domenica 17 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
Il canto X inizia con Virgilio che, seguito dal suo protetto, percorre una via posta tra il muro di Dite e i sepolcri infuocati degli eretici. Dante si rivolge alla sua guida ("O virtù somma, che per li empi giri / mi volvi") e chiede se sia possibile vedere coloro che abitano quei sepolcri, infatti pensa sia semplice soddisfare questa curiosità visto che sono aperti e nessun demonio è nei pressi a far la guardia. Tanto sono profondi i sepolcri infatti che per il poeta è impossibile vedere chi c'è dentro nonostante i coperchi siano sollevati. Virgilio non si limita solo ad acconsentire, con la sua risposta spiega a Dante quale sarà il destino degli eretici e a quale eresia appartennero quelli che patiscono la loro pena nella zona che adesso i due poeti stanno percorrendo. La guida spiega che nel giorno del giudizio gli eretici verranno rinchiusi con i loro corpi nei sepolcri, adesso aperti, e lì sconteranno la pena per l'eternità. "Tutti saran serrati / quando di Iosafàt qui torneranno / coi corpi che là su hanno lasciati", dice Virgilio, citando il termine "Iosafàt", che il profeta Gioele usò per indicare la valle dove Dio emetterà il giudizio sull'operato degli uomini. Dopo aver illuminato Dante sul destino degli eretici, gli spiega che in quella zona giacciono gli Epicurei, coloro "che l'anima col corpo morta fanno". Il filosofo Epicuro, che Dante conobbe per mezzo degli scritti di Cicerone, riteneva infatti che l'anima fosse una sostanza materiale diffusa per tutto l'organismo e fosse mortale. Alla fine del suo discorso Virgilio rassicura Dante dicendogli che a breve saranno soddisfatte sia la curiosità che ha manifestato, sia quella che ha celato ("Però a la dimanda che mi faci / quinc'entro satisfatto sarà tosto, / e al disio ancor che tu mi taci"). Il poeta a questo punto si giustifica spiegando che certe domande evita di farle non per mancanza di fiducia nei confronti della guida, ma per "dicer poco" così come gli è stato più volte chiesto di fare.
Il dialogo tra Dante e Virgilio è bruscamente interrotto dalle parole di Farinata degli Uberti, di cui Dante aveva già chiesto notizia a Ciacco (canto VI, verso 79). Farinata, il cui vero nome fu Manente, fu capo politico e militare dei ghibellini fiorentini e nel 1248 cacciò i guelfi dalla città. Quando tre anni dopo i guelfi ritornarono, furono i ghibellini e lo stesso Farinata ed essere esiliati. Nel settembre del 1260 sconfisse a Montaperti i guelfi e rientrò a Firenze da conquistatore, opponendosi però a chi voleva distruggere la città. Morì nel 1264, circa un anno prima della nascita di Dante. Dopo la morte, Farinata e i suoi uomini furono giudicati eretici, per questo Dante lo colloca in questo cerchio. Farinata si erge dal suo sepolcro quando sente Dante esprimersi nella lingua della sua città, infatti lo chiama: "O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto, / piacciati di restare in questo loco. / La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natìo, / a la qual forse fui troppo molesto". Dante inizialmente si spaventa e si accosta a Virgilio, quest'ultimo lo esorta a voltarsi e guardare Farinata che s'è alzato ed è visibile in tutta la parte superiore del corpo. Il poeta finalmente volge lo sguardo verso il dannato. Davanti stavolta non si trova un personaggio devastato o umiliato, bensì ad una figura eretta che manifesta tutta la propria forza, per Dante è come se "avesse l'inferno a gran dispitto". Già da questo particolare, cioè dalla posizione del corpo di Farinata, possiamo capire come il poeta lo stimasse nonostante fosse uno dei principali esponenti della parte politica avversa. Farinata non è dilaniato dagli altri dannati, non è trasfigurato come una bestia e non ha il visto stravolto dal dolore: affronta l'Inferno con la stessa forza e determinazione con cui in vita affrontò le battaglie contro i guelfi. Anche nel porre all'uomo che ha di fronte una domanda, cioè quali furono i suoi antenati, non piange né implora, addirittura appare sdegnoso. Dante gli cita i suoi antenati e Farinata constata come essi furono suoi nemici e lui due volte li cacciò dalla città. Anche nel ricordare le sue vittorie in battaglia contro i guelfi, il dannato dimostra un orgoglio non piegato dalla pena che sta subendo: il ricordo della gloria passata sembra attenuargli la pena. Dante ribatte però che i guelfi, cacciati dalla città, seppero rientrarvi entrambe le volte, cosa che i ghibellini non sono stati in grado di fare. 
Il dialogo tra Dante e Farinata è interrotto dall'apparizione di una figura molto diversa da quella del dannato orgoglioso, quella di Cavalcante dei Cavalcanti. Cavalcante fu padre del poeta Guido, grande amico di Dante. Egli non si erge sprezzante come Farinata, rimane in ginocchio e di lui Dante vede solo la testa. Cavalcante si preoccupa di sapere come mai, se Dante è giunto fin lì grazie all'altezza del suo ingegno, non è con lui Guido. Questa domanda la fa piangendo, ha già il sospetto che suo figlio sia morto. Nel rispondergli che quel viaggio non dipende da lui, ma da un Bene superiore che forse non ritiene Guido Cavalcanti degno, Dante commette l'errore di usare il tempo passato ("per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno"), così Cavalcante si convince che suo figlio sia morto e ne chiede conferma. Dante non risponde a questa nuova domanda, facendo cadere il dannato nella disperazione al punto da lasciarsi cadere supino nel sepolcro infuocato. La mancata risposta del poeta non è però determinata dalla pietà, infatti Guido Cavalcanti è ancora vivo, ma da un dubbio che di colpo lo assale: fino a quel momento i dannati sono stati capaci di predire il futuro, non si spiega perciò come possa Cavalcante ignorare il destino del figlio. 
Caduto Cavalcante nel sepolcro, torna in scena Farinata. Quest'ultimo non mostra alcun interesse né alcuna pietà per il suo compagno di sventura, nemmeno gira la testa per vedere meglio ciò che accade. Farinata riprende il dialogo interrotto dall'apparizione di Cavalcante rispondendo all'ultima affermazione di Dante e lo fa con una profezia, accentuando la contrapposizione con l'altro dannato, che è incapace di vedere nel futuro del figlio. Farinata dichiara che l'incapacità dei ghibellini di rientrare a Firenze gli pesa più della pena che sta scontando ("S'elli han quell'arte ... male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto"), ma predice a Dante che sperimenterà in prima persona la difficoltà dell'impresa prima che siano passati cinquanta mesi ("Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge"). Fatta la predizione, Farinata chiede a Dante perché a Firenze siano così ingiusti nel fare leggi contro la sua famiglia (dalla pace del 1280 in poi, diversi furono i decreti con cui si riammettevano famiglie ghibelline a Firenze, ma gli Uberti furono sempre esclusi). Dante motiva l'accanimento dei fiorentini contro gli Uberti con il sangue che questi fecero scorrere nella battaglia di Montaperti. L'ultima risposta di Dante genera un cambiamento nell'atteggiamento di Farinata, adesso sospira e muove il capo, perdendo un po' della sua alterigia e forse prendendo atto della colpa che gli viene addebitata, infine si giustifica prima ricordando che non fu lui solo a far scorrere quel sangue e non lo fece senza ragione, poi ricordando che fu l'unico a opporsi a coloro che avrebbero voluto distruggere la città. L'argomento del dialogo viene bruscamente cambiato da Dante, il quale chiede all'interlocutore come mai riescano a vedere nel futuro ma non nel presente. Farinata gli spiega che i dannati vedono il futuro lontano come chi ha una cattiva vista, questo non per loro capacità ma per volere di Dio, invece il futuro prossimo e il presente sfugge alla loro conoscenza e non ne sanno nulla. Ovviamente questa conoscenza del futuro la perderanno dopo il giudizio universale perché non ci sarà più il tempo, ma solo l'eternità. Dante, compresa questa verità, gli chiede di dire a Cavalcante che suo figlio Guido è ancora vivo (lo sarà per pochi mesi ancora, per questo il padre non sa più nulla di lui) e non gli ha risposto solo perché in preda al dubbio che ora Farinata gli ha tolto. Virgilio inizia a richiamare Dante, ma questo chiede ancora a Farinata di dirgli quali altri anime stiano scontando la pena lì. Farinata gli dice che sono tantissime ("Qui con più di mille giaccio") e gli cita solo Federico II e il Cardinale diacono Ottaviano degli Ubaldi. Farinata si ritira nel suo sepolcro infuocato e Dante torna da Virgilio.
Virgilio si accorge che Dante è turbato a causa della profezia avversa avuta da Farinata, per tranquillizzarlo gli dice che quando sarà al cospetto di Beatrice, che in quanto rappresentante della scienza teologica può chiarirgli ogni dubbio, verrà messo a conoscenza di tutto il suo futuro. I due poeti riprendono il cammino lungo un sentiero che conduce al settimo cerchio, dal quale si alza uno spiacevole odore.

Francesco Abate  
  

domenica 10 dicembre 2017

COMMENTO DELLE RACCOLTE DI NOVELLE DI GIOVANNI VERGA

Giovanni Verga, oltre che per i romanzi, è famoso per le sue novelle. Nei brevi componimenti che pubblicò in diverse raccolte, Verga sperimentò elementi che poi ripropose nei suoi romanzi più celebri, in alcuni però sperimentò anche tipi di narrazione che difficilmente gli attribuiremmo. Vedremo, nell'analisi delle varie raccolte di novelle che di seguito farò, che è esistito addirittura un Verga "gotico" che pochi conoscono.
Le novelle di Verga possono essere quasi tutte raggruppate nelle otto raccolte che pubblicò tra il 1876 ed il 1894. Di quelle escluse, la più importante è Nedda, il cui commento trovate al seguente link: http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/11/nedda-di-giovanni-verga.html.

La prima raccolta di novelle dello scrittore siciliano è Primavera e altri racconti. Pubblicata nel 1876, contiene novelle pubblicate su varie riviste nei due anni precedenti. Essendo una raccolta di novelle pubblicate singolarmente, non presenta omogeneità né nei temi trattati né nello stile narrativo. Proprio in questa raccolta troviamo il primo esempio del Verga "gotico" di cui parlavo prima. Le storie del castello di Trezza racconta di un castello abitato da un fantasma che di notte ne terrorizza gli abitanti. 

La seconda raccolta è una delle più famose, Vita dei campi. Pubblicata nel 1880, presenta nelle sue novelle alcune caratteristiche che si ritroveranno poi nel romanzo I Malavoglia, che sarà pubblicato l'anno dopo. In questa raccolta ci sono alcune delle novelle più famose di Verga: Rosso Malpelo, La lupa e Cavalleria rusticana.
In Rosso Malpelo troviamo la tragedia dei vinti così come ne I Malavoglia. Questa novella parla infatti di un minatore ragazzino che vive una condizione di miseria da cui non può uscire, può solo peggiorare, e in cui muore. La novella tratta anche il tema delle condizioni di vita terribili dei minatori siciliani del XIX secolo, questione che proprio in quegli anni stava emergendo prepotentemente a causa di alcune inchieste giornalistiche. Nella storia del povero Rosso Malpelo è anche presente il dramma dell'emarginazione, infatti il ragazzo è malvisto perfino in famiglia per via del colore dei suoi capelli, non trovando perciò affetto e conforto nemmeno tra le mura domestiche. Trattato come una bestia, il protagonista finisce per diventare duro di cuore, ed anche nei modi di manifestare affetto risulta brusco e violento.
Cavalleria rusticana ci mostra invece la tragedia dei delitti d'onore, quelli cioè compiuti per rivalersi nei confronti di chi insidiava la propria donna. La lupa invece rappresenta la lussuria che distrugge quel che di più sacro c'è al mondo, cioè il nucleo familiare.
Tra le novelle meno famose della raccolta, mi piace segnalare Guerra di santi, in cui Verga ci mostra lo scontro tra diverse fazioni di fedeli. Nelle vicende narrate in questa novella vediamo come si arrivano a mischiare fede, fanatismo e superstizione.

La terza raccolta, anch'essa molto famosa, è Novelle rusticane. Pubblicata nel 1883, essa anticipa il tema dell'accumulo di beni come mezzo per raggiungere la felicità, che lo scrittore ripropose nel romanzo Mastro-don Gesualdo sei anni dopo. 
Accumulare beni è l'unico modo per sopravvivere agli imprevisti della vita, questo spinge ad accumularne sempre di più. In La roba però vediamo il ricco Mazzarò, in punto di morte, che scopre come la ricchezza non gli renda meno amara la sentenza e, impazzito, cerca di portare le cose accumulate con tanta fatica con sé all'altro mondo.
Degna di nota anche La malaria, che racconta di un paese devastato dalla malattia e dai drammi che vive chi lo abita. Si tira a campare e si perde tutto, affetti e beni, mentre il resto del mondo va avanti indifferente, rappresentato dal treno che passa pieno di gente.

Del 1883 è Per le vie, raccolta di novelle ambientate nella ricca e lussuosa Milano. Verga ci mostra però l'altra faccia del capoluogo lombardo, ci racconta di chi vive ai margini, di chi a fatica sopravvive e quel benessere ostentato lo vede solo come spettatore, accontentandosi al massimo delle briciole.

Drammi intimi fu pubblicata nel 1884 e narra i mali dell'animo umano. 
In I drammi ignoti vediamo prima una giovane quasi morire d'amore, poi il dramma di sua madre che rinuncia per lei al suo segreto amante. La Barberina di Marcantonio ci mostra una vita spezzata dalle sciagure e dall'alluvione. Tentazione! descrive come, attraverso uno stupro di gruppo che degenera in omicidio, dei ragazzi spezzino una vita innocente e rovinino per sempre la propria. La chiave d'oro ci fa vedere la corruzione di un giudice e Ultima visita il dramma che vive chi perde una persona amata.

Del 1887 è Vagabondaggio. Questa raccolta di novelle non parla solo di vagabondi, ci descrive in realtà una vita che è essa stessa un interminabile vagabondaggio. L'esistenza è un cammino dalla durata e dalle vicissitudini imprevedibili.
In Lacrymae rerum Verga ci mostra diverse storie che si svolgono in una casa. In questo ambiente si susseguono famiglie diverse con storie diverse. I protagonisti arrivano, stanno un po' e poi vanno via, rendendo appieno il senso del vagabondaggio.
In questa raccolta troviamo anche il secondo esempio di Verga "gotico", nella novella La festa dei morti infatti assistiamo al risveglio di un gruppo di cadaveri che si riunisce in una grotta sotterranea. Il loro vagabondare non è finito nemmeno con la morte.

I ricordi del capitano d'Arce è una raccolta di novelle pubblicata nel 1891. Verga, attraverso i ricordi di un capitano di marina, narra le vicende della moglie di un comandante. Donna adultera e civettuola, vive l'amore con la massima libertà. La vediamo prima nel suo momento migliore, quando è circondata da corteggiatori e ha diversi amanti, infine in quello peggiore, quando è malata e molti amici nemmeno vanno più a trovarla.

Don Candeloro e i C.i. fu pubblicata nel 1894 e mostra il mondo teatrale dell'epoca. Si comincia con le vicende di don Candeloro, un bravissimo burattinaio la cui arte va in malora a causa dell'avvento di un nuovo modo di fare teatro, meno artistico e più spregiudicato. Le vicende successive mostrano altri spaccati del mondo teatrale, fatto di falsità, privo di sentimenti genuini, dove l'arte e l'amore per essa passano in secondo piano.

Come detto all'inizio, vi sono anche delle novelle di Verga non contenute in nessuna delle raccolte sopra citate. Si tratta però di componimenti meno importanti.
Io ho letto uno dei tanti libri che le raccolgono tutte, entusiasmato dalla lettura di Mastro-don Gesualdo, che ho adorato. Oltre all'entusiasmo, leggendo le novelle ho voluto perdonarmi un atteggiamento troppo ostile tenuto negli anni nei confronti di Verga. Lessi da ragazzo I Malavoglia e lo odiai, interrompendolo a metà, ma oggi sono convinto che quel libro semplicemente mi capitò tra le mani nel momento sbagliato. Le novelle sono comunque una lettura che racchiude tutto ciò che è Verga, per questo sono bellissime e vale la pena leggerle. L'unico consiglio che mi sento di dare, però, è di non leggerle tutte insieme. Esse furono infatti scritte in momenti diversi, sono tante storie diverse, ma figlie dello stesso autore, dello stesso modo di pensare e di scrivere. Sebbene Verga sia un grandissimo scrittore, è facile intuire che a lungo andare le novelle possano risultare un po' ripetitive. Leggendole però a distanza di un po' di tempo, sono sicuro che questo spiacevole effetto venga annullato. 

Francesco Abate

sabato 9 dicembre 2017

VI RACCONTO LA MIA POESIA "CACOFONIA"

La mia vita è cacofonìa:
orchestre di strumenti scordati
e cori di cantanti stonati
rovinano lo spartito che ho dentro.
La vita non sempre va come noi vorremmo e spesso non riusciamo ad esprimere ciò che siamo davvero per colpa di circostanze avverse, o comunque di situazioni che si evolvono diversamente da come avremmo gradito.
Cacofonìa, l'ultima poesia che ho pubblicato su Spillwords, esprime questo, sottolineando la differenza tra la musica celestiale che sentiamo dentro (lo spartito) e quella che riusciamo a diffondere nell'aria (la nostra vita).
In fondo, siate sinceri, tante volte avete esclamato anche voi:
Il mondo gira sempre al contrario
e mai la natura mi è amica.

Per chi volesse leggere la poesia, è pubblicata al link: http://spillwords.com/cacofonia/.

Francesco Abate


COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il nono canto dell'Inferno inizia con Dante e Virgilio chiusi fuori la città di Dite, impossibilitati a riprendere il proprio cammino a causa del rifiuto dei demoni. Nei primi versi troviamo i due impalliditi, Virgilio a causa della delusione e Dante per la paura di essere abbandonato, la guida però riprende subito il suo colore naturale perché non ha il cuore colmo di viltà. Virgilio resta in guardia ("Attento si fermò com'uom ch'ascolta"), in attesa di un intervento divino, perché consapevole che quel viaggio non possa e non debba finire lì. Sta ad ascoltare perché con gli occhi può vedere poco a causa delle tenebre e della nebbia che regnano in quel luogo. Le parole della guida di Dante tradiscono un po' di indecisione, infatti dichiara che dovranno vincere quella disputa, ma subito dopo tronca la frase come chi non è sicuro di ciò che sta dicendo ("<< Pur a noi converrà vincer la punga >>, / cominciò el, << se non... Tal ne s'offerse"). Le parole di Virgilio si concludono con un'esclamazione che chiarisce le sue speranze, egli infatti si rammarica di quanto si faccia attendere l'intervento superiore, è quindi sicuro che ci sarà. Quella frase lasciata a metà però spaventa Dante, il quale chiede se mai sia sceso laggiù qualcuno dal limbo, quindi qualche anima che sia nella stessa condizione di Virgilio ("<< In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca? >>"). Dante in realtà vuole sapere se la sua guida ha mai compiuto prima quel viaggio nelle profondità dell'Inferno, per delicatezza però pone la domanda in modo generico. Virgilio spiega di aver già percorso questo cammino poco tempo dopo la sua morte ("Di poco era di me la carne nuda") per mezzo della maga Eritone, che lo usò per riportare in vita un morto la cui anima era caduta nella Giudecca, l'ultimo cerchio dell'Inferno. Spiega a Dante che la Giudecca è il luogo più basso dell'Inferno, quindi lo rassicura dicendogli che conosce il cammino che ora stanno compiendo. La vicenda della precedente discesa di Virgilio nell'Inferno è un'opera della fantasia di Dante, usata per giustificare la sicurezza della guida e dello stesso autore. Rassicurato il suo protetto però, Virgilio gli spiega che non c'è altro modo di entrare nella città di Dite, dovranno per forza vincere quella disputa coi demoni. 
Il discorso di Virgilio continua, ma Dante smette di ascoltarlo perché attratto dalla visione delle tre furie sulla torre. Queste Furie sono figure della mitologia greca già citate da Omero ed Euripide, i nomi che Dante attribuisce loro furono però assegnati loro da Virgilio nell'Eneide: Megera, Aletto e Tisifone. Secondo alcuni critici, in questa situazione esse rappresentano i tre mali puniti all'interno della città di Dite: matta bestialità, frode e tradimento. Le Furie ovviamente hanno un aspetto mostruoso, cinte di serpenti acquatici velenosi (idre) e con i capelli fatti sempre di serpenti. Ecco come le descrive Dante: "che membra feminine avieno e atto, / e con idre verdissime eran cinte; / serpentelli e ceraste avien per crine, / onde le fiere tempie erano avvinte". Virgilio indica quelle creature mostruose e ne cita i nomi, mentre esse invocano Medusa, l'orrenda Gorgone che in questa situazione probabilmente rappresenta il terrore che immobilizza Dante. Virgilio, temendo l'arrivo della Gorgone, fa voltare Dante e gli dice di non guardarla, infatti è noto che lo sguardo del mostro riduca il malcapitato in pietra. La situazione è disperata, i poeti non possono proseguire e sono minacciati da un terribile mostro che riduce in pietra chi lo guarda, a questo punto arriva l'aiuto divino in cui Virgilio ha confidato sin dall'inizio. Dante, non dimenticando lo scopo didattico dell'opera, chiede al lettore di comprendere "la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani". Dalle acque del fiume si alza un potentissimo vento che ne scuote le due rive, poi Dante vede una creatura celeste camminare sulle acque putride senza bagnarsi i piedi, mentre le anime immerse nella melma fuggono come rane alla vista della biscia (dannati, fuggono la grazia divina). La nuova apparizione percorre le acque, intenta solo a scostarsi l'oscura nebbia dal viso. Il messo celeste si avvicina alla porta di Dite e la apre semplicemente percuotendola con una piccola verga ("Venne a la porta e con una verghetta / l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno"). Aperta la porta con facilità, la creatura celeste si rivolge ai dannati, chiedendo loro perché mai si oppongano all'immutabile volontà divina e minacciandoli ricordando loro l'episodio in cui Cerbero si oppose alla discesa di Ercole, finendo incatenato e sconfitto. Spiegato con poche parole ai demoni che non è il caso che continuino la loro ribellione, il messo celeste torna indietro senza nemmeno rivolgere la parola a Dante e Virgilio.
Le porte di Dite sono aperte e l'intervento divino infonde coraggio ai due viaggiatori che, animati da una nuova sicurezza, entrano dentro la città ("e noi movemmo i piedi inver' la terra, / sicuri appresso le parole sante"). Dentro non trovano alcuna resistenza, segno che i demoni si sono arresi di fronte alla manifestazione della volontà e della potenza di Dio. Qui Dante assiste alla punizione che scontano gli eretici, essi giacciono in sepolcri infuocati. Nel descrivere quest'immensa necropoli piena di sepolcri, il poeta fa riferimento a due famosi cimiteri dei suoi tempi: Arles e Pola. Virgilio, nello spiegare a Dante chi siano i dannati, spiega che "Simile qui con simile è sepolto", cioè gli eretici sono raggruppati in base all'eresia che predicarono o seguirono in vita.

Francesco Abate  

domenica 3 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Dante inizia il verso dicendoci che "Io dico, seguitando..." e su questo "seguitando" i critici hanno fatto delle ipotesi interessanti. Ovviamente il canto VIII segue i sette precedenti, ma è la prima volta che il poeta introduce i suoi versi dicendoci che sta proseguendo ciò che ha già raccontando. Per i critici più antichi, tra cui Boccaccio, questo è il primo canto scritto dal poeta dopo l'esilio. Aveva già scritto i primi sette canti e, precisamente nel 1306, gli furono inviati da Firenze presso il suo nuovo soggiorno (era ospite dei Malaspina). Quindi questa brevissima introduzione sarebbe dovuta ad un'interruzione della stesura dell'opera: il poeta, dopo una lunga pausa, riprende a scrivere e prosegue dal punto in cui l'aveva lasciata. Non tutti i critici però concordano con questa ipotesi, molti ritengono che la Divina Commedia fu scritta in blocco, senza alcuna interruzione.
Dante vede delle fiamme usate per comunicare tra le due torri poste sulle due sponde dello Stige. Probabilmente stanno comunicando l'imminente arrivo delle due anime, ecco perché su una torre le fiamme accese sono due, e l'altra torre segnala di aver ricevuto il messaggio. Questa immagine richiama le segnalazioni tra torri all'epoca degli antichi romani: i demoni si scambiano informazioni così come i soldati facevano in epoche antiche nel mondo dei vivi. Il poeta si rivolge alla sua guida, "mar di tutto 'l senno", e gli chiede tre cose: che vogliono dire le due fiammelle accese per prime, cosa hanno risposto dall'altra torre e chi sono quelli che tramite esse comunicano. Virgilio non gli dice chi abbia comunicato, gli dice solo che può già vedere cosa sta accadendo, quindi cosa è stato sollecitato con quella comunicazione. La guida risponde quindi spronandolo a guardare da sé, la terza domanda invece la ignora completamente. Sulle acque putride dello Stige, Dante vede avanzare una barchetta. Per rendere l'idea della velocità con cui naviga l'imbarcazione, il poeta la paragona alla freccia lanciata dalla corda dell'arco: "Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l'aere snella, / com'io vidi una nave piccioletta / venir per l'acqua verso noi in quella". La barca è guidata da Flegias, il demone incaricato di condurre le anime nella città di Dite. Nella mitologia greca, uccise sua figlia Coronide e bruciò il tempio di Delfi per vendicarsi del dio Apollo che l'aveva violentata. Il ruolo di Flegias non è chiaro per i critici, che ancora oggi si chiedono se egli sia di fatto il traghettatore delle anime sullo Stige, o se la sua apparizione sulla barca sia un evento eccezionale dovuto all'arrivo di Dante e Virgilio. Stando ad altri versi dell'opera, risulta che le anime vengano scagliate direttamente nel cerchio loro destinato senza varcare il fiume fangoso, quindi non è detto che a Flegias spetti stabilmente il ruolo di traghettatore. Flegias giunge al cospetto dei due viaggiatori urlandogli contro quello che potrebbe essere un rimprovero o una minaccia: "Or se' giunta, anima fella!". Se intendiamo il termine "giunta" come "arrivata", può quasi sembrare un rimprovero, ma per alcuni critici potremmo anche tradurlo come "presa", trasformando la frase in una minaccia. Flegias si rivolge solo a Virgilio (lo deduciamo dall'appellativo "anima fella", cioè anima colpevole), a suo avviso colpevole di aver condotto fin lì un vivente. Virgilio come sempre non si perde d'animo e risponde a tono, prima dicendogli che grida a vuoto ("Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto"), poi che deve svolgere il suo compito e traghettarli sull'altra sponda dello Stige ("più non ci avrai che sol passando il loto"). A questo punto la furia di Flegias si trasforma in rammarico, prende atto di non potersi opporre in alcun modo ad una volontà superiore. Sulla barca sale prima Virgilio, poi Dante, ma solo quando sale il secondo la barca sembra appesantirsi. Questo ovviamente accade perché le anime, separate dal corpo, non hanno peso. 
Navigando sullo Stige, i due poeti si imbattono nella figura di Filippo Argenti. Di questo personaggio fiorentino non si hanno molte notizie. Appartenne alla famiglia degli Adimari e fu soprannominato "Argenti" perché fece ferrare d'argento il suo cavallo. Compare anche nel Decamerone di Boccaccio e nella Novella di Sacchetti, in entrambi è descritto come un personaggio prepotente e violento. Anche il figlio di Dante, Iacopo, lo descrisse come un uomo di cui non era ricordato un solo atto nobile. Non godeva quindi di grande stima tra gli intellettuali fiorentini dell'epoca, inoltre si pensa fosse fratello di Boccaccio Adimari, colui che si impadronì dei beni di Dante non appena quest'ultimo fu esiliato. Se Filippo Argenti non era amato in generale, è chiaro che Dante aveva qualche ragione più degli altri per avere di lui poca stima. L'incontro tra Dante e l'Argenti è quasi uno scontro. Dapprima il dannato sbuca dal fiume e, sporco di fango, chiede chi sia l'anima sulla barca e lo fa convinto che anch'essa sia destinata ad essere immersa lì con lui. Dante risponde subito con disprezzo, sottolineando che "S'i' vegno, non rimango", rinfacciandogli in pratica il fatto che lui è lì di passaggio, non destinato all'orribile pena cui è sottoposto l'interlocutore. L'Argenti non si sbilancia e non rivela la sua identità, si identifica semplicemente come uno dei tanti dannati ("Vedi che son un che piango"). Il poeta però l'ha riconosciuto e non mostra per lui alcuna pena: "E io a lui: << Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto >>". A questo punto si rivela l'indole violenta del dannato, che tende le mani nel tentativo di farlo cadere nello Stige, ma viene respinto da Virgilio che gli dice: "Via costà con li altri cani!". La guida poi si comporta con Dante come una madre nei confronti del figlio spaventato: lo abbraccia, gli bacia il volto, elogia il suo sdegno nei confronti del dannato con versi simili a quelli dedicati alla Madonna nel Vangelo di Luca ("Alma sdegnosa, / benedetta colei che 'n te s'incinse") e si lascia andare ad un'invettiva contro chi ha provato a fargli del male ("Quei fu al mondo persona orgogliosa; / bontà non è che sua memoria fregi: / così s'è l'ombra sua qui furiosa"). L'invettiva di Virgilio contro Filippo Argenti viene poi rivolta a tutti i nobili reggenti fiorentini, i quali pagheranno le loro malefatte annegando in quel fiume fangoso: "Quanti si tengon or là su gran regi / che qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi!". Finita l'invettiva di Virgilio, vediamo una versione meno compassionevole e molto più crudele di Dante che, come detto sopra, aveva validi motivi per portare rancore a Filippo Argenti. Il poeta dichiara che sarebbe felice di veder annegare il dannato nelle acque fangose e Virgilio lo rassicura dicendogli che potrà godersi lo spettacolo prima di giungere all'altra riva. Dante finalmente vede le altre anime immerse nello Stige avventarsi contro Filippo Argenti, dargli addosso come fosse un'aggressione programmata (con tanto di urlo "A Filippo Argenti!", un incitamento ad attaccarlo) e fare strazio di lui in modo tale "che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio". Tanta è la sofferenza patita dal dannato che contro sé stesso avventa i denti, si morde come se volesse punirsi per essersi condannato a quella pena. In questa immagine possiamo vedere ancora una volta le anime dannate ridotte come animali: in branco si avventano su uno e lo straziano, usando i denti e non le mani.
Lasciatisi dietro lo spettacolo degli iracondi che fanno scempio di Filippo Argenti, i viaggiatori sono scossi da un terribile urlo. Sono arrivati nei pressi della città di Dite, dichiara Virgilio. Dite è il nome latino di Plutone, dio dell'inferno pagano, che Dante identifica con Lucifero. Per capire come il poeta immaginava la città di Lucifero, ci bastano i versi 69-75. Dante ci dice che già vede le sue "meschite", cioè le sue moschee. Ha la tipica struttura della città medievale, con mura di cinta e torri. Dante però vede moschee, quindi le torri il poeta le immaginava come minareti. La città è simbolo della rivolta contro Dio, quindi l'autore vi inserisce delle immagini che richiamano una religione diversa da quella Cristiana. Dante inoltre le mura le vede rosse e Virgilio spiega che il fuoco eterno che brucia dentro la città le fa apparire così. Quindi sappiamo che questa città, cinta di mura e con torri simili ai minareti, al suo interno ospita le eterne fiamme infernali. Per spiegarci la presenza del fuoco nell'Inferno, immagine a noi familiare ancora oggi, dobbiamo ricordare che per san Tommaso il fuoco impedisce il libero moto dell'anima, precipitandola in un tormento senza speranza. I poeti si trovano con Flegias alle porte della città. A causa del fuoco, Dante nota che le mura sembrano di ferro, sono cioè di colore rosso. A questo punto scatta una rivolta dei demoni contro il viaggio del poeta. Flegias dà il segnale con un grido. Sopra le porte compaiono un numero indefinito ("più di mille") di demoni che iniziano ad urlare: "<< Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente? >>". Virgilio fa loro segno di volergli parlare da solo e loro, sfidando la volontà divina una seconda volta (perché furono angeli ribelli, compagni di Lucifero), gli comandano perentoriamente di venire da solo in qualità di prigioniero, colpevole di aver condotto un vivente fin lì, e di lasciare che Dante torni senza guida tra i vivi seguendo la strada percorsa, sicuri che non possa farcela ("<< Vien tu solo, e quei sen vada / che sì ardito intrò per questo regno. / Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, / che li ha' iscorta sì buia contrada >>"). Dante, sentite queste parole, è terrorizzato dall'idea di restare solo a vagare per i cerchi infernali e chiede alla sua guida di non abbandonarlo. Virgilio lo rassicura, gli ricorda che nessuno può fermare il loro cammino voluto da Dio, lo invita a non perdere la speranza e ad aspettarlo lì. Il poeta rimane in attesa mentre la sua guida va a parlare con i demoni. Il dialogo non dura molto, ma non porta i frutti sperati, infatti i demoni corrono dentro le mura e chiudono le porte, mostrandosi intenzionati ad impedire loro il cammino. Virgilio torna da Dante corrucciato, deluso ed arrabbiato per via della resistenza opposta dai demoni, ma rassicura il suo discepolo dicendogli che non è la prima volta che essi si dimostrano tanto temerari. Tentarono di opporsi anche alla discesa di Cristo nell'Inferno, quando trasse dal Limbo le anime pie (episodio citato nel canto IV dell'Inferno) per portarle con sé. I demoni cercarono di impedire l'ingresso di Cristo attraverso la porta dell'atrio infernale, la porta "la qual senza serrame ancor si trova" (non ha serrature, non può essere chiusa) e su cui Dante lesse "la scritta morta", ma fallirono. In pratica non è una novità la ribellione dei demoni alla volontà di Dio, alla fine però essi escono sconfitti, perciò Virgilio è sicuro che il cammino non sarà interrotto.

Francesco Abate  

sabato 25 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto VII dell'Inferno è uno dei più enigmatici dell'intera Divina Commedia. Il verso con cui si apre, il celebre "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" pronunciato da Pluto, appare criptico ed è stato interpretato nei modi più disparati. Già riguardo la lingua con cui si esprime il demone non c'è certezza, per alcuni la frase deriva dal latino, per altri dal greco, altri ancora leggono derivazioni da termini ebraici o arabi, c'è perfino chi pensa si tratti di un miscuglio di lingue diverse. Se le opinioni riguardo la lingua usata sono molteplici e discordanti, sul significato è anche peggio: per alcuni è un'invocazione a Satana, per altri una minaccia a Virgilio e Dante, per altri ancora un'espressione di stupore. Tanti critici autorevoli nel corso dei secoli hanno dato un'interpretazione originale a quest'espressione, riportare nel dettaglio tutte le teorie richiederebbe molto tempo e quindi non posso farlo qui. Per chi fosse interessato ad approfondire la questione, c'è un'ampia pagina ad essa dedicata sul sito della Treccani. Io in breve posso dirvi che le opinioni sono tante e tutte molto ben motivate, sia riguardo la lingua usata da Pluto sia sul significato delle parole, e di certo io non ho la preparazione culturale necessaria per stabilire quali siano più plausibili e quali meno. L'unica cosa che penso, e mi permetto di farla notare, è che a queste parole Virgilio risponde ricordando che il loro viaggio è voluto nei cieli, inoltre risponde anche con una certa veemenza, questo mi porta a pensare che quella di Pluto possa essere stata una minaccia fatta loro per impedirgli di proseguire oltre il loro cammino.
Le parole di Pluto sono enigmatiche, ma anche l'identità stessa del demone ha diviso i critici. Tutti siamo portati a pensare che Pluto sia Plutone, il dio degli inferi nella mitologia romana, ma pochi sanno che nella mitologia greca esisteva anche Pluto, dio della ricchezza. Essendo posto a guardia del cerchio in cui sono puniti avari e prodighi, cioè coloro che mal amministrarono le proprie ricchezze, sarebbe plausibile che il demone sia Pluto. Eppure se oggi lo conosciamo poco è perché già in epoca romana fu oscurato dal suo più celebre semi-omonimo (Plutone) e molti ritengono che Dante stesso non conoscesse la sua esistenza, optando quindi per l'idea che il demone che qui appare è Plutone. In fondo, essendo relegato negli inferi, anche al dio Plutone nella mitologia fu associata la ricchezza, infatti regnava nel sottosuolo e i metalli pregiati derivano da miniere poste sotto terra. Anche in questo caso, entrambe le teorie sono corrette. C'è inoltre da considerare che, in quanto divinità regnante sugli inferi, la figura di Plutone avrebbe avuto più senso identificarla con Lucifero, da Dante però il signore dell'Inferno è sempre chiamato Dite. Anche in questo caso le teorie sono diverse e tutte potenzialmente valide.
Il canto si apre quindi coi due poeti al quarto cerchio, alla cui guardia c'è Pluto. Alle parole del guardiano di cui ho detto sopra, Virgilio risponde bruscamente: gli intima di tacere e gli spiega che il viaggio è voluto nell'alto dei cieli ("Non è senza cagion l'andare al cupo: / vuolsi ne l'alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo"). La risposta di Virgilio è dura sia nei toni, inizia infatti con l'imperativo "taci", sia nei modi, infatti nel citare il Paradiso ricorda al demone la vittoria dell'arcangelo Michele su Lucifero. In pratica Virgilio lo zittisce e gli fa capire che deve farsi da parte per volere di chi sconfisse lui e il suo signore. La guida di Dante poi si rivolge al guardiano chiamandolo "maledetto lupo", egli infatti è a guardia del cerchio dove è punita l'avidità, già in precedenza identificata con la lupa. Pluto è sconfitto dal discorso di Virgilio e cade a terra come le vele di una nave quando l'albero maestro si spezza.
Superata l'opposizione di Pluto, Dante vede i dannati costretti nel quarto cerchio e si abbandona ad un'amara riflessione: "Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa / nove travaglie e pene quant'io viddi? / e perché nosta colpa sì ne scipa?". Dante è sgomento di fronte alla giustizia divina che mette insieme pene e travagli, poi si chiede come possa l'essere umano cedere alle tentazioni che lo portano ad una condizione tanto miserabile. Agli occhi di Dante ci sono gli avari e i prodighi, cioè sono puniti insieme coloro che tennero per sé le ricchezze e coloro che le sperperarono. Ai dannati in questo cerchio tocca trascinare dei massi: come in vita si affaticarono a raccogliere oro, per l'eternità si affaticheranno a trascinare i massi. I dannati tanto sono numerosi che si scontrano più volte nel corso del loro tragitto lungo il cerchio, quando c'è l'urto succede che l'avaro chieda al prodigo perché abbia sprecato le ricchezze ("Perché burli?") e di rimando si senta chiedere perché le abbia tenute solo per sé ("Perché tieni?"). Vista la loro condizione, Dante chiede al suo maestro quale pena essi stiano scontando e se quelli che vede rasati siano tutti uomini di chiesa. Virgilio, per spiegargli che sono avari e prodighi, dice che essi furono ciechi che in vita non videro mai il giusto modo di spendere. Quando fa riferimento alle domande che si scambiano tra loro, la guida definisce le loro voci un abbaiare, continuando l'identificazione tra avidità e lupo, infine spiega a Dante che tra questi dannati vi sono chierici, cardinali e perfino papi. Dante a questo punto ritiene di poter riconoscere qualcuno tra queste anime, ma Virgilio gli spiega che non è possibile perché il loro peccato li fa bruni, cioè li rende irriconoscibili. 
Il discorso con cui Virgilio spiega a Dante che non può riconoscere alcun dannato in questo cerchio si conclude con un insegnamento, gli spiega che tutti i beni dovuti alla fortuna che ci sono sulla Terra non potrebbero dare un po' di risposo nemmeno ad una di queste anime stanche. Dante si aggancia a questo discorso per chiedere cosa sia questa fortuna che ha tutti i beni del mondo tra gli artigli ("tra le branche"). Virgilio spiega quindi cosa sia la fortuna: Dio creò i cieli e i Motori (le Intelligenze) che li muovono e riflettono in ogni parte di essi la luce divina, ordinò poi un'Intelligenza a cui spetta il compito di permutare i beni terreni da una persona all'altra secondo logiche poste al di sopra delle leggi e delle ragioni umane. La guida spiega poi che spesso gli umani maledicono la fortuna, ma ella non se ne cura. 
Finito di spiegare la fortuna a Dante, Virgilio lo accompagna nel quinto cerchio. Per arrivarci i poeti passano sopra una sorgente che riversa le sue acque in un fossato. Sono arrivati nella palude del fiume Stige, il secondo fiume infernale. Questo corso d'acqua forma un pantano fangoso in cui sono immerse anime nude dal volto che tradisce rabbia ("con sembiante offeso"). Sono al cospetto degli iracondi, coloro che in vita si lasciarono vincere dall'ira. La loro punizione consiste nel azzuffarsi come bestie nello Stige, non possono infatti usare le mani, quindi si colpiscono tra loro con la testa, col petto, coi piedi e addirittura azzannandosi. Virgilio spiega a Dante quale colpa stiano espiando i dannati immersi nel fiume, gli dice poi che ce ne sono altri completamente immersi, la cui presenza è rivelata solo dalla presenza delle bolle sulla superficie. I dannati immersi completamente, spiega la guida, sono coloro che furono iracondi repressi, cioè covarono dentro la rabbia e i desideri di vendetta senza mai passare all'azione. Virgilio attribuisce a queste anime le seguenti parole: "Tristi fummo / ... / portando dentro accidioso fummo". Per capire questo passaggio è necessario ricordare che san Tommaso, nel Commento all'Etica, divise gli iracondi in: acuti, che sono coloro che manifestano subito l'ira; amari, che nascondono la rabbia dentro; difficili, che coltivano pensieri di vendetta senza mai metterli in pratica. Alle ultime due categorie, gli amari e i difficili, san Tommaso accostò il carattere della tristezza, ecco perché Dante fa dire agli iracondi, che si tennero dentro l'accidioso fummo (si ricordi che l'accidia è la mancanza di azione), "Tristi fummo". L'immagine che Virgilio regala a Dante è realisticamente cruda, egli infatti riporta le parole dei dannati immersi nello Stige, ma poi dice che queste parole "si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra ", cioè gli sono rotte dall'acqua dello Stige che gli entra in gola.
Il canto si chiude coi due poeti che percorrono il cerchio guardando le acque del fiume, finché non giungono ai piedi di una torre.

Francesco Abate

mercoledì 22 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Al risveglio dallo svenimento causatogli dalla triste condizione di Paolo e Francesca, Dante si rende conto di essere circondato da "novi tormenti e novi tormentati" e non vede altro ovunque si volti. Il poeta si trova nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. I dannati destinati al terzo cerchio, avendo dedicato la loro vita al buon bere ed al buon mangiare senza misura, sono tormentati da una eterna pioggia lurida e sono essi stessi pasto della bestia Cerbero. Loro che amarono i buoni sapori, sono immersi in una pozza nauseabonda e puzzolente, inoltre amarono mangiare e per questo sono mangiati. Cerbero è una creatura che la mitologia greca e romana ponevano a guardia della porta infernale, è citato anche nel mito di Orfeo (che lo addormenta col suono della sua lira) e in quello di Ercole (che lo uccide). Anche Virgilio lo inserì nell'Eneide, allorquando Enea scende negli Inferi e viene aiutato a superare la bestia dall'intervento della Sibilla. Dante ci descrive il terribile Cerbero come una bestia dalle tre teste, "Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani", che scuoia e squarta i poveri dannati che gli capitano a tiro. Il poeta ci descrive il dramma dei golosi: urlano come cani, perdendo completamente la loro umanità; cercano di farsi scudo con altre anime, per evitare la pioggia lurida e i colpi di Cerbero; si voltano ora da un lato ora dall'altro in cerca di un momentaneo conforto che non arriverà mai. 
Non appena Cerbero nota la presenza di Dante e Virgilio, inizia a ringhiare e ad agitarsi: "le bocche aperse e mostrocci le sanne; / non avea membro che tenesse fermo". Virgilio prende della terra sudicia dal suolo e la getta tra le sue fauci, la bestia con immensa avidità si preoccupa solo di divorare il suo pasto e Dante ci rende questa scena con un paragone: "Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, / e si raqqueta poi che 'l pasto morde, / ché solo a divorarlo intende e pugna, / cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona / l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde".
Dante e Virgilio camminano passando sopra le anime abbattute dalla pioggia lurida. D'improvviso una di loro chiede al poeta di riconoscerlo. L'anima in questione è quella di Ciacco, un concittadino del poeta, il quale crede di poter essere riconosciuto perché morì che Dante era già adulto, infatti gli dice: "riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto". Dante però non lo riconosce, si scusa con lui attribuendo questa sua incapacità al fatto che i lineamenti del suo viso sono alterati dalla sofferenza, e gli chiede di dirgli chi sia e perché sconti quella condanna. Ciacco si presenta subito con un'invettiva contro Firenze ("La tua città, ch'è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco"), poi indica il suo soprannome e spiega che gli fu affibbiato proprio per la golosità che l'ha condannato all'eternità. L'identità effettiva di Ciacco non è nota, nell'opera compare solo col soprannome che come sostantivo nella Firenze antica voleva dire "porco", anche se nel canto Dante non lo usa mai in senso dispregiativo e per questo molti critici lo intendono come nome proprio effettivo. Dante, saputo che Ciacco è un suo concittadino, gli chiede informazioni riguardo il futuro di Firenze. In questo canto abbiamo quindi le prime predizioni del futuro (ricordiamo che Dante ambienta la Divina Commedia in un periodo antecedente l'anno in cui la scrisse, quindi le predizioni narrano fatti che già erano storia) e arrivano per bocca di Ciacco. Le lunghe tensioni tra guelfi Bianchi e Neri scaturiranno in un fatto di sangue (presumibilmente uno scontro tra le due fazioni in piazza S.Trinità la sera del calendimaggio del 1300), la parte Bianca ("la parte selvaggia", perché capitanata dalla famiglia dei Cerchi, che provenivano dal contado) vincerà e nel giugno del 1301 i Neri verranno privati degli uffici civili ed espulsi dalla città, subendo anche delle ammende pecuniarie. I Neri però tireranno dalla loro parte Bonifacio VIII, già interessato alla conquista di Firenze, e il suo intervento li porterà di nuovo al governo della città, con la conseguente cacciata dei Bianchi. Ciacco poi allude al lungo periodo in cui governeranno i Neri e all'esilio che toccherà ai Bianchi: "Alte terrà lungo tempo le fronti, / tenendo l'altra sotto gravi pesi, / come che di ciò pianga o che n'aonti". Il suo discorso Ciacco lo conclude con un'amara sentenza, dice che "Giusti son due" e che i cuori sono accesi da superbia, invidia e avarizia. Sull'espressione "Giusti son due" ci sono due diverse interpretazioni: per alcuni indica che la giustizia è nel diritto naturale e in quello legale, in contrapposizione ai mali che invece governano la disputa, altri invece ritengono sia semplicemente un modo per far capire che di persone davvero giuste ce ne fossero pochissime. Sentita la predizione, Dante gli chiede notizia di alcuni personaggi politici noti, Ciacco gli spiega che sono più giù nell'Inferno perché colpevoli di peccati più gravi. Il dialogo si conclude con una preghiera, Ciacco infatti prega Dante di fare in modo che i fiorentini lo ricordino, infine gli dice di non chiedere più nulla perché più a niente risponderà.
Finito il dialogo, Virgilio spiega a Dante che le anime resteranno lì finché non vi sarà la venuta di Cristo, dopo la quale riprenderanno il loro corpo e la figura mortale e con essi ascolteranno il Giudizio Universale ("quel ch'in etterno rimbomba"). Dante a questo punto chiede se i loro tormenti, dopo il giudizio ultimo, cresceranno o diminuiranno. Virgilio richiama alla mente di Dante la filosofia aristotelica ("Ritorna a tua scienza") secondo cui più una cosa è perfetta, più sente il bene e il male. L'unità corpo e anima porta perfezione, quindi una volta che si saranno congiunti al loro corpo, i dannati patiranno ancor di più ciò che già stanno patendo. Finito questo discorso, i poeti scendono al quarto cerchio.

Per concludere il commento, voglio rapidamente spiegare come possano le anime provare dolore, pur non abitando più un corpo. La questione verrà trattata da Dante stesso nel canto XXV del Purgatorio, ma essendo che qui già vediamo anime soffrire per la pioggia e le zampate di Cerbero, è giusto fare chiarezza. Per Dante, quando una persona muore, la potenza sensitiva dell'anima rientra nella virtù informativa, in quella vita che aveva potenzialmente nel seme dell'uomo. La virtù informativa forma quindi una sorta di immagine visibile dell'anima capace di provare le stesse sensazioni che il corpo provava in vita. Se ci pensate, questa teoria permetterebbe anche di spiegare l'esistenza dei fantasmi, ma questo non c'entra niente con la Divina Commedia.

Francesco Abate         

domenica 19 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO V DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Nei primi versi del canto V, in cui Dante scende dal primo al secondo cerchio, ci viene spiegata una caratteristica importante dell'Inferno. Il regno di Lucifero è a forma di imbuto, cioè si stringe man mano che si procede verso il basso, ed è diviso in cerchi. Il secondo cerchio è quindi meno ampio del primo, ma la pena che lo abita è maggiore. I dannati sono indirizzati al cerchio dove è punito il peccato che li ha allontanati dalla grazia di Dio, più in basso nell'Inferno sono destinati e più è grave la colpa che li ha perduti, quindi più è terribile la pena che patiranno per l'eternità. A destinare le anime al cerchio corrispondente la loro pena c'è Minosse, che "essamina le colpe ne l'intrata" e attorciglia la coda intorno al proprio corpo. Il numero di cerchi formati dalla coda del giudice infernale corrisponde al numero del cerchio a cui è destinata l'anima dannata. Dante lo vede e lo spiega chiaramente: "Dico che quando l'anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de la peccata / vede qual loco d'inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa". Notata la presenza di un uomo ancora in vita, Minosse si rivolge minaccioso a Dante, dapprima cerca di minare la sua fiducia nei confronti di Virgilio ("guarda com'entri e di cui tu ti fide"), poi lo invita a non farsi incoraggiare dall'ampiezza dell'ingresso che conduce all'Inferno. L'ingresso dell'Inferno è infatti comodo, ma conduce all'eterna perdizione, ad una condizione che l'essere umano dovrebbe fuggire ad ogni costo. Virgilio non si lascia intimorire e risponde perentoriamente a Minosse, sfidandone apertamente l'autorità prima chiedendogli perché gridi, poi spiegandogli che "vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole", cioè che Dante è lì per volontà dell'onnipotente, infine gli ordina di non fare più domande. Il giudice infernale, colui che decide la sorte delle anime senza alcuna possibilità d'appello, viene zittito in modo perentorio. 
Superata l'opposizione di Minosse, Dante si trova in un luogo dove le anime sono in balìa di un violento uragano e volano trasportate dal vento. Ad essere puniti in tal modo sono i lussuriosi, in questo canto vediamo un contrappasso per analogia: così come in vita si abbandonarono al vento della passione, per l'eternità sono travolti dal vento infernale. Per descrivere la situazione dei lussuriosi e il gran numero di anime perse nel vento, Dante li paragona agli storni che volano in numerosi branchi nel vento invernale: "E come li stornei ne portan l'ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là, di giù, di sù li mena". Anche per descrivere i lamenti del gruppo di lussuriosi che gli si avvicinano, Dante si affida ad un paragone ornitologico, i loro lamenti infatti assomigliano al canto delle gru in volo. Dante chiede alla sua guida chi siano le anime che si sono approssimate, Virgilio gliele indica. La prima anima è Semiramide, regina degli Assiri, che per giustificare agli occhi dei sudditi la sua vita licenziosa promulgò una legge che permetteva ai sudditi di comportarsi allo stesso modo ("A vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito fé licito in sua legge"). La seconda anima è quella di Didone, mitica regina di Cartagine, che in vita aveva promesso di restare vedova fedele al marito Sicheo, promessa che ruppe quando si innamorò e si concesse ad Enea. La terza è Cleopatra, regina d'Egitto che sedusse Cesare e Marco Aurelio. Ci sono poi Elena di Troia, Achille, Paride e Tristano. Le anime elencate da Virgilio non sono accomunate solo dal peccato di lussuria, si tratta infatti di personaggi che per amore sono morti in modo violento, per mano propria o altrui.
Finito l'elenco di Virgilio, Dante nota due anime "che 'nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggieri" e chiede al suo maestro di poter parlare con loro. Virgilio gli dice che potrà farlo non appena saranno vicine. Le due anime in questione sono quelle di Francesca e Paolo. La prima a parlare è la donna, che rivolgendosi al poeta mostra subito una grande dolcezza e sensibilità, dicendogli che pregherebbe per lui che di loro mostra pietà, se solo Dio fosse "amico". Essendo dannati, essi non possono pregare, quindi le parole di Francesca mostrano tanto l'apprezzamento per la pietà di Dante quanto l'angoscia di non essere nelle grazie di Dio. Dopo aver spiegato le sue origini, in modo da sottolineare il rimpianto per non godere più della vista di quei luoghi, la donna si abbandona ad un discorso dolcissimo, sottolineato dai versi di Dante che qui, a mio parere, vanno per forza riportati interamente:
"Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense."
Nei versi di Francesca da Rimini notiamo che non c'è rancore nei confronti di Paolo, il suo amante, colui che ha fatto nascere in lei la passione che l'ha perduta. Francesca parla dell'amore come fosse un'entità animata, che compie delle azioni e ha una volontà. L'amore, che si sviluppa nel cuore gentile (è quindi una qualità positiva, nonostante li abbia perduti), si impossessò di Paolo che fu ucciso. Francesca si innamorò a sua volta di Paolo, perché l'Amore non consente a chi è amato di non amare, e sottolinea come sia tutt'ora innamorata di lui. Essi sono quindi vittime dell'Amore, non colpevoli, e la morte non ha spento il loro sentimento. Il discorso si conclude con una sentenza: Gianciotto, marito di Francesca, colui che uccise lei e il suo amante, è atteso laddove si punisce chi ha versato il sangue dei congiunti. Le ultime parole possono sembrare un'invettiva, ma allo stesso tempo potrebbero essere una semplice constatazione. A mio parere sono valide entrambe le tesi, infatti la dolcezza del personaggio stona con l'auspicio di un'eterna pena per il suo assassino, allo stesso tempo però all'Inferno i dannati (lo vedremo anche in seguito) spesso si consolano sperando che tocchi qualcosa di peggio ad un loro nemico. 
Sentito il discorso della donna, Dante rimane pensieroso. Il poeta si chiede infatti come si sia scatenato l'amore tanto forte da perdere per sempre due anime tanto dolci. Francesca, dopo aver detto che non c'è niente di peggio che ricordare i tempi felici nel momento di miseria, racconta la sua storia. Stavano leggendo un libro che narrava della passione di Lancillotto per la regina Ginevra, erano soli ma nelle loro intenzioni non c'era nulla di malvagio, semplicemente leggevano insieme. Quando arrivarono al punto in cui Lancillotto bacia Ginevra, Paolo fu vinto dal trasporto amoroso e le baciò la bocca. Anche la narrazione della vicenda fornisce molti spunti. Come si vede, anche il libro che Paolo e Francesca stavano leggendo, e che favorì il loro sentimento, narrava della lussuria (Lancillotto amava Ginevra, moglie di re Artù) e la faceva trionfare. Secondo i critici, si fa riferimento ad un testo molto diffuso all'epoca di Dante e proibito con una Bolla di Innocenzo III. In questo caso vediamo quindi la cattiva cultura come veicolo che porta alla perdizione, e Francesca stessa esclama "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse". Il canto si conclude con la descrizione di ciò che il poeta vede. Mentre Francesca parla, Paolo piange e tace. Tanto è triste la scena che Dante sviene.

Francesco Abate

sabato 11 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO IV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto inizia con Dante che viene risvegliato dal sonno. Così come i suoi sensi erano stati spenti da un prodigio alla fine del canto III, un nuovo miracolo, per l'esattezza un tuono, lo riporta in sé. Il poeta si guarda intorno e si rende conto di aver passato l'Acheronte e di trovarsi sulla riva "de la valle d'abisso dolorosa / che 'ntrono accoglie d'infiniti guai". Tanto è fitta l'oscurità in cui si trova immerso il poeta da impedirgli di distinguere alcuna cosa. Ovviamente l'oscurità di cui ci parla Dante è la mancanza della luce divina che penetra tutto l'universo, non c'è grazia di Dio nel luogo dove lui si trova adesso. La mancanza di luce causa smarrimento, ecco intervenire  il sapiente Virgilio, che invita Dante a seguirlo, assumendo nuovamente il ruolo di guida spirituale con le parole "Io sarò primo, e tu sarai secondo". Virgilio però è pallido, Dante pensa che ciò sia dovuto alla paura del viaggio imminente, dubita quindi nella validità di quella guida e manifesta la sua perplessità "dissi: << Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>". Virgilio a questo punto lo rassicura, spiegandogli che il suo pallore non nasce dalla paura, bensì dalla pietà per le anime che patiscono le loro pene nell'Inferno, e lo esorta a non perdere più tempo. 
Dante, seguendo il suo maestro, si ritrova nel primo cerchio dell'Inferno. Qui si trova nel Limbo, il luogo dove sono puniti coloro che non conobbero la Parola di Dio perché nati prima dell'avvento del Cristianesimo, coloro che non credettero nell'avvento futuro di Cristo, e i bambini non battezzati. Essendo queste anime non colpevoli di uno specifico peccato, pagano semplicemente la mancanza di fede, non subiscono una pena fisica, semplicemente vivono in eterno nella consapevolezza di non giungere mai alla beatitudine. Non essendo tormentati e straziati come le altre anime dell'Inferno, i dannati qui non piangono, semplicemente sospirano: "Quivi, secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di sospiri / che l'aura etterna facevan tremare;". Virgilio spiega a Dante quali anime abitano il primo cerchio, facendogli capire con l'espressione "semo perduti" che anche lui paga lì la sua pena. La consapevolezza che il suo maestro sia un'anima perduta nelle tenebre mette tristezza a l poeta, che nei suoi versi constata come "gente di molto valore / conobbi che 'n quel limbo eran sospesi". Quest'ultima considerazione apre un confronto tra la ragione e la giustizia divina. Il poeta trova tra i dannati dei personaggi che egli considera valorosi, quindi Dio ha punito persone che per il metro di giudizio umano sarebbero da premiare. Vediamo quindi l'incapacità della ragione di comprendere appieno la giustizia divina, nei versi il poeta sembra quasi non capacitarsi che personaggi come Virgilio possano essere puniti, eppure è così. Il Limbo inteso come luogo di pena eterna per le anime che non hanno vissuto nella fede in Cristo apre la strada ad una questione spinosa. I patriarchi dell'Ebraismo, come ad esempio re David, nacquero prima dell'avvento del Figlio di Dio, furono quindi destinati al Limbo? Essi sono anche patriarchi del Cristianesimo. L'ambiguità viene subito risolta da Dante che chiede al maestro se mai alcun'anima sia uscita dal Limbo. Virgilio gli spiega che, poco tempo dopo la sua discesa nel primo cerchio, vide "venire un possente, / con segno di vittoria coronato.", si trattava di Gesù Cristo, che portò via dall'Inferno l'anima di Adamo, quella di Abele, quella di Noè, quella di Mosè, quella di Abramo, quella di re David e in generale quelle di tutti i patriarchi di Israele. Essi infatti non avevano assistito alla venuta di Cristo, però ci avevano creduto e l'avevano desiderato per millenni nel Limbo, quindi erano ormai meritevoli della beatitudine. Virgilio spiega poi che nessuno prima di loro fu mai salvato. 
I due poeti non hanno percorso ancora molta strada tra le anime del Limbo, quando Dante vede un fuoco che parzialmente vince le tenebre del luogo. Si tratta di un castello in cui vivono le anime che, pur non credendo in Cristo, si distinsero in vita nelle arti. La loro grandezza ha disposto Dio a loro favore, così che gli è stata assegnata una posizione favorevole nel Limbo stesso ("L'onorata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazia acquista in ciel che sì li avanza". Queste anime accolgono tra gli elogi Virgilio. Dante vede queste anime dalla sembianza "né trista né lieta", infatti esse non patiscono alcuna pena e allo stesso tempo non hanno speranza di vivere la grazia eterna. Virgilio indica al suo protetto queste quattro anime: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Il discorso di Virgilio col quale indica i quattro grandi della poesia si conclude con un verso che, a una lettura superficiale, può farci vedere della presunzione. "fannomi onore, e di ciò fanno bene" dice infatti la guida. Nonostante Dante ammiri Virgilio al punto di eleggerlo come rappresentante della ragione, riesce difficile pensare che gli attribuisca una tale presunzione nella sua opera. Ritengo molto più plausibile che Dante, per bocca del suo maestro, voglia indicare come giusto il rendere onore all'arte, di cui in quel frangente Virgilio è un rappresentante. La frase assume quindi un significato più profondo e indica forse anche una speranza, Dante è infatti un poeta e si augura di ricevere gli onori dovuti alla sua arte nella propria patria. Nei versi che seguono infatti le grandi anime della poesia, dopo aver parlato un po', lo invitano tra loro "sì ch'io fui sesto tra cotanto senno". I sei poeti camminano fino al castello parlando di argomenti non attinenti ai temi del poema ("cose che 'l tacere è bello"). Per i critici il castello rappresenta la filosofia. Questo, ci dice Dante, è circondato da sette fila di mura e da un piccolo fiume. Per entrarvi il poeta deve passare sette porte. Sul significato di queste mura e queste porte i critici non sono concordi. Per alcuni le sette mura rappresentano le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica), mentre le sette porte indicano le sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria, astronomia); altri vedono nelle sette mura le quattro virtù morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e le tre intellettuali (intelligenza, scienza, sapienza). Anche sulla simbologia riguardante il fiume ci sono diverse interpretazioni, Boccaccio per esempio vi vide il simbolo delle ricchezze e delle gioie materiali, che a vedersi sono invitanti ma possono portare alla perdizione. Una volta dentro al castello, Dante vede queste anime sagge il cui aspetto rappresenta l'idea stessa del sapiente ("Genti v'eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne' lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi"). A questo punto il poeta ci elenca le anime che riconosce nel castello, indicando numerosi personaggi celebri nella storia e nella leggenda di Roma (a partire dai troiani), filosofi e scienziati greci, e tre importanti personaggi mussulmani (Saladino, Avicenna e Averroè). Può incuriosire in un'opera permeata di teologia cristiana la presenza di personaggi mussulmani, ma non dobbiamo dimenticare che nel castello del Limbo vi sono grandi uomini di cultura che non conobbero la fede in Cristo. Saladino quindi è inserito tra i grandi perché fu liberale nei confronti dei cristiani, Avicenna e Averroè furono invece due grandi filosofi molto noti nel Medioevo. Alla fine del canto, terminato l'elenco, Dante ci dice di non poter citare tutte le anime perché son troppe, il gruppo di sapienti si scioglie e lui resta di nuovo solo con Virgilio ("La sesta compagnia in due si scema"). Insieme escono dal castello e tornano tra le tenebre, riprendendo il cammino nell'Inferno.

Francesco Abate   

"NEDDA" DI GIOVANNI VERGA

Nedda è una novella di Giovanni Verga pubblicata il 15 giugno 1874 sulla << Rivista letteraria di scienze, lettere e arti >>. Siamo negli anni in cui lo scrittore cominciò ad avere successo, il suo pubblico era perlopiù composto da ricchi borghesi e le sue storie erano ancora ben lontane dal Verismo. Nonostante queste premesse, però, in Nedda troviamo diverse caratteristiche che ritroveremo nelle opere future dello scrittore, già in questa novella Verga imboccò la strada che lo avrebbe portato a Vita nei campi, Novelle rusticane ed al ciclo I vinti.

La novella narra di Nedda, una povera contadina stagionale addetta alla raccolta delle olive. Già all'inizio della vicenda la troviamo indebitata e con la madre malata da mantenere. L'anziana madre muore, lei sembra sprofondare definitivamente nelle tenebre dell'infelicità, finché non arriva l'amore di Janu a tirarla su. Nel momento in cui la vicenda sembra prendere una piega felice, Janu si ammala e in poco tempo muore. La novella si conclude con la morte anche della piccola figlia di Nedda, uccisa dalla fame e dagli stenti.
Come detto sopra, all'epoca della stesura di questa novella Verga era uno scrittore popolare tra la classe dei ricchi borghesi. La letteratura che si offriva a questo pubblico all'epoca era finalizzata a colpire, la povera Nedda nacque per commuovere il pubblico e per farlo partecipare alle sue disgrazie. Non c'è ancora l'impersonalità tipica del Verismo, ma nella novella troviamo già la descrizione della miseria e l'impossibilità di liberarsi di essa che sarà tipica di tutta la produzione successiva dell'autore.
La povera Nedda non riesce ad emergere in alcun modo dalla sua miseria. All'inizio della vicenda è disperata per le condizioni della madre, povera e indebitata; alla fine la troviamo disperata e povera. Nonostante in mezzo trovi l'amore, un nuovo lavoro e una figlia, la sua condizione economica e quella morale non progrediscono. Nemmeno fa in tempo a sfiorare la felicità, ad assaggiarla, che una disgrazia la ripiomba nella cupa disperazione da cui partiva. La sua vita è talmente misera e dolorosa che finisce per ringraziare la Madonna quando le muore la figlia: nella morte non vede la fine di un dono, bensì la liberazione da un supplizio. Proprio quest'ultimo tema, quello della morte come liberazione dalle sofferenze, si ritrova spesso nelle novelle incluse nella raccolta Vita nei campi.

Verga da molti è considerato deprimente, io invece ritengo la sua produzione fondamentale. Oggi lodiamo quegli autori che usano la loro arte per evidenziare le disgrazie di coloro che soffrono, cercando di alimentare un dibattito su quanto sia ingiusto che la vita per alcuni sia così misera. Oggi si fa per i migranti, per i tossicodipendenti e altre categorie definite "svantaggiate". Le categorie svantaggiate di una volta erano i contadini, i poveri, e nel Mezzogiorno le condizioni peggioravano ancor di più rispetto al nord Italia. Verga con le sue opere non voleva deprimere il lettore, voleva a mio parere metterlo davanti ad una realtà triste e dura che molti ignoravano. Tutti parliamo sempre di miseria, ma pochi la conoscono davvero, e all'epoca non credo che ci fosse molta differenza. A Verga credo vada riconosciuto il merito di aver voluto con i suoi scritti mettere davanti agli occhi di tutti delle condizioni di miseria che molti nemmeno immaginavano esistessero. "Miseria" per molti era solo una parola, lui volle far capire cosa essa significasse davvero. Già in Nedda vediamo questo, infatti la povera contadina patisce una serie di disgrazie che nella Sicilia dell'epoca erano piuttosto comuni, quindi la sua deprimente storia probabilmente sarà stata vissuta da tante persone. 

Francesco Abate

domenica 5 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

"PER ME SI VA NELLA CITTA' DOLENTE, 
PER ME SI VA NELL'ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E 'L PRIMO AMORE.
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE".
Con queste parole si apre il canto III dell'Inferno. Dante le legge sulla sommità della porta dell'Inferno e non sono altro che una breve ma efficace descrizione di cosa sia il regno di Lucifero. La scritta sottolinea la natura delle anime che varcano quella soglia (la "perduta gente") e l'eternità della pena che spetta loro. Essa rivela però molto di più, spiegando che l'eterna punizione non è un atto di vendetta, bensì di giustizia. Proprio la giustizia spinse Dio a creare l'Inferno, il luogo dove le anime perdute subiscono supplizi per l'eternità. Nulla è antecedente alla creazione dell'Inferno, se non le cose eterne, quindi tutto ciò che riguarda il mondo sensibile è stato creato dopo. La scritta si conclude con un terribile monito, chiunque entra all'Inferno infatti non può sperare in nulla perché la pena è eterna.
Dante non comprende il significato delle terribili parole che legge, esse infatti rivelano una verità ultraterrena che difficilmente può essere compresa dalla mente imperfetta di un essere umano. Virgilio gli spiega che dovrà abbandonare timori e viltà, dovrà affidarsi a conoscenza e fede senza titubare per non perdersi nel complesso viaggio che sta intraprendendo. Gli spiega poi che vedrà coloro "c'hanno perduto il ben de l'intelletto", cioè le anime che mai potranno vedere la verità ultima, che è Dio. Virgilio poi prende una mano a Dante, confermandosi nel ruolo di guida sicura e amorevole allo stesso tempo, così entrano nel luogo che la ragione senza la rivelazione non può conoscere.
Subito Dante si trova immerso in un'atmosfera terribile, in una tenebra priva di stelle e qualsiasi altra fonte di luce. La tenebra di cui parla il poeta si giustifica facilmente col fatto che egli è penetrato nelle viscere della Terra, ma allo stesso tempo simboleggia il tormento morale che attanaglia l'anima lontana dalla luce di Dio. Si trova di colpo immerso nel dolore eterno promesso dalla porta, dove riecheggiano "sospiri, pianti e altri guai".
Nel dialogo che segue tra Dante e Virgilio, scopriamo che essi sono al cospetto della prima schiera di peccatori: gli ignavi. Si tratta di coloro che in vita mai presero una posizione, non furono né buoni né cattivi, non si schierarono né dalla parte del bene né da quella del male. Il loro peccato è tanto odioso da collocarli lontano dal Paradiso e allo stesso tempo fuori dall'Inferno, essi hanno dignità inferiore a quella di qualsiasi altro dannato. Virgilio spiega che con loro sono collocati quegli angeli che non si schierarono né con Lucifero né contro di lui, rimasero dubbiosi e neutrali. Questi angeli non sono voluti dal Paradiso, che ospitandoli rovinerebbe la sua bellezza, e nemmeno sono cacciati all'Inferno. Gli ignavi si lamentano perché consapevoli che la loro pena non finirà mai, inoltre a loro non è concessa neanche la speranza di essere ricordati sulla Terra. Nei prossimi canti vedremo come per i dannati sia di gran conforto la speranza di essere ricordati tra i vivi. Gli ignavi però, non avendo mai preso posizione ed essendo costati tanto a molti per la loro passività, non potranno essere ricordati, quindi a loro non spetta neanche questa misera speranza. Lo stesso Virgilio li disprezza, dicendo a Dante: "non ragioniam di loro, ma guarda e passa". Per la guida di Dante, parlare di gente del genere è inutile ed equivale ad una perdita di tempo. Dante nei prossimo canti parlerà con molti dannati, ma ora non si ferma un istante con nessuno degli ignavi. Qui è ben chiara la visione politica dell'autore: restare fuori dalle dispute politico-religiose è peccato ben più grave che schierarsi dalla parte sbagliata.
Attraverso gli occhi di Dante, possiamo osservare la pena che spetta agli ignavi. Si tratta di un contrappasso per contrapposizione, cioè di una pena che contrasta col peccato che li ha dannati. Le anime di coloro che mai si schierarono in vita sono costrette a correre dietro un vessillo per l'eternità, tormentate da mosche e vespe, calpestando sotto i piedi dei vermi che rappresentano la viltà che dominò i loro cuori durante l'esistenza terrena.   
Pur non parlando con nessuno, Dante riconosce un personaggio nell'immensa schiera di anime. Si tratta di Celestino V, il papa che lui descrive come colui "che fece per viltade il gran rifiuto". Pietro di Morrone fu eletto papa Celestino V nel 1294 e abdicò appena cinque mesi dopo, ecco qual è il gran rifiuto a cui Dante fa riferimento. Il poeta classifica l'atto di rinuncia del pontefice come manifestazione di viltà, mostrandosi particolarmente severo nel giudizio, forse anche perché l'abdicazione portò all'elezione di Bonifacio VIII, papa con cui ebbe grossi attriti. Francesco Petrarca fu molto meno drastico e motivò l'atto di Celestino V con la sua vocazione solitaria e contemplativa. In effetti Pietro di Morrone, prima di essere eletto papa a 79 anni, fu eremita sul monte Morrone e sulla Maiella. Essere papa a quell'epoca voleva dire guidare un potente regno coinvolto in numerose dispute sia politiche che religiose, non dovrebbe sorprendere che un eremita quasi ottantenne non si ritenne all'altezza del compito. Oggi probabilmente elogeremmo l'onestà di un religioso che rifiuta il ruolo di guida politica per continuare a seguire la sua vocazione, ammettendo di fatto di non sentirsi in grado di affrontare determinate sfide, ma all'epoca le idee politico-religiose erano differenti.
Dopo aver dato una veloce occhiata agli ignavi, che non meritano di più, Dante e Virgilio arrivano sulla riva dell'Acheronte. Il nome del fiume deriva dal greco e significa "fiume del dolore", è il corso d'acqua più grande dell'Inferno perché circonda interamente il primo cerchio. Le anime destinate all'Inferno, spiega Virgilio, si accalcano sulla riva di quel fiume fangoso e torbido (come le anime stesse) per essere condotte nel luogo della loro pena. Essendo l'eterno supplizio frutto di un atto di giustizia divina, le anime, che bestemmiano contro sé stesse, desiderano espiare la loro condanna, come se volessero vendicarsi contro sé stesse delle loro mancanze verso Dio.
Sull'Acheronte i poeti incontrano Caronte, colui che naviga e porta le anime da una riva all'altra. Costui svolge con sadica furia il suo compito, ricordando alle anime che le condurrà all'eterno supplizio e intimandogli di abbandonare ogni speranza. Le anime tremano sentendo le sue parole e incassano i suoi colpi di remo quando non sono leste a salire nella sua barca. Quando si accorge che tra i defunti vi è un uomo vivo, gli intima di andar via e gli spiega che per chi è ancora nella grazia (Dante è comunque ancora vivo, in lui quindi vi è ancora la grazia di Dio) ci sono altre vie per accedere alla spiaggia del Purgatorio. A questo punto interviene Virgilio, il quale spiega che "vuolsi così colà dove di puote / ciò che si vuole" e gli intima di non fare più domande. 
Dopo la visione del crudele Caronte che percuote le anime per farle salire in barca, il canto si conclude con un violentissimo terremoto che porta Dante allo svenimento. Questa perdita di sensi porta il poeta a non vedere, e quindi a non spiegarci, come supera l'Acheronte. L'ipotesi più ovvia è che egli, svenuto, sia imbarcato con Virgilio sulla barca di Caronte. Nei canti seguenti però vedremo che spesso gli svenimenti e i sonni di Dante si accompagnano a eventi sovrannaturali, alcuni dei quali ne facilitano il cammino, quindi non è folle l'ipotesi che un intervento angelico conduca i due poeti al di là del fiume.

Francesco Abate

domenica 29 ottobre 2017

COMMENTO AL CANTO II DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il secondo canto della Divina Commedia si apre con un'invocazione di Dante alle muse ed alla propria mente affinché gli permettano di scrivere fedelmente ciò che ha visto nel suo viaggio nell'oltretomba. Questa invocazione riprende la tradizione dei poemi antichi, rispettata sia da Omero che da Virgilio, ma in Dante ha un valore meno poetico e serve già a sottolineare l'importanza che per lui deve avere il poema. Come già ho scritto nel commento al canto I (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/10/commento-al-canto-i-della-divina.html), l'opera per Dante non è fine a sé stessa. Egli scrive la Commedia con l'intento di portare l'umanità fuori dalla selva oscura, liberarla dalla confusione in cui è caduta e riportarla nella grazia di Dio. Affinché possa essere raggiunto uno scopo tanto elevato, è fondamentale che Dante riesca a riportare fedelmente ciò che ha visto (nella realtà, il frutto delle sue meditazioni), così da far percorrere ai lettori il suo stesso cammino. Per questa ragione egli implora le muse e la sua mente affinché lo aiutino a scrivere correttamente ciò che vuole, egli non vuole solo intrattenere ma sta iniziando un'opera dallo scopo elevato. La validità delle sue idee sarà decisa dall'esito della sua missione: "o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobiltate".
La sera scende e il dubbio si insinua nel cuore di Dante. Egli è un peccatore, non può quindi comprendere immediatamente l'importanza del viaggio che Virgilio, la sapienza, gli ha prospettato. Smarrito e ottenebrato dal peccato, egli chiede alla sua guida come sia possibile che a lui sia concesso un tale privilegio. Nel formulare la sua richiesta, il poeta cita due personaggi che prima di lui hanno compiuto tale viaggio: Enea e san Paolo. Nell'epica e nelle religioni tanti sono i personaggi a cui vengono attribuiti viaggi nell'oltretomba compiuti in vita, Dante cita proprio questi due per una ragione ben precisa. Enea è per tradizione considerato fondatore di Roma, è quindi progenitore di quell'impero che il poeta assurge a simbolo del potere spirituale; san Paolo invece è uno dei personaggi fondamentali del Cristianesimo e le sue lettere, contenute negli Atti degli Apostoli, sono parte fondamentale della predicazione cristiana, quindi è degno rappresentante del potere spirituale. Citando Enea e san Paolo, Dante cita i due poteri che dovrebbero guidare l'umanità sulla retta via. Sono le stesse parole con cui Dante accompagna i due esempi a palesarci la sua intenzione: riferendosi a Enea dice che Dio gli concesse il privilegio del viaggio nell'aldilà "pensando l'alto effetto / ch'uscir dovea di lui", cioè per favorire la sua opera che avrebbe portato alla nascita di Roma; san Paolo invece fu rapito e portato fino al terzo cielo "per recarne conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione", infatti egli fu convertito e attraverso di lui fu nutrita la fede di tutto il mondo. Di fronte a due esempi così grandi, Dante si sente inadeguato e si chiede chi gli conceda tale privilegio: "Io non Enea, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri 'l crede". La frase con cui il poeta chiude la richiesta di spiegazioni a Virgilio è: "Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono". Riconoscendo la propria mente oscurata dal peccato, quindi inadeguata a comprendere verità tanto elevate, egli si affida totalmente alla sapienza della guida. Tutto questo ragionare sulla sua inadeguatezza porta Dante a cedere alla paura, facendogli pensare di rinunciare al cammino propostogli da Virgilio.
Virgilio si accorge che la paura è padrona del cuore di Dante e glielo fa notare ("l'anima tua è da viltade offesa;"). Per rinfrancarlo, sceglie di spiegargli l'origine dell'idea del viaggio che gli ha proposto. Egli era nel Limbo, "tra color che son sospesi", cioè non ammesso alla beatitudine eterna perché pagano, e non punito con le eterne pene perché non macchiato di colpe gravi. Fu raggiunto da Beatrice che, scesa dal Paradiso, lo esortò a correre in soccorso di Dante che era smarrito nella selva. Beatrice gli promise di lodarlo al cospetto di Dio, lui accettò di buon grado, ma volle sapere dall'anima beata cosa l'avesse spinta a scendere fin nel luogo dell'eterna perdizione. Beatrice gli spiegò che, essendo lei un'anima eletta da Dio all'eterna beatitudine, non poteva subir alcun danno dal male dell'Inferno ("I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange, / né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale"). Infine la donna raccontò che il suo intervento era stato sollecitato da santa Lucia, a sua volta chiamata all'azione dalla Madonna stessa. Come si vede, la missione di condurre Dante, e con lui l'umanità intera, fuori dall'oscurità, discende dall'altissimo, percorre in senso discendente una scala gerarchica ed arriva fino al gradino più basso, Virgilio. La scelta delle tre protettrici non è per nulla casuale: la Madonna è colei che esaudisce le preghiere degli uomini ancor prima che queste siano fatte, è grazia preveniente; santa Lucia è una santa a cui Dante Alighieri fu devotissimo, specialmente durante la sua malattia agli occhi, ed essendo protettrice della vista è in questo caso scelta come grazia illuminante; Beatrice, la donna che Dante ha amato e che già nella Vita Nuova assurge a simbolo spirituale, qui rappresenta la grazia operante. Le tre donne rappresentano quindi tre grazie, in contrapposizione alle tre fiere che impediscono il cammino lungo la retta via.
Dopo aver raccontato a Dante il motivo della sua venuta, Virgilio lo sprona chiedendogli come possa ancora aver paura pur sapendo che tre donne benedette avevano a cuore il suo destino ed avevano deciso di aiutarlo. Sentita la storia, il poeta prende coraggio e lo spiega con un paragone bellissimo: Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca / si drizzan tutti aperti in loro stelo, / tal mi fec'io di mia virtude stanca, / e tanto buono ardire al cor mi corse. A questo punto Dante sceglie di seguire Virgilio e con le parole lo elegge a suo duca, signore e maestro.

Francesco Abate

venerdì 27 ottobre 2017

COMMENTO AL CANTO I DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Con questi versi si apre la Divina Commedia di Dante Alighieri. L'opera inizia con il poeta smarrito in una selva selvaggia, aspra e forte, che il solo ricordare gli incute paura. La selva rappresenta l'oscurità, la lontananza dalla grazia di Dio. Lo smarrimento del poeta in questa selva può rappresentare contemporaneamente l'allontanamento di Dante dalla grazia di Dio, il suo smarrimento nelle cose umane, ed anche lo smarrimento dell'intera umanità, che priva della guida sicura e retta del papato e dell'impero vaga smarrita fuori da ogni virtù. Nei versi successivi il poeta ci dice che questa selva Tant'è amara che poco è più morte, essa infatti può essere considerata un lento procedere verso la morte dell'anima, quindi è poco meno terribile della morte stessa.
Dante non riesce a dirci come possa essere giunto ad una condizione tanto misera, questo perché la sua mente era oscurata dal sonno nel momento in cui abbandonò la "verace via", cioè la via della verità. Nella Bibbia spesso l'offuscamento dell'intelletto dovuto al peccato è definito come un sonno, qui Dante riprende questa tradizione e ci spiega che la sua mente era tanto oscurata dal peccato che è finito fuori dalla grazia di Dio senza nemmeno rendersene conto. Per alcuni critici l'abbandono della retta via coincide con un momento storico preciso, l'anno 1290, che fu l'anno della morte di Beatrice. Tale ipotesi appare verosimile se si considera il ruolo che il poeta dà alla donna che tanto ha amato. Beatrice non è una semplice musa, è una guida verso la grazia di Dio, colei che indica al poeta il sentiero da seguire per liberarsi dalla propria miseria e raggiungere la beatitudine. Nei prossimi canti vedremo come la stessa Beatrice ha deciso di far intraprendere a Dante il viaggio nell'oltretomba, così da salvare non solo l'anima del suo protetto, ma l'intera umanità attraverso la sua testimonianza. Nelle intenzioni di Dante infatti, questo sarà più chiaro nei prossimi canti, la Divina Commedia non è un poema fine a sé stesso. I versi che raccontano il suo viaggio nell'oltretomba hanno il valore di una completa e approfondita opera teologica attraverso la quale l'autore cerca di scacciare l'oscurità dalla mente dei lettori. Beatrice quindi non è solo la guida e la salvatrice di Dante, per il poeta diventa guida e salvatrice dell'umanità intera.
Dante, resosi conto della sua misera condizione, reagisce ed esce dalla selva, trovandosi ai piedi di un colle. Nei versi 77-78, Virgilio definisce questo colle "il dilettoso monte / ch'è principio e cagion di tutta gioia. Il colle è il cammino che conduce al sole che, a sua volta, è la guida dell'umanità. La definizione del sole come guida ha una funzione bivalente, infatti il pianeta (Dante lo indica così perché al suo tempo vigeva ancora il sistema tolemaico, quindi era considerato un pianeta che, come gli altri, percorreva un'orbita intorno alla Terra) è da sempre la guida per i viaggiatori, che lo usano per trovare i punti cardinali, ma allo stesso tempo in questi versi assume il ruolo di guida verso la luce, seguendo i suoi raggi si può uscire dall'oscurità del peccato.
Visto il colle con il sole alle spalle, Dante è rinfrancato e inizia a salire, lasciandosi la selva alle spalle. A questo punto si trova davanti tre fiere: una lonza, un leone e una lupa. La lonza, un felino simile ad una pantera, rappresenta la lussuria e col suo manto maculato mostra il gioco mutevole delle lusinghe. Il leone invece rappresenta la superbia. La lupa è la più temibile, rappresenta l'avidità. La vista delle tre fiere spaventa il poeta e lo costringe ad indietreggiare verso la selva, questi tre peccati impediscono quindi all'uomo di percorrere il retto cammino e lo spingono in una condizione di perdizione.
Nel momento in cui il rinsavimento di Dante sembra vanificato, in cui egli sta inesorabilmente cadendo di nuovo nella disperazione, giunge Virgilio. Dante inizialmente non lo riconosce, quindi Virgilio si presenta prima spiegando l'epoca storica in cui nacque e visse, nel tempo de li dèi falsi e bugiardi, cioè nell'antica Roma in cui vigeva il paganesimo, poi parlando dell'opera che lo rese celebre nei secoli, l'Eneide. "cantai di quel giusto / figliuol d'Anchise che venne di Troia, / poi che 'l superbo Iliòn fu combusto", nella sua opera Virgilio scrisse di Enea, che fuggì dalla rocca di Troia quando questa fu bruciata dagli achei. Dante in Virgilio riconosce il suo maestro, colui che ha ispirato le sue opere, e gli chiede aiuto affinché possa salvarsi dalla lupa, cioè dall'avidità che gli impedisce di camminare verso la beatitudine. In questa invocazione, secondo me possiamo anche leggere l'appello di un letterato che chiama a raccolta tutta la cultura e il sapere affinché lo aiutino a liberarsi dalla condizione di miseria morale, egli cerca nella conoscenza l'appiglio utile per migliorarsi nello spirito.
Dopo l'invocazione di Dante, arriva quello che secondo me è il momento più bello di tutto il canto. Virgilio spiega alla povera anima smarrita che è impossibile superare la lupa, insaziabile e inarrestabile. Il mondo è in balìa dell'avidità e questa cresce di continuo, tanto che è impossibile salvarsi da essa affidandosi semplicemente alla ragione umana. Bellissima è la descrizione che Virgilio fa della lupa: "ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo 'l pasto ha più fame che pria. / Molti son li animali a cui s'ammoglia,". L'avidità è insaziabile, cresce sempre di più, infatti l'avido si ritrova a volere sempre più di quel che ha, inoltre è un vizio che si accompagna a tanti altri, infatti essa è causa di guerre (violenza), intrighi (lussuria) e altre cose deprecabili. Questa meravigliosa descrizione dell'avidità ci introduce poi ad un altro magnifico passaggio, una delle profezie più oscure di tutta l'opera, quella del veltro. "infin che 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. / Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro." con queste parole Virgilio annuncia l'arrivo di questo veltro che distruggerà l'avidità. Il veltro è un veloce cane da caccia, è ovvia quindi la metafora del cane che stana e uccide la lupa. Virgilio predice poi che questo veltro non avrà né sete di potere né di denaro (il peltro è un'antica lega metallica usata nell'antichità cristiana per la produzione di strumenti di culto), si occuperà solo delle cose divine (sapienza, amore e virtù). Ciò che rende oscura la profezia è la provenienza del veltro, indicata nell'ultimo verso. Molte sono le interpretazioni date all'espressione "tra feltro e feltro": 
1) per alcuni critici come feltro si indica un rozzo panno di lana non tessuta, quindi Virgilio vorrebbe dire che sarà di origini umili;
2) per altri il feltro invece indica un panno di pregio usato per tappeti e cuscini, quindi significherebbe che sarà di origini nobili;
3) molti critici vedono invece un'indicazione geografica, per loro il poeta vorrebbe indicare che questo veltro nascerà tra Feltro e Montefeltro in Romagna;
4) altri vedono un'indicazione astrologica, i Dioscuri (Castore e Polluce) usavano infatti un berretto frigio di feltro, quindi l'espressione indicherebbe la costellazione loro dedicata nella volta celeste, quindi il veltro nascerà sotto la costellazione dei Gemelli.
Dopo la profezia, Virgilio spiega a Dante che per uscire dalla selva dovrà percorrere un cammino diverso. Gli annuncia che lo guiderà attraverso l'Inferno, dove sentirà i lamenti delle anime dannate per l'eternità, e il Purgatorio, dove troverà le anime che scontano la pena felici perché consapevoli che giungeranno al Paradiso. Gli spiega poi che sarà guidato in Paradiso da Beatrice, perché lui fu pagano e Dio non vuole consentirgli l'accesso nel regno dell'eterna beatitudine.
Dante segue Virgilio e inizia il suo viaggio.

Francesco Abate