sabato 28 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: << Togli, Dio, ch'a te le squadro! >>.
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse << Non vo' che più diche >>;
e un'altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Il canto inizia con Vanni Fucci che, dopo aver predetto a Dante la sventura solo per fargli del male, si esprime in una bestemmia plateale contro Dio: rivolge verso l'alto le mani e fa il gesto delle "fiche" (tiene cioè il pugno chiuso e inserisce il pollice tra indice e medio, gesto che richiama la penetrazione e nell'antichità era ampiamente usato per offendere). Vanni è perciò un malvagio per cui è impossibile provare alcuna pietà, non c'è pentimento per le azioni compiute, il suo animo è inoltre incline alla vendetta e alla blasfemia. Dante, visto il comportamento del dannato, considera le serpi che intervengono a fare scempio di lui come amiche. Le bestie lo attaccano, una gli si avvinghia al collo, così da impedirgli di pronunciare altre bestemmie, un'altra gli lega le braccia con tanti nodi da renderlo assolutamente inerte. L'arroganza di Vanni Fucci induce l'autore a un'invettiva contro Pistoia, si chiede infatti perché il suo consiglio non deliberi di ridurre la città in cenere, così da evitare che i suoi cittadini perseverino nel fare del male. Dante dichiara nelle sue terzine di non aver mai visto in tutto l'Inferno uno spirito tanto superbo quanto Vanni Fucci, il quale è addirittura peggio di Capaneo, che cadde dalle mura di Tebe quando osò sfidare Giove, e che nel canto XIV il poeta ha visto patire la pena in un atteggiamento di aperta sfida nei confronti di Dio. ("Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d'incenerarti sì che più non duri, / poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? / Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri / non vidi spirto in Dio tanto superbo, / non quel che cadde a Tebe giù da' muri"). Vanni Fucci fugge via, mentre un centauro furioso si avvicina cercandolo. Questo centauro ha sulla groppa tante serpi quante non ve ne sono in Maremma, zona della Toscana che ai tempi di Dante era dominata dalla malaria e piena di rettili velenosi. Sul tronco, dietro le spalle, il centauro ha un drago dalle ali spiegate che incenerisce chiunque si imbatta in lui. Virgilio spiega che il centauro è Caco, un essere della mitologia latina descritto come figlio di Vulcano, abitante in una grotta dell'Aventino, che uccideva sputando fiamme dalla bocca. Secondo la mitologia, Caco fu ucciso da Ercole, a cui aveva rubato del bestiame. A differenza degli altri centauri, che sono sulle rive del Flegetonte perché violenti, Caco è punito per il furto, per questo è tra i ladri nella settima bolgia. 
Mentre Virgilio racconta a Dante di Caco, tre spiriti si avvicinano senza essere visti e gli chiedono chi siano. I due pellegrini restano in silenzio, Dante non conosce i tre spiriti, uno di loro rivela l'identità di un altro per caso, chiedendosi dove sia rimasto Cianfa. A questo punto il poeta, intuendo che siano fiorentini, chiede al maestro con un gesto della mano di restare in silenzio e fare attenzione. Cianfa, della famiglia dei Donati, fu un cavaliere guelfo dei cui furti non si sa niente. Il poeta interrompe la descrizione dell'evento per dire al lettore che non si meraviglierebbe se risultasse difficile da credere ciò che sta per scrivere, infatti lui stesso ancora non crede a ciò che ha visto in quell'occasione. Un serpente a sei piedi si lancia contro uno dei dannati e gli si avvinghia addosso, stringendolo più di quanto l'edera fa all'albero su cui si abbarbica, finendo per fondersi con lui come se entrambi fossero fatti di cera calda. Il mostro morde anche le guance del dannato, con un gesto che richiama alla mente i baci di saluto che si danno gli amici. Presumibilmente il serpente è Cianfa, che i suoi compagni non vedevano più proprio perché aveva subito la mutazione in rettile a sei piedi. I due esseri fusi insieme formano qualcosa di informe, di diverso da entrambe le figure di partenza. Gli altri due dannati, assistendo all'orrido spettacolo, urlano disperati all'amico chiamandolo Agnello. Si tratta di Agnello Brunelleschi, nobile fiorentino che iniziò a rubare da bambino nella borsa della madre e finì per svaligiare case da adulto. Le due figure (serpente e umano) si fondono in un'immagine perversa che niente conserva delle precedenti fattezze umane. Tale abominio avanza con passo lento e goffo. La descrizione dell'orribile metamorfosi merita di essere letta integralmente:
Com'io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterior le braccia prese;
poi li addentò e l'una e l'altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s'appiccicar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea quel ch'era:
come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e 'l bianco more.
Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
gridava: << Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se' né due né uno >>.
Già eran li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'immagine perversa
parea; e tal sen gìo con lento passo.
Mentre avviene la metamorfosi descritta sopra, un serpentello livido e nero come un grano di pepe si avvicina agli altri due dannati molto velocemente, il poeta lo paragona al ramarro che in estate saetta da una siepe all'altra per evitare i raggi solari. Il rettile trafigge uno dei due all'ombelico ("onde prima è preso nostro alimento", cioè dove si alimenta il feto) e il malcapitato cade disteso al suolo in preda ad un malefico intorpidimento. Dalla bocca del serpente e dall'ombelico del dannato inizia a uscire una gran quantità  di fumo, le due nuvole finiscono poi per fondersi. Dante interrompe la descrizione per dirci che la metamorfosi che si verifica adesso è ben peggiore di quelle che Lucano narrò essere avvenute a Sabello e Nasidio nel deserto di Libia, sempre a causa dei morsi di serpente. Allo stesso modo è peggiore delle metamorfosi di Cadmo e Aretusa, narrate da Ovidio. La differenza tra le metamorfosi citate sopra e quelle viste da Dante nella bolgia è che le prime mostrano solo un cambiamento della forma, invece i dannati mutano anche l'essenza. ("Taccia Lucano omai là dov' e' tocca / del misero Sabello e di Nasidio, / e attenda a udir quel ch'or si scocca. / Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, / ché se quello in serpente e quella in fonte / converte poetando, io non lo 'nvidio; / ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò sì ch'amedue le forme / a cambiar lor materia fosser pronte"). Il serpente e il dannato stanno distesi uno di fronte all'altro e, avvolti dal fumo, si scambiano le fattezze: il rettile diventa uomo e viceversa. L'anima del dannato, mutata in serpente, fugge sibilando. Lo spirito appena formatosi dal serpente prima lo insegue e gli parla, poi si volta e dice a quello rimasto di volere che Buoso corra carponi per la bolgia. Buoso, il dannato appena mutato in serpente, fu un nobile fiorentino, per alcuni critici appartenente alla famiglia degli Abati, per altri ai Donati. Dante conclude il canto scusandosi per il modo un po' confuso con cui ha descritto le trasformazioni cui ha assistito, rivela poi di essere stato in quel momento tanto disorientato da non aver riconosciuto Puccio Sciancato, l'unico dei tre dannati a non aver subito metamorfosi. Il poeta rivela poi che l'altro, quello formatosi dalla trasformazione del serpente, era Francesco de' Cavalcanti, il quale fu ucciso a Gaville dagli abitanti del castello e la cui uccisione scatenò una violenta ritorsione della sua famiglia, per questo lui è "quel che tu, Gaville, piagni".

Francesco Abate

domenica 22 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

In quella parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Il canto XXIV inizia con versi che richiamano un'immagine di vita campagnola. Nel periodo tra gennaio e febbraio, quando il sole è nella costellazione dell'Acquario e le notti durano circa metà del giorno (quando ci si avvicina quindi all'equinozio di primavera), il povero pastore si sveglia e vede la campagna imbiancata. Ovviamente se ne duole e si lamenta, convinto che si sia posata la neve che gli impedirà di far pascolare le bestie, ma per sua fortuna è solo brina che viene rapidamente sciolta dai raggi solari. Il pastore si lamenta in casa, poi esce di nuovo fuori e riacquista la speranza, vedendo che la brina si sta sciogliendo, quindi prende la verga (il vincastro) e porta il gregge a pascolare. Dante introduce questa immagine per mostrarci la reazione di Virgilio davanti all'inganno di Malacoda: il maestro prima resta turbato, poi non appena vede le rovine e assume l'espressione di chi è sereno perché ha trovato una soluzione. Dopo aver ben valutato la situazione, Virgilio prende in braccio Dante e lo spinge, aiutandolo a iniziare la risalita delle rovine. I due risalgono, con la guida sempre pronta ad avvisare l'allievo della sporgenza successiva a cui aggrapparsi, dandogli la sicurezza di chi vede che ogni azione è accompagnata da una riflessione, non è avventata. Virgilio, ogni volta che aiuta Dante ad aggrapparsi a una sporgenza, subito gli indica la successiva e gli consiglia di saggiarne prima la resistenza ("E come quei ch'adopera ed estima, / che sempre par che 'nnanzi si proveggia, / così, levando me sù ver' la cima / d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia / dicendo: << Sovra quella poi t'aggrappa; / ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia >>"). "Non era via da vestito di cappa", dichiara l'autore, intendendo che la salita non è adatta a vestiti lunghi, che facilmente si potrebbero impigliare nelle sporgenze. La risalita è difficoltosa, di sicuro Dante non potrebbe farcela se l'argine fosse alto quanto quello precedente, ma Malebolge scende verso il pozzo centrale, quindi questo su cui sta salendo è più basso. Arrivati in cima, è esausto e si siede. La sua guida però lo rimprovera aspramente, usando un tono elevato che trasforma il semplice rimbrotto in una vera e propria lezione morale. Virgilio gli dice che non deve abbandonarsi alla pigrizia, alla fama infatti non si arriva poltrendo seduti o distesi sotto le coperte, e senza la fama non si lascia alcun segno sulla Terra dopo la morte, sparendo come il fumo nell'aria o la schiuma nell'acqua ("<< Ormai convien che tu così ti spoltre >>, / disse 'l maestro; << ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre; / sanza la qual chi sua vita consuma, / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere ed in acqua la schiuma"). La guida conclude il suo discorso esortandolo a rialzarsi, ricordandogli che non gli basta andar via dall'Inferno, che dovrà sostenere una salita ben più lunga (allude alla montagna del Purgatorio). Dante si alza, mostrando un'energia maggiore di quella che effettivamente ha ("mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia") e dichiarandosi pronto a sostenere il resto del viaggio. Riprendono il cammino sullo scoglio che sovrasta la bolgia, che è ricco di sporgenze, stretto e dissestato, più scomodo di quelli percorsi fino a questo momento. Il poeta parla mentre cammina per sembrare meno debole e timido. Una voce si leva dal fondo della bolgia, non formando però nessuna parola. Dante non capisce cosa dica la voce, gli sembra però che chi parla sia intento a muoversi. Guarda in basso, ma non vede nulla a causa dell'oscurità, quindi chiede al maestro di raggiungere l'altra sommità per poi scendere nella bolgia, così da poter vedere e capire ciò che sta sentendo. Virgilio acconsente, dice che alla domanda giusta bisogna rispondere con l'azione, senza parlare. I due raggiungono l'altra sommità e scendono nella bolgia, qui Dante vede che il fondo è pieno di serpenti, tanto diversi tra loro da fargli ancora gelare il sangue. Tutti i serpenti della Libia (che godeva della fama di avere la varietà più terribile di serpenti velenosi), dell'Etiopia e del nord Africa insieme non possono competere con quelli che il poeta vede sul fondo della bolgia. Tra le serpi corrono i dannati, nudi e spaventati, privi della speranza di potersi riparare in un pertugio o di poter fuggire grazie all'elitropia (pietra che si credeva rendesse invisibili). I dannati hanno le mani legate dietro la schiena dai serpenti, inoltre i rettili si infilano interamente dietro la loro schiena e gli si arrampicano anche sulla parte anteriore del corpo. Questa è la settima bolgia e qui sono puniti i ladri. La presenza dei serpenti e la loro capacità di penetrare ovunque è metafora del ladro, così come nella pena è evidente il contrappasso: i ladri in vita furono  esseri infidi capaci di infilarsi ovunque per rubare, così adesso soffrono a causa di rettili in grado di infilarsi dappertutto. 
Alla base dell'argine, i poeti vedono un dannato venir trafitto da un serpente alla base del collo. Il ladro non fa in tempo a emettere un suono, subito inizia ad ardere e finisce ridotto in cenere. Le ceneri del malcapitato si raccolgono e in un momento si riforma di nuovo il dannato nella sua interezza. Dante paragona questa visione al mito della fenice, secondo il quale l'uccello raccoglie nardo e mirra, esponendole al sole e posandosi in mezzo, così queste prendono fuoco e l'animale con esse arde, per poi risorgere dalle ceneri. Il poeta paragona poi il modo in cui il dannato si rialza a quello dell'epilettico dopo una crisi, che si guarda intorno, stordito e spossato. Riguardo all'epilessia, per capire il passaggio è necessario sapere che all'epoca si credeva potesse essere causata o da un demone o dall'ostruzione delle vene. La descrizione della scena termina con una riflessione sulla potenza di Dio. Il passaggio intero merita di essere letto integralmente:
Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
s'avventò un serpente che 'l trafisse
là dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com'el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e 'n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biada in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra li tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo,
quando si leva, che 'ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era 'l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant'è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Virgilio chiede al dannato appena riformatosi dalle ceneri chi sia, questo risponde che viene dalla Toscana e non è morto da molto tempo, fu Vanni Fucci e visse non come umano ma come bestia, infine dichiara che Pistoia fu la sua degna tana. Nel suo discorso, Vanni Fucci accusa prima i genitori, dichiarandosi bastardo ("sì come a mul ch'i' fui"), poi la città in cui visse, cercando quindi di scaricare le sue colpe sulla famiglia e sull'ambiente in cui visse. Il personaggio è Giovanni, figlio illegittimo di Guelfuccio di Gerardetto dei Lazzàri, personaggio particolarmente violento (uccise il pratese Marcovaldino di Jacopo e percosse a sangue il priore di San Lorenzo a Montalbiolo, Gaudino) e autore di diversi furti, tra cui quello nella sagrestia della Chiesa di Santa Maria a Bonistallo e quello nella sagrestia di San Jacopo a Pistoia. Dante, che in vita conobbe Vanni Fucci forse nel 1292, durante l'assedio di Caprona, chiede a Virgilio di domandargli come mai si trovi condannato tra i ladri, dato che lui l'ha conosciuto solo come violento. Vanni sente le parole di Dante e si indispettisce, dichiara che gli fa male essere visto in tale miseria, che considera più infamante della morte sulla forca che gli spettò nel mondo dei vivi. Il dannato spiega di aver rubato nelle sagrestie e per questo si trova nella bolgia, poi però pensa alla sua vendetta e, perché Dante non goda nel vederlo in quelle condizioni, gli predice la sconfitta dei guelfi Bianchi nell'agro pistoiese, evento che colpirà tutti i guelfi Bianchi sia di Pistoia che di Firenze (quindi anche Dante). Vanni Fucci conclude dicendo di aver rivelato questi eventi futuri per dare un dolore a Dante. La predizione di Vanni Fucci è scritta con versi in cui abbondano metafore:
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond'ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.
Nel maggio 1301 ci sarà la cacciata dei Neri da Pistoia. Nel novembre dello stesso anno Carlo di Valois rientrerà a Firenze e con lui i Neri, cacciando i Bianchi dalla città ("Fiorenza rinova gente e modi "). Marte, divinità avversa a Firenze, trarrà dalla Val di Magra un fumo torbido e oscuro che verrà combattuto sopra Campo Piceno, ma spazzerà via la nebbia in modo tale che ogni Bianco ne sarà ferito. Il riferimento alla Val di Magra allude chiaramente al Marchese Moroello Malaspina, signore di Val di Magra, quello a Campo Piceno invece riprende Sallustio, il quale scrisse della fine di Catilina nell'Ager Picernus, luogo identificato per errore ai tempi di Dante nelle vicinanze di Pistoia. Vanni predice quindi la sconfitta dei Bianchi a Pistoia nel settembre 1306 e la presa del castello di Serravalle del 1302, due eventi che ebbero pesanti conseguenze anche per i Guelfi Bianchi fiorentini. I Guelfi Neri, guidati da Malaspina, sono rappresentati dal fumo torbido della battaglia e del fuoco, direttamente generato da Marte, mentre i Guelfi Bianchi sono la nebbia che sarà spezzata.

Francesco Abate

mercoledì 18 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Taciti, soli, sanza compagnia
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle i Malebranche impegnati nella loro zuffa e, silenziosamente, continuano il loro cammino. A Dante viene in mente la favola della rana e del topo, che attribuisce a Esopo, mentre in realtà fu scritta da Fedro (l'errore deriva dal fatto che il poeta doveva averla letta nella Mythologia Aesopica, opera in cui fu erroneamente inserita). In questa favola è narrato di una rana che accetta di aiutare un topo a guadare il fiume e per farlo lega la sua coda alla zampa, a metà del tragitto tenta però di immergersi per annegarlo. Il roditore si dibatte e la rana fa fatica a scendere in profondità, intanto dall'alto un nibbio è attratto dalla vista del topo e lo afferra per mangiarlo, finendo per nutrirsi anche della rana traditrice. La favola racconta di un traditore (la rana) che per un caso fortuito (il passaggio del nibbio) finisce male a causa del suo stesso tradimento, patendo un male comune a quello della sua vittima (il topo). Se al topo sostituiamo Ciampolo, alla rana i demoni e al nibbio la pece, vediamo come la favola rappresenti in modo perfetto ciò che è accaduto nel canto precedente. La vittima (Ciampolo) ottiene vendetta facendo patire la sua stessa pena (il bagno nella pece bollente) ai suoi aguzzini (i demoni). Dante traccia questo parallelo tra la vicenda dei Malebranche e i protagonisti della favola, poi subito nasce in lui un altro pensiero che gli raddoppia la paura avuta quando ha saputo che i diavoli avrebbero fatto da scorta. Il poeta teme che i diavoli, furiosi per essere stati visti dai due pellegrini mentre Ciampolo li beffava, possano inseguirli con propositi di vendetta ("Io pensava così: << Questi per noi / sono scherniti con danno e con beffa / sì fatta, ch'assai credo che lor nòi. / Se l'ira sovra 'l mal voler s'agguelfa, / ei ne verranno dietro più crudeli / che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa"). Terrorizzato ("Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura"), si volta indietro a guardare se i diavoli sono in arrivo, poi manifesta la sua paura a Virgilio, spiegandogli che teme il ritorno dei Malebranche e che dovrebbero nascondersi, aggiunge poi che tanta è la paura di essere inseguito da sentirli già alle sue spalle. Virgilio gli dice che dentro sé percepisce chiaramente i pensieri del suo protetto, il riflesso dell'immagine in uno specchio non si forma tanto rapidamente quanto l'immagine del cuore del poeta dentro di lui, quindi non ignora i suoi timori ("S'i fossi di piombato vetro, / l'imagine di fuor tua non trarrei / più tosto a me, che quella dentro 'mpetro"). I pensieri di Dante sono così penetrati nella mente di Virgilio da formare "un sol consiglio" con i suoi, in pratica la guida ha già escogitato una soluzione nel caso in cui i timori del protetto si rivelassero fondati: seguendo la pendenza, possono scendere all'interno della sesta bolgia, sottraendosi quindi all'ira degli inseguitori. Neanche fa in tempo a finire il discorso Virgilio, che Dante scorge i Malebranche venire verso di loro con le ali spiegate. La guida subito afferra il poeta e con lui si cala lungo la parete della sesta bolgia, restando con lui disteso spalle al muro. Nel descrivere la scena, l'autore usa un paragone che rinforza il ruolo di protettore che ha per lui Virgilio, cioè la ragione. La scena è paragonata a quella della madre che si sveglia al rumore delle fiamme, prende il figlio e fugge, prendendosi cura più di lui che di sé stessa, al punto di fuggire seminuda ("come la madre ch'al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non s'arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta"). Per sottolineare ancor di più la drammaticità del momento e l'amore con cui Virgilio lo protegge, Dante ricorre a un secondo paragone: l'acqua del mulino, incanalata verso le pale della ruota, non corre tanto veloce quanto Virgilio per sottrarre il protetto alla furia dei diavoli. La guida accompagna il poeta facendogli scudo col corpo, tenendolo non come un compagno, ma come un figlio ("Non corse mai sì tosto acqua per doccia / a volger ruota di molin terragno, / quand'ella più verso le pale approccia, / come 'l maestro mio per quel vivagno, / portandosene me sovra 'l suo petto, / come suo figlio, non come compagno"). Arrivati a toccare coi piedi il fondo della sesta bolgia, i pellegrini si tranquillizzano, la Provvidenza infatti impedisce ai guardiani della quinta bolgia di allontanarsene, quindi stando ora nella sesta sono al sicuro. 
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
I versi con cui Dante descrive gli ipocriti, puniti nella sesta bolgia, meritano di essere riportati integralmente. Essi avanzano in una lenta processione, vestiti di una cappa la cui fattura esprime la doppiezza che li ha dannati: fuori è dorata, sembra sfavillante, ma dentro è in realtà di piombo. La foggia della cappa esprime il peso della colpa di questi peccatori, inoltre come essi in vita, mostra una bella finzione all'esterno per nascondere la miseria interiore. L'ipocrita ha due facce, bada più all'opinione che gli altri hanno di lui che alla sua stessa essenza, quindi nasconde il proprio squallore morale per mostrare uno splendore finto. La taglia delle cappe è la stessa che usavano i monaci del monastero di Cluny, uno degli ordini monastici più influenti del tempo, queste inoltre sono così pesanti da far sembrare paglia quelle che l'imperatore Federico II costringeva a indossare ai colpevoli di tradimento. Dante e Virgilio iniziano a seguire la processione, ma gli ipocriti procedono pianissimo a causa del peso che portano, quindi si trovano a ogni passo accanto a nuovi dannati. Il poeta chiede alla guida di trovare qualcuno il cui nome o le cui gesta siano conosciute. Un dannato, forse attratto dalla parlata toscana del poeta, gli chiede di fermarsi e aspettarlo, e promette che forse gli darà più di quanto chiede, cioè gli darà più informazioni di quelle che vuole. Virgilio dice quindi all'allievo di attendere che l'ipocrita si avvicini e poi procedere seguendo il suo passo. Dante intanto vede due dannati particolarmente bramosi di raggiungerlo, impediti però dalla gran processione che transita in quello spazio stretto. Non appena gli sono vicino, i due notano che è ancora vivo e si chiedono perché a lui e al maestro sia concesso di non portare la cappa di piombo, infine gli chiedono chi sia. Dante risponde di essere toscano e conferma di essere ancora in vita ("I' fui nato e cresciuto / sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, / e son col corpo ch'i' ho sempre avuto"), poi chiede loro chi siano e cosa provochi in loro un dolore così forte da palesarsi sui volti in modo tanto evidente. Uno dei due spiega che a farli soffrire tanto è il peso della cappa, poi dice di chiamarsi Catalano e il suo amico è Loderingo, due appartenenti all'ordine cavalleresco francese dei frati gaudenti. I due, uno di famiglia guelfa e l'altro di origine ghibellina, furono chiamati a reggere insieme Firenze al posto di un singolo podestà dopo la battaglia di Montaperti, allo scopo di mantenere la pace. Sentito chi sono, Dante inizia un'invettiva che però lascia in sospeso, attratto da una nuova visione. La tradizione fiorentina, evidentemente accolta dall'autore della Commedia, attribuì ai due frati la responsabilità di un triste periodo di violenze, essi infatti favorirono la politica di Clemente IV, forse corrotti dai guelfi. Nell'opera Dante si lascia sfuggire solo "O frati, i vostri mali..." e poi si interrompe perché vede altro, ma probabilmente in questa invettiva sospesa c'è la volontà di sottolineare appunto l'enormità del peccato compiuto dai due. Come quando si hanno così tante cose da dire da non riuscire neanche a iniziare, così il poeta si ferma e lascia il pensiero in sospeso. L'immagine che comunica alla nostra mente è quello di un uomo furioso, che davanti ha i responsabili dei mali e della miseria politica della terra che ama. 
A interrompere l'invettiva di Dante è una visione, c'è un uomo crocifisso a terra con tre pali. Il dannato, non appena si accorge del poeta, si contorce e sospira. Catalano se ne accorge e spiega che il crocifisso è Caifa, il sommo sacerdote che dichiarò Gesù un bestemmiatore nel momento in cui si dichiarò Figlio di Dio. Egli è nudo e crocifisso di traverso, così da essere d'inciampo a tutti gli ipocriti ed essere da loro calpestato. La sua stessa pena è patita dal suocero Anna e da tutti gli altri membri del Sinedrio, che condannarono a morte Gesù e furono causa della distruzione di Gerusalemme. La collocazione di Caifa e del Sinedrio in questa bolgia, nonostante la pena particolare dovuta al peccato commesso contro il Figlio di Dio, si spiega probabilmente con l'atteggiamento molto morbido che ebbero nei confronti degli occupanti Romani pur di mantenere le proprie cariche. Nel vedere Caifa crocifisso a terra, Virgilio si stupisce. Se ricordate, Virgilio nel canto IX ha detto di aver già percorso l'Inferno, spinto dalla maga Eritone a trarre l'anima di un traditore dalla Giudecca, quindi per la bolgia dovrebbe essere già passato. Seppur inventato da Dante, l'episodio è ispirato alla Pharsalia di Lucano, dove è narrato che un morto tornò in vita per rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo. L'episodio, essendo riferito alle vicende di Pompeo, è antecedente alla nascita di Gesù Cristo, quindi Virgilio non poteva aver visto Caifa in quelle condizioni, perché ai tempi della sua precedente discesa ancora non c'era. Nella descrizione che Catalano fa di Caifa, si legge una certa soddisfazione. Evidentemente il frate gaudente trova consolazione nel vedere che qualcuno patisca una pena peggiore della sua, oppure essendo un frate non può non trovare soddisfazione nel vedere così tormentato uno dei responsabili della morte di Gesù. Essendo però il frate un peccatore, un ipocrita, è probabile che l'autore abbia voluto sottolinearne lo squallore morale piuttosto che donargli un tratto di nobile cristianità. 
Virgilio chiede a frate Catalano se nelle vicinanze c'è un'uscita dalla bolgia che loro possano sfruttare senza dover ricorrere all'aiuto degli angeli neri (che in caso di difficoltà avrebbero l'obbligo di soccorrerli, ma si sono rivelati poco affidabili). Il frate gli spiega che vicino c'è uno degli scogli che permette l'attraversamento della bolgia, ma nel tratto dove si trovano adesso il ponte è rotto a causa del terremoto che si generò quando morì Gesù, i due devono quindi risalire sull'argine arrampicandosi sul mucchio di rovine. Virgilio capisce che Malacoda ha mentito, gli tocca poi sorbirsi anche la lezioncina quasi fanciullesca di Catalano: "<< Io udi' già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ' quali udi' / ch'elli è bugiardo e padre di menzogna >>". Questo è un momento comico dell'opera, dove vediamo un uomo politico di alto spessore, ex podestà di Firenze, recitare come uno scolaretto quello che sembra quasi il motto di un ragazzino, e subito dopo Virgilio andar via "a gran passi". Dante pone in contrasto il tono stupido o canzonatorio del frate gaudente con la rabbia di Virgilio, al quale tocca sentirsi dare lezioni da bambino subito dopo aver subito la beffa di Malacoda. Il canto si chiude con Virgilio che si incammina nervoso, seguito da Dante.   

Francesco Abate

domenica 8 aprile 2018

RECENSIONE DE "LE INTERMITTENZE DELLA MORTE" DI JOSE' SARAMAGO

Immaginare un mondo senza la morte ci porta sempre a evocare situazioni positive. La morte spaventa tutti e, chi in un modo e chi in un altro, tutti ambiamo all'eternità. La questione non è però così semplice. 

José Saramago, come nella maggior parte delle sue opere, parte creando una situazione inverosimile e la sviluppa in un romanzo. Ne Le Intermittenze della Morte, Saramago ci descrive le vicende di un paese immaginario dove d'improvviso la morte, volutamente indicata con la minuscola perché differente dalla Morte assoluta, la fine di tutte le cose, cessa di compiere la sua opera.
La trama è riassumibile in poche righe. D'improvviso la morte cessa di fare il suo lavoro, per ben sette mesi in un paese immaginario non muore nessuno. Passati i sette mesi, la morte annuncia con una lettera che tornerà a svolgere il proprio compito, solo che a differenza del passato non colpirà più d'improvviso, ognuno riceverà un avviso otto giorni prima e avrà il tempo di prepararsi come meglio crede. La lettera destinata a un violoncellista però viene rispedita al mittente e la morte è costretta a intervenire di persona per ovviare all'inconveniente, ma la situazione porta a un finale imprevisto.
Benché la trama sia semplice, nel romanzo non mancano i contenuti. L'opera si può dividere in due parti: la prima tratta del periodo in cui la morte smette di lavorare, la seconda invece dell'inconveniente del violoncellista a cui non arriva mai la lettera. 
Nella prima parte l'autore descrive il caos che regnerebbe in un mondo senza la morte. Come dicevo all'inizio, a tutti piace immaginare un mondo senza la morte, eppure Saramago ci mostra una realtà tutt'altro che piacevole. Senza i decessi, diverse categorie professionali (pompe funebri, assicurazioni sulla vita, case di riposo) vanno in crisi, così come si inceppano sistema sanitario e previdenziale. Anche le vite subiscono un cambiamento in peggio, infatti numerose famiglie si trovano ad accudire per l'eternità anziani malati che non muoiono mai. A livello socio-economico sarebbe un disastro, ma verrebbe fuori anche il peggio che c'è nell'animo delle persone. Saramago ci mostra infatti come a un certo punto i vecchi moribondi immortali diventino un peso per i sani, tanto da creare un flusso di viaggi della morte verso i paesi confinanti. Insomma, l'autore ci mostra come l'essere umano sia inadeguato all'eternità e come questa tirerebbe fuori solo il peggio di noi. C'è poi spazio nella prima parte del romanzo anche per una critica alla politica e alla chiesa cattolica. I politici nel romanzo sono mostrati come personaggi cinici, concentrati solo sulla tenuta delle istituzioni e incuranti della componente umana che sta dietro i numeri che gestiscono, non esitano a sfruttare l'operato illegale della maphia (nel romanzo la criminalità organizzata è chiamata così) pur di evitare il collasso delle istituzioni. Per quanto riguarda la chiesa, una volta che vede messo in discussione il suo valore, perché senza morte non c'è Resurrezione, smette di concentrarsi sulla ricerca della verità spirituale e prova solo a costruire tesi che possano interpretare la realtà in modo da garantirle la sopravvivenza.  
La seconda parte invece si concentra sulla storia della morte e del violoncellista a cui non arriva mai la lettera. Attraverso la storia del violoncellista, Saramago ci mostra come non bisogni rinunciare a godersi la propria vita. Non ci fosse stato l'inghippo, questo personaggio sarebbe morto senza di fatto aver mai vissuto. Questa vicenda però, con il suo finale particolare, ci mostra anche il potere dell'arte, unico mezzo in grado di esorcizzare la morte.

La scrittura di Saramago è particolare: ricca di incisi, con i dialoghi incorporati nel testo e il narratore che cambia continuamente punto di vista. I suoi romanzi non si possono leggere con troppa leggerezza, risulterebbero incomprensibili, ma allo stesso tempo mantengono una godibilità e una scorrevolezza che non rendono mai pesante la lettura. 
Punto di forza dell'autore in generale e di questo romanzo nello specifico, nonostante il tema triste che tratta, è l'ironia. Le situazioni descritte sono inverosimili già così come sono pensate, provate a immaginare la morte che spulcia uno schedario o che scrive lettere, ma il modo in cui l'autore le racconta e i commenti che lascia in abbondanza riescono a non far mai scivolare nella tragicità un romanzo che tratta della morte. 
La storia è godibile e divertente, ma lascia un messaggio impresso a fuoco nella mente: non perdiamoci dietro l'eternità e l'infinito, concetti troppo al di fuori della nostra portata, piuttosto concentriamoci sulla nostra breve esistenza.

Francesco Abate

sabato 7 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Io già vidi i cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Il canto XXII si apre con una constatazione di Dante, che riprende così il tono grottesco del canto XXI. Il poeta ricorda di aver visto i cavalieri muoversi per combattere, per attaccare o per fuggire, fa anche riferimento all'assedio di Arezzo, e ha visto i tornei e le giostre. Ricorda di aver visto i cavalieri muoversi ai più disparati suoni (tamburi, campane, trombe, ecc.), ma mai ricorda di aver sentito un esercito muoversi al suono di un peto. Chiaramente il poeta traccia un parallelo tra gli eserciti e quel manipolo di demoni che lo accompagnano nel suo cammino lungo la quinta bolgia. Per sottolineare la situazione, Dante ricorre a un vecchio proverbio toscano ("ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni") che spiega come si abbia a che fare sempre con la gente appropriata al luogo in cui ci si trova, quindi nell'Inferno non ci si deve sorprendere di avere a che fare con dei diavoli crudeli e maleducati. 
Il poeta concentra la sua attenzione sulla pece bollente che copre il fondo della bolgia, da essa emergono le schiene dei barattieri in cerca di un momento di tregua e, per rendere al meglio l'immagine, Dante le paragona ai dorsi dei delfini che sbucano dal mare. Nei suoi versi l'autore fa riferimento a un'antica credenza secondo la quale i delfini si avvicinavano ai marinai per avvisarli delle tempeste imminenti ("Come i delfini, quando fanno segno / 'a marinar con l'arco de la schiena / che s'argomentin di campar lor legno, / talor così, ad alleggiar la pena, / mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso / e nascondea in men che non balena"). Il poeta li paragona anche alle rane, le quali tengono il corpo immerso nello stagno e cacciano fuori dall'acqua solo il muso. La scelta di questi paragoni con animali conferma la scarsa considerazione che il poeta aveva per i barattieri. Dante vede i dannati tirar fuori per un attimo di refrigerio la schiena o la testa, per poi immergersi subito all'arrivo di Barbariccia. D'un tratto uno dei dannati non riesce a ritrarsi in tempo nella pece, così Graffiacane gli infila l'uncino tra i capelli sporchi di pece ("li arruncigliò le 'mpegolate chiome") e lo tira su. Nella descrizione del dannato in balìa dei demoni, non si manifesta compassione nei versi di Dante, il quale lo paragona a una lontra, continuando i paragoni col regno animale finalizzati a esaltare la bestialità di quei peccatori. I demoni si rivolgono a Rubicante e lo invitano a scuoiare il malcapitato, Dante è però curioso di sapere chi egli sia e manifesta alla guida tale curiosità. Virgilio si rivolge direttamente al dannato e gli gira la domanda di Dante. Il malcapitato racconta che nacque nel regno di Navarra, figlio "d'un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose" e fu messo a servire un signore dalla madre. Entrò nelle grazie del re Tebaldo al punto tale che poté dispensare grazie e benefici, lui ne approfittò e cominciò a elargirli in cambio di denaro. Nonostante nel testo il suo nome non sia mai riportato, i critici lo hanno riconosciuto come Ciampolo di Navarra. Le parole di Ciampolo sono interrotte da Ciriatto, il demone dalla cui bocca escono zanne simili a quelle di un porco, il quale lacera le carni del povero dannato proprio con una delle zanne. "Tra male gatte era venuto 'l sorco", Dante constata la drammaticità della situazione del dannato, ma lo fa ancora in tono sprezzante, paragonandolo a un topo capitato tra le grinfie dei gatti. Onde evitare che parta lo strazio di Ciampolo prima che i viaggiatori abbiano chiesto tutto, Barbariccia lo prende tra le braccia, ordina ai diavoli di stare lontani e incita Virgilio a domandare ancora ("E al maestro mio volse la faccia; / << Domanda >>, disse, << ancor, se più disii / saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia >>"). La guida gli chiede se tra i dannati conosca altri italiani. Ciampolo risponde di essersi separato da un dannato vissuto nelle vicinanze dell'Italia ("che fu di là vicino"), intendendo un sardo, inizia però nella sua descrizione a dilungarsi con l'intento di guadagnare tempo, infatti allunga il discorso dicendo che se fosse ancora immerso nella pece con lui, non temerebbe gli uncini dei diavoli. Libicocco intuisce che Ciampolo stia prendendo tempo per ritardare la pena, esclama di aver aspettato troppo e gli colpisce il braccio con l'uncino, strappandogli "un lacerto", cioè un pezzo di carne. Draghignazzo invece lo colpisce alle gambe, ma lo scempio è fermato dallo sguardo minaccioso loro rivolto da Barbariccia. Finito l'assalto dei diavoli, Virgilio chiede a Ciampolo chi sia il dannato di cui stava parlando. Ciampolo spiega che si tratta di frate Gomita, vicario di Nino Visconti (che resse il giudicato di Gallura dal 1275 al 1296), il quale violò gli ordini del suo signore e fece liberare dei prigionieri pisani in cambio di denaro, finendo per questo impiccato. Ciampolo dice di lui che fu sovrano dei barattieri ("barattier fu non picciol, ma sovrano"), poi indica come presente nella pece anche Michel Zanche di Longodoro, personaggio di cui non si hanno notizie precise. Il dannato sottolinea il fatto che i due compagni di pena siano sardi, quasi come se si compiacesse che non siano della sua stessa zona ("e a dir di Sardigna / le lingue lor non si sentono stanche"). 
La scarsa stima che Dante ha dei barattieri si manifesta non solo nel continuo paragonarli ad animali, ma anche nel ritenerli capaci di ingannare perfino di diavoli. Ciampolo conclude il suo discorso con una proposta, ha intuito che Dante e Virgilio sono rispettivamente toscano e lombardo, quindi dice loro che può far uscire dalla pece ben altri sette dannati. Il suo intento è quello di stuzzicare la curiosità dei pellegrini e far leva sulla voglia dei Malebranche di fare del male, propone quindi uno scambio per loro vantaggioso: averne otto invece che uno solo. Ciampolo sostiene che, fischiando, farà uscire i dannati perché quello è il segnale che hanno per avvisare quando non ci sono demoni nei paraggi. Giustamente però i diavoli devono stare un po' distanti, altrimenti i dannati si spaventano e non escono allo scoperto. Cagnazzo subito capisce che è una trappola, ma il dannato "avea lacciuoli a gran divizia", cioè era pieno di idee per ingannare. Ciampolo dichiara che non sarebbe astuto da parte sua procurare ai compagni un tormento più atroce di quello che già subiscono. Alchino a questo punto si lascia ingannare, accecato dalla superbia è sicuro che volando lo raggiungerà qualora dovesse tentare la fuga, quindi accetta di lasciarlo avvicinare alla pece e di stare un po' distante. Mentre i Malebranche sono distratti, Ciampolo si libera dalla presa di Barbariccia e si tuffa nella pece. Alchino vola nel tentativo di prenderlo e già canta vittoria, ma la paura rende il dannato più lesto delle ali del diavolo, così Ciampolo fugge al supplizio. La furbizia del barattiere scatena un putiferio. Calcabrina, che aspettava solo una scusa, attacca Alchino in volo e comincia ad azzuffarsi con lui ("Irato Calcabrina de la buffa, / volando dietro li tenne, invaghito / che quei campasse per aver la zuffa; / e come 'l barattier fu disparito, / così volse li artigli al suo compagno"). I due diavoli, presi dalla zuffa, cadono nella pece bollente e non riescono più a risalire perché le ali si invischiano di pece. Barbariccia allora lancia quattro demoni sull'altra riva della bolgia, tutti e otto scendono poi da ambo i lati e, tendendo gli uncini, aiutano Alchino e Calcabrina a uscire dalla pece. 
Mentre si svolge la zuffa tra i Malebranche, Dante e Virgilio si allontanano.

Francesco Abate

domenica 1 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedia cantar non cura,
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando
restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Il canto inizia con Dante e Virgilio che camminano parlando di cose non citate nell'opera e si trovano a vedere la quinta bolgia, la quale appare "mirabilmente oscura" a causa della densa pece bollente che copre sia il fondo che le pareti de "l'altra fessura di Malebolge". Per rendere al lettore lo spettacolo che osserva, Dante paragona la visione della pece a quella che si poteva vedere nell'arsenale veneziano durante l'inverno, quando il liquido veniva usato per riparare le imbarcazioni o costruirne di nuove. Così come in inverno era possibile osservare a Venezia la pece che bolliva, così il poeta riesce a vederla sul fondo e sulle pareti della bolgia. Del liquido nero il poeta vede solo le bolle formate "non per foco ma per divin' arte" e la massa viscosa gonfiarsi per poi sgonfiarsi dopo lo scoppio delle bolle stesse. Mentre Dante è concentrato a guardare la bolgia, Virgilio lo mette in allarme gridandogli << Guarda, guarda! >> e tirandolo a sé. Spaventato ("come l'uom cui tarda / di veder quel che li convien fuggire / e cui paura subita sgagliarda"), il poeta guarda ciò che gli indica la guida. Ad attirare l'attenzione di Virgilio prima e Dante poi è un diavolo nero, che corre con le ali aperte e toccando appena il suolo con i piedi, il quale sulle spalle porta un peccatore. Il diavolo si rivolge ai suoi compari della bolgia, chiamandoli Malebranche, dicendogli di prendere il dannato che è "un de li anzian di Santa Zita", perché lui tornerà in città a prenderne altri. Il riferimento a santa Zita ci fa capire che il diavolo parla di Lucca, città che definisce piena di barattieri. Per la creatura infernale ogni uomo a Lucca è barattiere, sarcasticamente esclude dalla categoria il solo Bonturo Dati, che invece era tale per antonomasia. Fatto il suo discorso, il diavolo getta il dannato nella bolgia e questi, finito immerso nella pece, viene assalito dagli altri diavoli che stavano nascosti sotto al ponte. I Malebranche gli dicono che lì non è possibile adorare il Santo Volto (figura del Redentore confitta nella croce, venerata nella Basilica di San Martino a Lucca) e che non si nuota nel Serchio (fiume che scorre presso Lucca), infine gli ordinano di restare immerso nella pece se non vuole essere colpito dagli uncini con cui tormentano i barattieri. I diavoli lo assalgono con gli uncini e si fanno beffe di lui, dicendogli che gli conviene restare immerso e, se riesce, arraffare di nascosto come faceva in vita ("Poi l'addentar con più di cento raffi, / disser: <<Coverto convien che qui balli, / sì che, se puoi, nascosamente accaffi >>."). Il poeta descrive poi il modo in cui i diavoli tengono immersi i dannati nella pece, paragonandoli agli aiutanti dei cuochi che con gli uncini tengono la carne immersa nella caldaia a bollire.
La crudeltà della punizione e le parole per niente pietose con cui Dante parla dei barattieri impone una spiegazione. I barattieri sono quelli che noi oggi chiameremmo corrotti, cioè persone che ricoprono una carica pubblica e concedono favori in cambio di denaro o altro. La questione per il poeta fu molto sentita, egli infatti fu politico di primo piano e il suo impegno lo pagò a caro prezzo, non poteva certo vedere di buon occhio chi faceva commercio dei propri poteri. Di baratteria inoltre fu accusato lui stesso dai suoi rivali politici, accusa che gli valse una multa di 5000 fiorini e due anni di esilio. La sua vicenda politica spiega anche il suo astio nei confronti di Lucca, città ostile nei confronti degli esuli guelfi di parte bianca come lui.
Virgilio invita Dante a nascondersi dietro una sporgenza della roccia affinché non lo vedano, lui vuole andare a parlare coi diavoli, lo invita a non spaventarsi "per nulla offension che mi sia fatta" perché sa già cosa l'aspetta, già in passato ha concluso lo stesso negozio. Dante si nasconde e Virgilio varca il ponte. Subito i diavoli volgono contro la guida i loro uncini ma lui, con "sicura fronte", dice loro di fermarsi e non colpirlo, chiede di essere ascoltato da uno di loro e poi decidano insieme se attaccarlo. I diavoli all'unanimità invocano Malacoda, questi si fa avanti chiedendo a cosa possa giovargli questo favore, sicuro che finirà per colpirlo. Virgilio fa presente a Malacoda che mai sarebbe giunto lì, sapendo cosa rischiava, se non fosse stato mandato da un volere superiore, gli dice quindi che in Paradiso è voluto che lui mostri a un'altra persona "questo cammin silvestro". Malacoda reagisce con rassegnazione, si fa cadere l'uncino ai piedi e ordina agli altri diavoli di non colpirlo. Virgilio allora chiama a sé Dante, questo esce dal suo nascondiglio e i diavoli gli si avvicinano minacciosi, facendogli temere che vogliano violare l'accordo. Il proprio timore Dante lo paragona a quello dei fanti pisani che, cacciati dal castello di Caprona dopo otto giorni di assedio (1289), uscirono in mezzo ai nemici armati, che li schermivano e li minacciavano. Spaventato, il poeta si avvicina a Virgilio fin quasi a toccarlo, mostrandoci ancora una volta un'immagine simile a quella del bimbo impaurito che si aggrappa alla mamma, mentre la guida non perde d'occhio Malacoda, il cui aspetto non è rassicurante. Due diavoli scherniscono Dante, uno chiede se deve colpirlo alla schiena e un altro lo incita a farlo, il loro gioco è però interrotto da Malacoda che ordina a Scarmiglione di posare l'uncino. Malacoda si rivolge poi a Virgilio e gli dice che non possono proseguire per questo scoglio, dato che è franato 1266 anni prima (alla morte di Gesù Cristo sulla croce), possono però camminare lungo l'argine e troveranno un altro scoglio che farà da ponte, infine dice che manderà con loro alcuni suoi diavoli affinché controllino che i dannati non emergano dalla pece per trovare un momentaneo refrigerio. Il diavolo conclude assicurando che i suoi compari non faranno del male ai due pellegrini. Ciò detto, Malacoda fa l'elenco dei diavoli chiamati a far parte della scorta: Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia (che guida gli altri), Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante. Riguardo i nomi dei diavoli, non tutta la critica è d'accordo nel vedere in essi riferimenti precisi a personaggi esistenti, alcuni comunque sembrerebbero appartenere a famiglie lucchesi (Cagnazzo, Graffiacane e Scarmiglione erano famiglie di Lucca, così come Malebranche era un cognome di famiglia lucchese) altri sembrano storpiature e soprannomi. Malacoda ordina ai suoi di portare Dante e Virgilio dall'altra parte della bolgia sani e salvi, ma l'atteggiamento dei diavoli ("digrignan li denti / e con le ciglia ne minaccian duoli") non convince il poeta che chiede alla guida di procedere solo loro due. Virgilio lo rassicura, secondo lui quei gesti sono di scherno nei confronti dei barattieri immersi nella pece e non teme alcun inganno. I poeti e la scorta partono, il momento della partenza è però molto curioso: i diavoli si rivolgono a Malacoda mostrandogli la lingua stretta tra i denti e questi dà loro il segnale di partenza con un sonoro peto. Il finale di canto, insolitamente grottesco, merita di essere letto:
"Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta".

Francesco Abate