di essere goloso delle anguille del lago di Bolsena, che faceva morire nel vino e cucinare in vari modi, per questo si purga con la fame e la sete ("ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / l'anguille di Bolsena e la vernaccia"). Forese indica molti altri nomi e Dante nota come ogni anima, una volta indicata, appaia contenta, mentre nessuno si rattrista; questo succede perché essere ricordate dà alle anime la speranza di ricevere preghiere in suffragio. Il poeta, scrutando le anime, vede Ubaldino degli Ubaldini, padre dell'arcivescovo Ruggeri, che muove le mascelle a vuoto a causa della fame ("vidi per fame a vòto usar li denti"); poi nota Bonifazio dei Fieschi, arcivescovo di Ravenna dal 1274 al 1294, che diede da mangiare alla sua mensa a molti cortigiani ("che pasturò col rocco molte genti"); infine osserva Marchese degli Orgogliosi, che fu podestà di Faenza, il quale in vita fu un grande bevitore e mai sentì appagata la propria sete. 
Terminato l'elenco delle anime dei golosi, Dante riporta la sua attenzione su Bonaggiunta da Lucca, che sembra il più interessato di tutti a parlare con lui e mormora qualcosa che al poeta sembra la parola "Gentucca". Sul significato di Gentucca i critici sono da sempre divisi: per alcuni è una parola che significa "gente da poco", riferita ai fiorentini che esilieranno Dante; per altri è il nome proprio di una gentildonna lucchese conosciuta dal poeta nel periodo dell'esilio, Gentucca Morla. Nello scrivere della parola mormorata da Bonaggiunta, l'autore ci dice di averla sentita "là, dov'el sentia la piaga de la giustizia che sì li pilucca", cioè gliela sentiva dove la giustizia divina lo tormentava, quindi nella gola. Incuriosito dal lucchese, Dante gli si rivolge direttamente e gli chiede di parlare apertamente in modo che lui possa capire. Bonaggiunta dice che ancora non porta il velo nero prescritto alle donne maritate la ragazza che darà ospitalità a Dante proprio a Lucca. Il poeta lucchese in pratica predice l'esilio dell'omologo fiorentino e la sua permanenza a Lucca, gli dice poi che se non gli crede, saranno i fatti a mostrargli la veridicità delle sue parole. Fatta la predizione dell'esilio, Bonaggiunta chiede se ha davanti colui che ha rinnovato lo stile della poesia a cominciare dal componimento "Donne ch'avete intelletto d'amore". La poesia a cui fa riferimento l'anima è la prima canzone di lode a Beatrice contenuta nella Vita Nuova e fu quella forse più cara al poeta, che la citò più volte nel De vulgari eloquentia e dichiarò di averla composta con assoluta spontaneità. Dante spiega di essere un poeta che scrive quando Amore gli detta le parole e cerca di riprodurre fedelmente ciò che gli viene suggerito. Sentita la risposta del poeta fiorentino, Bonaggiunta dice di vedere adesso la distanza che separò lui, Jacopo da Lentini ('l Notaro) e Guittone d'Arezzo, dalla poesia del Dolce stil novo; vede adesso come le poesie degli stilnovisti fossero più fedeli delle loro all'Amore (dittator) e questa è tutta la differenza che ci fu tra i loro stili. 
Bonaggiunta tace e le anime dei golosi, come a volte fanno le gru lungo il Nilo, che si raccolgono nell'aria e volano via più velocemente, si voltano e accelerano il passo, rese leggere dalla magrezza e dallo zelo ("Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, / così tutta la gente che lì era, / volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera"). Forese si muove più lentamente, come l'uomo stanco di trottare che lascia andare avanti i compagni e passeggia finché non gli è passato l'affanno, e chiede a Dante quando lo rivedrà. Sente vicino il momento del distacco e già mostra di provare nostalgia. Il poeta risponde di non sapere quanto gli resti da vivere, ma è certo che non morirà prima di aver desiderato di giungere nuovamente alla riva del Purgatorio, poi si lascia andare a uno sfogo e dice che la sua città, Firenze, pare destinata alla rovina e si spoglia sempre più di ogni virtù ("<< Non so >>, rispuos'io lui, << quant'io mi viva; / ma già non fia 'l tornar mio tantosto, / ch'io non sia col voler prima a la riva; / però che 'l loco u' fui a viver posto, / di giorno in giorno più di ben si spolpa, / e a trista ruina par disposto. >>"). Forese a questo punto lo invita a proseguire il suo cammino, ma prima gli annuncia che la principale causa dell'impoverimento spirituale di Firenze, cioè suo fratello Corso Donati, capo dei Guelfi Neri, sarà presto trascinato da un cavallo fino all'Inferno e il suo corpo sarà straziato dalla bestia; non manca molto perché sia chiaro a Dante ciò che sta dicendo. Ciò detto, Forese si congeda dicendo che il tempo nel Purgatorio è prezioso e lui ne perde troppo seguendo l'amico, poi si allontana velocemente, come il più prode dei cavalieri che esce dalla schiera per combattere il primo duello ("<< Or va, >> diss'el; << che quei che più n'ha colpa, / vegg'io a coda d'una bestia tratto / inver' la valle ove mai non si scolpa. / La bestia ad ogni passo va più ratto, / crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente disfatto. / Non hanno molto a volger quelle ruote >>, / e drizzò li occhi al ciel, << che ti fia chiaro / ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. / Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro / in questo regno, / sì ch'io perdo troppo / venendo teco sì a paro a paro. >>"). La profezia di Forese, sebbene espressa in modo simbolico, è abbastanza chiara: suo fratello Corso Donati morirà a breve (fu ucciso nel 1308, otto anni dopo lo svolgimento della vicenda narrata nella Commedia). La morte del fratello, che si narra cadde da cavallo e fu colpito alla gola con una lancia, viene arricchita da dettagli simbolici: in alcune città i traditori erano legati alla coda di un cavallo lanciato al galoppo, quindi Corso perisce come un traditore e come tale finisce all'Inferno; l'immagine della bestia che fa strazio del corpo abbandonato serve poi ad arricchire di drammaticità il trapasso. Forese non nomina mai direttamente il fratello, lasciando trasparire la sofferenza che in lui provoca tale previsione, la quale si sposa perfettamente col dolore che manifesta Dante per il degrado subito da Firenze e per le sue vicende personali.
Dante rimane solo con Stazio e Virgilio, che fuor del mondo sì gran marescalchi, cioè che furono guide del mondo intero. Segue ancora con gli occhi Forese che si allontana, così come con la mente segue le parole che gli ha appena detto, quando si trova davanti un altro albero. Sotto la pianta ci sono i golosi che alzano le mani e gridano qualcosa verso le fronde, come bambini che pregano senza ricevere risposta qualcuno che si diverte a tenere acceso il loro desiderio. Le anime, comprendendo che non avranno i frutti, si allontanano dalla pianta a cui, invece, si avvicinano i poeti, i quali sentono una voce che li invita a passare oltre senza avvicinarsi, e spiega che più su (nel Paradiso terrestre) c'è l'albero della conoscenza del bene e del male da cui questo deriva. Virgilio, Stazio e Dante si stringono per passare al lato della pianta. Mentre passano oltre, la voce gli ricorda gli esempi di gola punita: i Centauri che, ubriachi, provarono ad aggredire le donne durante le nozze di Piritoo e Ippodamia, finendo uccisi in molti per mano di Teseo; gli Ebrei che si mostrarono inclini a bere e furono esclusi da Gedeone dall'assalto contro i Madianiti, I poeti passano oltre stringendosi al lato interno della cornice, si ritrovano con la strada libera dalle anime e procedono meditando sugli esempi di gola punita appena uditi. Il loro cammino è interrotto da una voce che fa sobbalzare Dante il quale, voltatosi, vede una luce più forte di quella dei metalli e dei vetri nelle fornaci. L'angelo dice che se vogliono salire devono girare lì. Accecato dalla luce della creatura divina, il poeta si volta in cerca delle sue guide, intanto sente un vento paragonabile alla profumata brezza di maggio e il tocco della piuma dell'angelo sulla fronte (che gli cancella un'altra P), poi gli sente beatificare coloro i quali sono illuminati dalla grazia e non si abbandonano ai piaceri della gola ("E senti' dir: << Beati cui alluma / tanto di grazia, che l'amor del gusto / nel petto lor troppo disir non fuma, / esuriendo sempre quanto è giusto").

In questo canto del Purgatorio troviamo un po' tutto: c'è la politica, c'è il sentimento, ci sono valutazioni poetiche e c'è la teologia.
La politica è presente nelle considerazioni, seppur brevi, sulla corruzione morale di Firenze. La teologia invece pervade l'ultima parte del canto, con gli esempi di gola punita, la descrizione dell'albero e la beatitudine espressa dall'angelo. Le valutazioni poetiche sono quelle espresse da Bonaggiunta circa lo stilnovismo, che qui viene riconosciuto come linguaggio puro dell'Amore; viene in pratica sancita in questo canto la superiorità del Dolce stil novo rispetto agli altri generi poetici.
La parte più intensa del canto è però quella sentimentale. Il momento del congedo dei due amici, Dante e Forese, è molto toccante. Forese manifesta subito tristezza e nostalgia per l'abbandono imminente e inevitabile dell'amico, gli chiede quando potrà rivederlo ben sapendo di non poter avere risposta, è perciò una domanda che suona più come una constatazione malinconica. Dante, dal canto suo, manifesta un profondo scoramento dicendo che arriverà a desiderare la morte prima che questa giunga, ci lascia perciò intravedere la disperazione di chi è tenuto fuori dalla città che ama e da lontano la vede sempre più in rovina. Questo quadro poeticamente triste si chiude con la predizione di Forese, il quale vede l'imminente morte e dannazione del fratello, dipingendola con tinte molto forti e crude, mostrandoci l'evento in tutta la sua violenta tragicità.

Francesco Abate