mercoledì 29 novembre 2023

LIBIA

 

Libia è una poesia contenuta nella mia raccolta Inferno.
In questa poesia non canto il dramma di un solo popolo, ma quello dell'enorme massa umana che si sposta dalla propria casa alla ricerca di un mondo migliore nel nostro occidente sedicente civilizzato. La Libia è il punto in comune di buona parte dei viaggi della speranza di questa povera gente, perché molti di loro nel paese nordafricano vengono fermati a forza e stipati in centri di raccolta, i quali non sono altro che campi di concentramento in cui ai prigionieri sono riservate torture e umiliazioni di ogni genere.
Quello che succede in Libia, ma che in proporzioni diverse accade in tante altri parti del mondo, è la sconfitta dell'umanità; non sono bastate due guerre mondiali e le atrocità dei lager nazisti a insegnarci il rispetto dei diritti umani, continuiamo a commettere le stesse atrocità per mantenere in piedi un sistema economico perverso e iniquo. I lager libici esistono non perché quell'Occidente che si veste da protettore dei diritti umani non li vede, ma perché servono a tenere in piedi un accordo che quello stesso Occidente ha stipulato con la Libia.

La poesia è il canto di un migrante qualunque: "Scappai da fame, violenza e dolore, / traversai il deserto di fiamme e veleno, giunsi alla spiaggia della speranza". I sogni di questo poveretto si scontrano però con la crudeltà della Libia ("La Luna e la stella", immagini contenute nella bandiera libica), che come spesso accade maltratta e mette all'asta il migrante come fosse semplice merce di poco valore: "La Luna e la stella sono spietate, / mi rubano la vita per venderla / e avere i soldi per farsi la guerra; / quanti dinari per ogni mio urlo? / quanti dinari per questo mio sangue?"
Il migrante fugge attraverso il mare, incontrando l'indifferenza tanto di Malta quanto dell'Italia, che si rimbalzano le responsabilità mentre i barconi stracolmi affondano in mare: "Vennero pescatori dell'isola dei cavalieri / e risero della mia debolezza / ... / Vennero soldati dalla penisola dei falsi / e finsero di non potermi vedere".
Il finale di questa storia non è lieto, come spesso accade nel mondo reale: "Scappai da fame, violenza e dolore, / per trovare il freddo abbraccio d'un cielo / liquido, senza stelle e salato".


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Francesco Abate

martedì 21 novembre 2023

LA TOLLERANZA RELIGIOSA SECONDO IL FILOSOFO JOHN LOCKE

 

Il filosofo inglese John Locke dedicò molte energie al tema della tolleranza religiosa, che era scottante ai suoi tempi visti gli attriti tra anglicani e papisti e lo scisma causato dalla Riforma protestante. I suoi scritti però vanno letti non solo per comprendere un punto di vista circa la tolleranza delle confessioni religiose coesistenti in uno stato, ma possono essere estesi anche alla tolleranza delle opinioni diverse, quindi assimilati con un carattere più squisitamente politico ed etico, e diventare molto attuali anche per noi occidentali che, almeno sulla carta, dovremmo essere guariti dal cancro della repressione religiosa.
Onde evitare equivoci, inizio col chiarire che la tolleranza per Locke non era dovuta a tutte le confessioni religiose. Ci tengo a specificarlo perché oggi, nell'enfasi modernizzatrice e spinti dalle pressioni della cancel culture, si finisce spesso per attribuire a pensatori ed intellettuali del passato pensieri o aperture che non gli appartenevano; ogni autore va letto e compreso, poi va giudicato sempre in funzione dell'epoca e del contesto storico in cui è vissuto, perché nessun essere umano, per quanto eccelso, può essere mai un puntino totalmente staccato dal mondo in cui vive. Locke promuove la tolleranza religiosa per tutte quelle fedi che non tendono a sovvertire l'ordine costituito, mentre appoggia in pieno la repressione delle fedi sovversive. Molto interessante è il suo punto di vista circa la tolleranza nei confronti dei papisti: "I papisti non devono godere i benefici della tolleranza perché, dove essi hanno il potere, si ritengono in obbligo di rifiutarla agli altri. E' infatti irragionevole che abbia piena libertà di religione chi non riconosce come proprio principio che nessuno debba perseguitare o danneggiare un altro per il fatto che questo dissente da lui in fatto di religione". Questo che ho citato è un passaggio tratto dal Saggio sulla tolleranza, scritto da Locke nel 1667 e pubblicato dopo la sua morte. Il concetto che rappresenta è semplice: non può essere tollerato chi non tollera. Locke continua poi spiegando che lasciare che chi non tollera goda dei benefici della tolleranza significherebbe favorire chi vuole distruggere il governo. Questo passaggio lo trovo molto interessante perché, se tolto dal contesto religioso, può valere come regola generale della buona politica: non è bene tollerare chi non tollera, quindi i pensieri politici che predicano la repressione degli avversari (es. il fascismo) non sono da tollerare, così come le idee repressive in generale. Il pensiero di Locke, già di per sé moderno visto che in molte parti del mondo resistono le teocrazie, esteso all'ambito politico ed ideologico diventa di grande attualità anche per noi occidentali.
Sulla tolleranza religiosa Locke scrisse molto nel corso della propria vita. Oltre al saggio che ho già citato, scrisse anche quattro lettere. Secondo il filosofo le confessioni religiose vanno tollerate per quattro ragioni principali:
1) il magistrato (cioè colui che fa le leggi) deve legiferare solo su quello che può danneggiare la società o il governo, cosa che i culti non sovversivi non fanno;
2) l'imposizione della religione da professare porta ad una falsa adesione che non assicura la salvezza dell'anima, è perciò inutile, oltretutto può nutrire dei rancori che col tempo possono fermentare e portare ad una ribellione;
3) il magistrato non conosce la verità religiosa, non è in possesso della verità assoluta, quindi non può decidere dell'anima altrui;
4) imporre una confessione religiosa all'interno di una nazione giustificherebbe lo stesso comportamento in altre nazioni con altre religioni, aprendo così la strada a persecuzioni nei confronti dei correligionari del magistrato.
Molto interessante è il punto di vista di Locke sull'uso della violenza da parte del magistrato nei confronti delle persone di diversa religione. Le società politiche nascono dalla necessità degli uomini di sfuggire alla violenza del mondo, il magistrato usando la violenza contro un uomo priverebbe di senso l'esistenza dell'intera società perché infliggerebbe a qualcuno ciò da cui è fuggito quando si è sottomesso alle leggi. Scrive Locke nel Saggio sulla tolleranza: "se non vi fosse il timore della violenza, non ci sarebbe al mondo alcun governo, né alcun bisogno di esso". Il magistrato inoltre usando la violenza verrebbe meno al suo compito, che è quello di perseguire la sicurezza di tutti i cittadini, perché colpirebbe la sicurezza di alcuni al fine di avvantaggiare altri. Questo di Locke sulla violenza è un punto di vista molto interessante, a distanza di secoli dovrebbero leggerlo i nostri governanti, i quali non esitano a scatenare la violenza repressiva nei confronti di chi manifesta qualche tipo di dissenso, basti ricordare la recente repressione scatenata in Iran oppure, per restare in Italia, tornare alla mente al G8 di Genova del 2001; la repressione violenta del dissenso è ancora ampiamente utilizzata ovunque, perché il potere oggi accetta solo le proteste che giudica innocue.
Gli scritti sulla tolleranza di Locke dimostrano come il passare del tempo spesso non corrisponda a reali cambiamenti nel mondo. Nel Seicento i filosofi dibattevano tra le altre cose sulla la tolleranza e sull'uso della violenza istituzionalizzata; a distanza di circa quattro secoli questi temi sono ancora attuali, sono infatti cambiati i destinatari dell'intolleranza ma il sentimento è sempre vivo e ben nutrito. L'attualità del pensiero di Locke che ho illustrato sopra non nasce solo dalla straordinaria lucidità del pensatore, ma anche dall'immobilismo culturale delle nostre società che, benché passino gli anni e corra l'evoluzione tecnologica, continuano a perseverare negli stessi errori al fine di conservare il possesso di un potere che, sebbene malato, sembra non stancare mai.

Francesco Abate

martedì 14 novembre 2023

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

 

In questa foto vediamo un gruppo di pericolosi terroristi di Hamas colpiti dai bombardamenti israeliani.
Lasciando da parte l'ironia, quello che Israele sta facendo in Palestina in questo momento è così crudele e disumano da risultare poco digeribile perfino per nostri media, storicamente filo-americani e di conseguenza filo-sionisti. Credo sia difficile contestare che, per quanto crudele possa essere un attacco terroristico, non può giustificare la distruzione di un'intera comunità, così come dovrebbe essere facile capire che Hamas non è l'intera Palestina e che i palestinesi spesso sono spinti tra le braccia dei terroristi proprio dalle crudeltà israeliane.
Quello che poco si dice, ma che è importante per capire a fondo quanto atroce sia l'azione israeliana in Palestina, è cosa accadeva immediatamente prima dell'attacco di Hamas e della conseguente, sproporzionata, reazione israeliana. Sin dalle ultime elezioni israeliane, che hanno permesso a Netanyahu di formare un governo con l'estrema destra del paese, i sionisti hanno provocato la reazione palestinese con il costante vilipendio dei loro luoghi sacri, con aggressioni ed arresti arbitrari. Non che lo stato di cose fosse così nuovo, Israele sin da quando ha invaso il territorio palestinese e ha iniziato a rubarlo si comporta con prepotenza, ma negli ultimi mesi si era chiaramente manifestata da parte dei governanti israeliani la volontà di provocare una reazione.
Sin dal 1946 Israele occupa abusivamente il territorio palestinese, lo depreda, rinchiude i palestinesi in aree sempre più ristrette e contro di loro usa ogni sorta di prepotenza. Con le dovute proporzioni, quello che Israele sta facendo ai palestinesi ricorda molto ciò che gli statunitensi fecero ai nativi americani. Essere contro Israele non significa essere antisemiti, questo è un giochetto vittimistico che i sionisti e i loro complici usano per colpevolizzare l'intera opinione pubblica a loro contraria; essere contro Israele significa essere contro un gruppo di invasori che ha occupato e sta devastando un territorio, il tutto con la complicità della comunità internazionale. 
Detto questo, è importante leggere il momento storico attuale. Dietro un gioco politico crudele che va avanti da decenni, e che forse ha subito una brusca accelerazione per via della guerra in Ucraina (il sospetto che ci sia lo zampino della Russia non può essere ignorato), non dobbiamo commettere l'errore di sventolare le bandiere e fare il tifo. In questo momento sotto le bombe ci sono uomini, donne e bambini che stanno morendo, persone a cui viene negato il diritto all'esistenza perché nate sotto la bandiera sbagliata. Chiunque non si scaglia con decisione contro tale abominio è complice, non creda l'Onu che basti qualche smozzicata dichiarazione per pulirsi la coscienza; chi rivolge la propria rabbia contro persone che non c'entrano niente e hanno la sola colpa di essere ebrei, cogliendo l'occasione per sfogare odi che hanno ben altre poco nobili radici, è altrettanto colpevole. 
Cerchiamo per una volta di essere razionali: lo stato di Israele è colpevole e va fermato, la Palestina è vittima e va liberata. Tutto il resto sono chiacchiere.

Francesco Abate

IL CAVALIERE DELL'EST

 

Il cavaliere dell'est è una poesia contenuta nella raccolta Inferno.
In questa poesia parlo delle nobili gesta di un vero cavaliere; non della leggenda di un personaggio inventato e nemmeno delle storie su un uomo ricco che ha comprato il rispetto, ma la storia vera di un uomo semplice che ha sacrificato la propria vita per aiutare il prossimo ("Non la spada affilata avevi dell'eroe / e non un bianco destriero cavalcavi, / ma la Natura è una maga crudele / e ti maledisse col più perfido dei doni: / la forza di non chiudere gli occhi").
La poesia è ispirata alla storia di Adnan Siddique, un uomo che dal Pakistan era emigrato in Italia e, come ho scritto nei versi citati sopra, aveva il peggiore dei doni: la forza di non far finta di niente davanti alle ingiustizie. Adnan tentò di aiutare alcuni suoi connazionali costretti a fare i braccianti a cui i caporali rubavano la metà dello stipendio, addirittura convinse uno di loro a sporgere denuncia ("Guardasti negli occhi il demone / che seviziava i tuoi fratelli dell'est..."). La storia di Adnan, come buona parte delle storie vere che riguardano gli eroi, non ha un lieto fine: fu aggredito in casa e ucciso a coltellate ("Non so quante volte il coltello / stracciò la sua morbida carne / e non contai quante gocce di sangue / sporcarono la strada in cui il mostro / attaccò alle spalle il nostro eroe").
Come purtroppo accade spesso alle tristi storie dei migranti, la vicenda di Adnan ebbe una forte eco mediatica all'inizio, scatenando le chiacchiere dei politici che per i propri sporchi fini alimentano il sistema che l'ha ucciso, per poi finire subito dopo sommersa dal silenzio complice nostro e della nostra classe dirigente:
Adnan è morto. L'eroe è caduto.
Tacciono le sue parole di fuoco
e lasciano il posto all'aria vuota
sputata dai polmoni pigri e vili
di codardi che indossano la cravatta.

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Francesco Abate

mercoledì 8 novembre 2023

MEMORIE DEL SOTTOSUOLO DI FEDOR DOSTOEVSKIJ

 

Memorie del sottosuolo è un romanzo breve pubblicato a puntate dallo scrittore russo Fedor Dostoevskij nel 1864.
L'opera è la prima in cui l'autore presenta uno studio dell'abiezione umana ed è per questo considerata antesignana dei suoi più grandi capolavori come Delitto e castigo I fratelli Karamazov.
Il romanzo altro non è che una raccolta delle memorie del protagonista e si divide in due parti: ne Il sottosuolo chi scrive rende partecipe il lettore delle proprie teorie sul sottosuolo e sull'animo umano, poi ne A proposito della neve bagnata ci descrive la sua storia di abiezione e di scelta del dolore.
Il protagonista di questa storia è infatti una sorta di autolesionista, un uomo che esercita la propria volontà facendosi del male, assumendo una serie di comportamenti utili solo ad acuire il proprio disagio spirituale. A scrivere è un uomo che si sente respinto dalla società, inferiore a tutti, e che con ogni sua azione non fa che scivolare sempre più in basso, rannicchiandosi come un animale nel proprio sottosuolo. Alla fine prova a cercare consolazione nell'abiezione massima; comincia a tormentare una persona che sente inferiore a lui, una giovane prostituta alle prime armi, ma anche questo comportamento disgustoso finisce solo per farlo stare peggio.
Memorie del sottosuolo è di certo influenzato dall'esistenza molto tribolata del suo autore. Nel 1849 Dostoevskij fu condannato a morte perché parte di un gruppo socialista ispirato dalle idee del filosofo Fourier, la pena gli fu poi commutata sul patibolo e fu costretto al confinio in Siberia. Prigioniero, morì nello scrittore l'idea dell'uomo che, in condizioni ideali, riesce ad autodeterminarsi per perseguire il bene, e nacque invece l'ossessione per il sottosuolo, cioè per lo stato dell'animo umano che rinnega gli alti ideali e si rannicchia nella miseria morale. Memorie del sottosuolo in fondo è questo, una lezione in cui l'autore, citando l'esempio del protagonista dell'opera, spiega come esercitando la propria libera volontà l'uomo possa scegliere il proprio male, come quindi ci sia una differenza abissale tra gli alti ideali della società del tempo e la vita reale, come gli uomini eroici plasmati dai letterati e dai filosofi non esistano perché "...tutti zoppichiamo, chi più e chi meno".
Per quanto mi riguarda, Memorie del sottosuolo non è l'opera migliore di Dostoevskij, o almeno è quella che appassiona meno e che si fa leggere meno volentieri. Credo sia però importante approcciare a questo romanzo per capire a fondo la poetica dello scrittore russo, in fondo le sue grandi opere immortali sono figlie di questo romanzo breve.

Francesco Abate

domenica 5 novembre 2023

RUANDA

 

Ruanda è una poesia contenuta nella raccolta Inferno.
Nei versi di questo componimento faccio riferimento al genocidio che insanguinò il paese africano nel 1994 e che causò circa 800.000 morti. Ad essere perseguitati furono i ruandesi del gruppo etnico dei Tutsi, uccisi a colpi di machete e mazze chiodate dai concittadini Hutu. Il genocidio fu l'episodio culminante di un odio razziale introdotto dai colonizzatori belgi a partire dagli anni Venti del Novecento; prima di allora i due gruppi etnici vivevano concordi e non erano rari anche i matrimoni misti. L'odio razziale introdotto dal colonizzatore belga negli anni fu inasprito dalla lotta per il potere, e il culmine si ebbe nel 1994 quando gli Hutu, attraverso due gruppi paramilitari, iniziarono una crudele e inesorabile operazione di sterminio dei Tutsi.
Nella poesia chi parla, che si deduce appartenere al gruppo dei Tutsi, si chiede: "Perché mio fratello non mi è più fratello? / Perché la carezza è diventata un machete?"
Il protagonista fugge, ma è consapevole che "qualcuno tanto veloce non fuggirà" e per questo cadrà vittima della furia Hutu. La poesia si conclude con un verso carico di dolore: "e di sangue straripò il Kagerà". Kagera è il fiume che delimita il confine tra Tanzania e Ruanda; nella poesia accento l'ultima lettera del suo nome per creare un'assonanza con il verso precedente e dare un po' più di musicalità.


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Francesco Abate