martedì 23 aprile 2024

QUI, DOVE IRATO A GLI ANNI TUOI NOVELLI DI GIOSUE CARDUCCI

 

Qui, dove irato a gli anni tuoi novelli
sedesti a ragionar co 'l tuo dolore,
veggo a' tepidi sol questi arboscelli,
che tu vedevi, rilevarsi in fiore.

Tu non ti levi, o fratel mio. D'amore
cantan su la tua fossa erma gli uccelli:
tu amor non senti; e di sereno ardore
più non scintilleran gli occhi tuoi belli.

Ed in festa venir qui ti vid'io
oggi fa l'anno; e dire anco mi sona
e ancor m'arride il tuo sorriso pio.

Come quel giorno, il borgo oggi risona
e si rallegra del risorto iddio,
ma terra copre tua gentil persona.

"Qui, dove irato a gli anni tuoi novelli" è un sonetto scritto da Giosue Carducci il giorno di Pasqua 1858 e dedicato al fratello Dante, morto suicida il 4 novembre 1857.
Questo sonetto fu pubblicato in diverse raccolte con titoli differenti, infine inserito nella raccolta Juvenilia nel 1880.

Carducci vede il luogo dove il fratello sedeva a meditare sul proprio dolore. Dante si uccise "per noia della vita", come scrive lo stesso poeta nella lettera a Ottaviano Targioni Tozzetti il 10 novembre 1857.
Nella mente del poeta il gesto del fratello si veste di un'aura d'eroismo. Nella lettera a Tozzetti racconta come Dante, agonizzante, mormorò poche parole ai genitori, e osserva come "avea trovato la pace nell'agonia dove i vigliacchi che chiamano vigliacco il suicida trovano paura e terrori e dolori e rabbia di lasciar la vita. Oh, oh, il fratello mio morì come un santo eroe di Grecia...".
Nel sonetto dell'eroismo ci sono diverse tracce. Una è visibile quando Carducci ricorda del fratello il sorriso pio, benché in quel luogo stesse meditando sui propri dolori; Dante inoltre è arrabbiato, non disperato: è una figura fiera, degna appunto di un eroe greco.
Il sonetto è dominato dal contrasto tra la natura primaverile che si risveglia, la resurrezione rappresentata dal giorno di Pasqua e l'irreversibilità della morte di Dante. Il poeta vede gli alberelli rifiorire, rilevarsi mentre il fratello sedeva ed ora non può alzarsi; sulla sua tomba cantano gli uccelli, ma lui amore non ne sente; infine il borgo risona e si rallegra di Cristo risorto, ma terra copre la tua gentil persona. La natura torna a vivere, si celebra il ritorno alla vita di Gesù, ma Dante Carducci resta morto: in questa immagine palpita vivo il dolore provato dal poeta.

Francesco Abate

venerdì 12 aprile 2024

DORMONO GLI OPERAI (AI CADUTI SUL LAVORO)

 

Riposano gli operai
dopo la giornata di lavoro;
dormono
sotto la terra fredda.
Nessun capo gli urla addosso
nella casa dove sono ospitati;
dormono
sotto i sogni infranti.
Nessun peso gli spezza le ossa
nella gita in cui sono impegnati;
dormono
nell'Inferno dei deboli.

Piangono gli operai
sui corpi che hanno perduto;
dormono
nelle lacrime delle mogli.
Nessuna mano fu tesa per loro
quando caddero dall'impalcatura;
dormono
sotto il peso del tradimento.
Nessun generale corse in loro difesa
nella guerra da cui furono travolti;
dormono
nel mare dell'indifferenza.

L'amore
poteva salvarli!
L'amore
poteva valere più dei soldi!

Dormono
e urlano in silenzio
il crimine del mondo.


In memoria dei caduti di Suviana e di tutte le vittime del capitalismo. Se non cambiamo il sistema, ci divorerà tutti.

Francesco Abate

giovedì 4 aprile 2024

CONGO

 

Corri bimbo
che il buio fa meno paura della luce!
Questa esortazione chiude due delle tre strofe della poesia Congo, contenuta nella raccolta Inferno.
In questa poesia parlo ad uno dei 40.000 bambini (dati Unicef 2014) costretti a lavorare nelle miniere di cobalto, sfruttati per più di dodici ore al giorno e picchiati dalle guardie di sicurezza. Di loro si parla poco, infatti servono per estrarre il cobalto necessario ai tanti dispositivi elettronici che usiamo, quindi anche l'occidente sceglie da anni di guardare da un'altra parte.
Mentre un bambino che nasce in Italia a cinque anni già può giocare con smartphone e tablet, un bambino congolese a quell'età lavora dodici ore al giorno in miniera per estrarre il cobalto necessario a far giocare il bambino italiano. Non c'è merito, è questione di fortuna: se nasci in Congo, la speranza di un'infanzia spensierata è un lusso che non ti puoi permettere.
Nella poesia mi rivolgo proprio ad uno di questi bambini, un "bimbo dal respiro affannoso" viste le polveri e l'aria malsana che è costretto a respirare, un "bimbo dalla faccia impolverata" e "spogliato dei sogni". Lui deve lavorare perché "alla mia vuota vita serve cibo, / e i finti amici voglio chiamare / o sentirò l'eco della mia vacuità".
La poesia si conclude con questa strofa:
"Corri bimbo spogliato dei sogni;
valli a cercare nella miniera,
sotto la polvere ne giacciono tanti
fuggiti dagli occhi di angeli morti.
Corri bimbo
che la tomba fa meno paura della vita!"


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Grazie e buona lettura.

Francesco Abate


lunedì 1 aprile 2024

IL CASO OLIVETTI SPIEGATO DA MERYLE SECREST

 

La figura dell'imprenditore Adriano Olivetti esercita ancora oggi un intenso fascino e le ipotesi di complotto dietro la sua prematura fine man mano che passa il tempo sembrano prendere ancora più slancio. Della storia di Olivetti e dei dubbi intorno alla fine della sua azienda ci parla la biografa americana Meryle Secrest in un saggio del 2022 dal titolo "Il caso Olivetti. La IBM, la CIA, la Guerra fredda e la misteriosa fine del primo personal computer della storia".

Tutta la vicenda raccontata dalla Secrest ruota intorno ad Adriano Olivetti, figura illuminata che ricoprì un ruolo da protagonista nell'Italia del secondo dopoguerra. Olivetti guidò l'azienda ereditata dal padre Camillo e la mutò profondamente inserendo al suo interno persone in grado di innovarla sia dal punto di vista tecnico che da quello urbanistico, infatti nel 2018 il complesso Olivetti di Ivrea è stato riconosciuto dall'Unesco come Patrimonio Mondiale.
Adriano Olivetti introdusse nell'azienda di famiglia anche una nuova mentalità industriale, non orientata solo al profitto ma anche alla felicità dei dipendenti. Negli stabilimenti Olivetti l'estetica degli ambienti era studiata per essere gradevole, non alienante, e non mancavano ambienti come biblioteche o sale ricreative.
L'azione di Adriano Olivetti nasceva da una mentalità innovatrice che l'imprenditore provò ad estendere a tutta l'Italia. Fondò infatti il movimento Comunità, col quale si candidò anche alle elezioni, venendo eletto deputato ma non ottenendo di fatto un grande successo politico, forse - così ipotizza la Secrest - anche a causa di una diffidenza nata dalla somiglianza del nome "Comunità" a quello del comunismo. 
Il fascino della figura di Adriano Olivetti resiste ed è rafforzato anche dai dubbi che permangono sulla sua prematura scomparsa. Nel 1960 l'imprenditore morì improvvisamente su un treno per, così fu dichiarato, un'ischemia cerebrale. I dubbi sulla sua morte nascono dal fatto che non fu mai eseguita un'autopsia, dando l'idea di una certa frettolosità nell'archiviare il caso, che anni dopo si sarebbe scoperta un'indagine della CIA sull'imprenditore, e dal fatto che il giorno del funerale il suo ufficio fu trovato a soqquadro, come se qualcuno fosse entrato alla ricerca di qualcosa.
Alla morte di Olivetti seguì poco tempo dopo quella dell'ingegnere Mario Tchou, che morì in un incidente stradale dalla dinamica alquanto dubbia. L'ingegnere Tchou fu il padre del Progetto ELEA, che portò la Olivetti a produrre il primo personal computer e la pose in posizione di grande vantaggio nel mercato degli strumenti elettronici di calcolo. Dopo la morte di Adriano Olivetti e Mario Tchou, il Progetto ELEA fu abbandonato e la divisione elettrica dell'Olivetti venduta all'americana General Electric, ponendo fine alle fortune dell'Olivetti e aprendo la strada all'egemonia americana nel campo dell'elettronica.
La frettolosità con cui fu venduta la divisione elettrica dell'Olivetti nonostante avesse prodotto qualcosa di fantastico come il primo pc della storia, il valore strategico che ha l'informatica viste le sue ampie applicazioni nel settore militare, le misteriose circostanze della morte di Olivetti e Tchou, portano alla nascita di tante domande e tanti sospetti che la Secrest riprende e collega ai fatti. Purtroppo rispose nel libro non possono essercene, anche perché casi tanto spinosi non si dipanano nemmeno con la desecretazione degli archivi, quindi questa lettura lascia tante domande e genera molte inquietudini, mostrando le continue intrusioni delle superpotenze nella vita politica e industriale italiana.
Il saggio ha come unico difetto il modo un po' americano della Secrest di costruire la biografia; nel tentativo di farci innamorare dei protagonisti l'autrice si perde in descrizioni molto romanzate dei personaggi che poco si confanno ad un libro che parla di persone reali, inoltre dedica mari di parole alla descrizione di particolari che nell'economia del libro mi sembrano insignificanti.

Francesco Abate

mercoledì 27 marzo 2024

UNO SGUARDO INDIETRO...

 



Negli ultimi sette mesi per Inferno sono arrivati il 2° posto al Premio Letterario Città di Siena, la Menzione d'onore della Giuria al Premio Nabokov e la finale del Contropremio Carver. Riconoscimenti che mi hanno dato la possibilità di visitare tre città meravigliose (Siena, Lecce e Lucca) e conoscere persone bellissime che con me condividono l'amore per la scrittura e la lettura, dandomi la possibilità di un confronto piacevole e costruttivo che non dimenticherò mai.
Adesso che il turbine di emozioni si è calmato, posso dare uno sguardo indietro e fare qualche valutazione.
Io amo scrivere, lo faccio da sempre e continuerò a farlo finché avrò vita, perché fa parte di me e semplicemente non esiste Francesco Abate senza la scrittura. I riconoscimenti ricevuti in questi ultimi mesi non fanno che aumentare il vigore della mia già forte voglia di scrivere, quindi sono grato alle giurie che hanno apprezzato la mia opera e l'hanno ritenuta idonea di premi o menzioni.
Le cerimonie non sono state però solo delle occasioni per accrescere la mia autostima; ho avuto la fortuna di conoscere tante belle persone con cui condividere idee e sensazioni, un incontro che non solo mi ha regalato serate piacevoli ma che di sicuro si muterà una crescita interiore, grazie anche alla lettura di tanti nuovi libri che ho avuto modo di conoscere.
Idee e condivisione, non è forse questa l'essenza della cultura?

Adesso che ho dedicato qualche minuto ad un doveroso sguardo sulla strada percorsa (perché va bene guardare avanti e procedere, ma ogni tanto bisogna fermarsi a guardare il panorama), posso riprendere con entusiasmo e gioia quello che non ho mai smesso di fare: divertirmi scrivendo.

Grazie a tutti.

Francesco Abate

sabato 16 marzo 2024

RIFLESSIONI SUL GENOCIDIO

 

Hanno fatto molto discutere nei giorni scorsi le parole di Liliana Segre. La senatrice a vita ha contestato l'utilizzo a suo modo di vedere improprio del termine "genocidio", evidenziando come questo oggi venga usato per designare qualsiasi situazione e lasciando quindi intendere che per lei non è adatto a descrivere quanto sta accadendo in questi mesi a Gaza.
Sulle parole della senatrice a vita occorre una riflessione, vista anche la delicata situazione a cui fanno riferimento. Il termine "genocidio" fu coniato dall'avvocato polacco Raphael Lemkin in riferimento a quanto subito dagli armeni ad opera dell'Impero ottomano. Anni dopo l'ONU si è preoccupata di definire in modo chiaro cosa rientra nella definizione di genocidio: <<gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.>>
Analizzando ciò che sta accadendo da ottobre nella striscia di Gaza, è facile dedurre come siamo in presenza di un genocidio a tutti gli effetti. I media parlano di guerra, ma non ci sono due eserciti a fronteggiarsi, c'è semplicemente una forza di invasione (Israele) che bombarda, massacra e perseguita in ogni modo inermi cittadini palestinesi. A Gaza ci sono ospedali bombardati, cittadini ridotti alla fame dall'assedio di un esercito ostile e trucidati mentre sono in fila per accaparrarsi gli aiuti necessari alla sopravvivenza.
Gli atti di Israele sono con ogni evidenza commessi con l'intenzione di distruggere il popolo palestinese quindi, benché la cosa dispiaccia alla senatrice Segre, a Gaza si sta compiendo un genocidio.

Dipanata la questione circa l'appropriatezza del termine "genocidio", occorre fare delle riflessioni sulle dichiarazioni della senatrice Liliana Segre e sul ruolo che ricopre.
L'evidente difficoltà che la senatrice ha mostrato sin dall'inizio a riconoscere come genocidio ciò che sta subendo il popolo palestinese (che, a dirla tutta, non è cominciato ad ottobre 2023 ma viene perpetrato dalla nascita dello Stato d'Israele, se non prima) potrebbe nascere dalla paura che i crimini di Israele sminuiscano la memoria dell'Olocausto, rinforzando un antisemitismo purtroppo mai sopito. Questa paura si potrebbe paragonare a quella che per anni ha spinto la sinistra italiana a non parlare apertamente del dramma delle foibe: si nasconde la gravità delle azioni commesse dai propri alleati temendo che possano macchiare la propria immagine. La storia ci ha però insegnato che è stata proprio la negazione di tali fenomeni a macchiare l'immagine della sinistra italiana, ed oggi assistiamo alla strumentalizzazione del dramma delle foibe operata dalle destre e favorita dall'opera di occultamento portata avanti per anni dalla sinistra. Questa lezione impone perciò una riflessione: è molto probabile che questa negazione a oltranza di un crimine palese e odioso dia forza all'ondata di odio contro gli ebrei, mentre prenderne atto pubblicamente porrebbe la parte moderata degli ebrei su un piano diverso da quello dei sionisti estremisti, liberando i primi dall'ombra del sospetto di odio anti-arabo.
Una riflessione occorre farla anche sul ruolo della senatrice Segre. L'incarico di senatrice a vita le fu conferito in virtù della sua qualità di sopravvissuta all'Olocausto, le fu affidato il compito di tenere viva la memoria degli italiani su uno dei periodi più bui della storia mondiale. Lo scopo della memoria è proprio quello di comprendere i fenomeni al fine di prevenirne il ritorno; se chi è depositario della memoria non si rivela in grado di riconoscere questi fenomeni quando si ripresentano, il suo ruolo è inutile. Occorre perciò chiedersi, e chiedere alla senatrice Segre, se questa sua difficoltà ad ammettere l'evidenza, cioè che a Gaza gli israeliani stanno perpetrando il genocidio del popolo palestinese, non la renda inadatta al ruolo che ricopre.

Francesco Abate

domenica 10 marzo 2024

SPIFFERI DI MALE

 

Spifferi di male è una poesia contenuta nella raccolta Inferno.
In questa poesia rievoco l'omicidio di Sabrina Beccalli, uccisa dal suo migliore amico che poi ne ha bruciato il corpo nel tentativo di nascondere il misfatto.
Questo terribile fatto di cronaca, che come sempre accade ha alzato a suo tempo il solito polverone mediatico salvo poi finire dimenticato, mi ha indotto a riflettere sul tradimento. Sabrina fu infatti uccisa dal suo migliore amico, una persona di cui si fidava ciecamente, alla quale si rivolgeva quando aveva bisogno di aiuto. 
Dante Alighieri, riprendendo Aristotele e san Tommaso D'Aquino, reputava il tradimento il peggiore dei peccati, perché compiuto con l'ausilio della ragione e con l'abuso della fiducia della vittima, per questo nella Divina Commedia ha collocato i traditori nel pozzo dei giganti, il punto più profondo dell'Inferno, in prossimità di Lucifero. Io non mi discosto molto da questa visione, giudico infatti il tradimento la cosa peggiore di cui sia capace l'essere umano, la più marcata negazione dell'umanità di cui ci si possa macchiare.
Proprio sul tradimento rifletto quando, alla fine della poesia, mi rivolgo all'assassino e gli chiedo:
"E tu, amico falso,
Lucifero vestito da Arcangelo,
come potevi guardarla in quegli occhi
che in te vedevano speranza
mentre le strappavi l'anima dal corpo?

E tu, uomo falso,
ammasso di carne senz'anima,
come potevi sorriderle e dirle "son qui"
mentre affilavi gli artigli
con cui le avresti straziato le carni?"

Ad eccezione delle ultime due strofe (quelle che ho citato) nel resto della poesia mi rivolgo alla stessa Sabrina, cercando di vedere dal suo punto di vista il tradimento subito. Ad esempio in questa strofa, la seconda, scrivo:
"In questo mondo di dolore e lacrime
hai cercato la cura
dentro un sorriso
ma quello del tuo amico era il ghigno
di un demonio
che ti ha bruciato la vita."

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Colgo l'occasione per segnalarvi che Inferno ha ricevuto la Menzione Speciale per la poesia edita al Premio Nabokov 2023, la cui finale si è svolta ieri al Teatro Comunale di Novoli (LE).
Sono felice di questo riconoscimento, che mi sprona a coltivare con maggior ardore la passione della scrittura.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

giovedì 29 febbraio 2024

LA STRADA DI CORMAC MCCARTHY

 

La strada è un romanzo post-apocalittico dello scrittore americano Cormac McCarthy pubblicato nel 2006. Nel 2009 ha ispirato l'omonimo film con Viggo Mortensen e Charlize Theron.
Nel romanzo viene raccontato il viaggio verso sud di un padre e un figlio, i quali si muovono dentro un paesaggio devastato fatto di alberi arsi e costruzioni distrutte.
Tutto in questo romanzo è indefinito: i protagonisti non hanno nome, non viene mai specificato qual è stata la catastrofe che ha ridotto il pianeta nel tizzone inospitale che è, e nemmeno si specifica in quale periodo dell'anno si svolge la narrazione. Il mondo narrato da McCarty è infatti un mondo distrutto, dove i nomi non servono, perché essi nascono come etichette per renderci distinguibili in una società che non c'è più. Nel mondo mccartyano non serve poi misurare il tempo, ogni giorno è infatti la stessa monotona lotta per la sopravvivenza, non ci sono eventi salienti da programmare o da ricordare. Il mondo in questo romanzo è completamente indefinito perché non esiste così come noi lo concepiamo; non è più il teatro dei nostri pensieri e delle nostre speranze, ma solo una landa in cui cercare cibo e non farsi ammazzare.
Gli uomini in La strada sono bestie in cerca della sopravvivenza, non ci sono ideali né scopi. Il padre vede nel proprio figlio una specie di divinità, sebbene questo non manifesti mai qualità degne di nota. Il piccolo è differente dagli altri esseri umani perché è l'unico legame che l'uomo ha con la vita passata, l'unico contatto con la moglie defunta e con un tipo d'amore, quello umano, che sembra essere sparito da quella bolgia infernale. Il piccolo poi è speciale perché ripone in sé ancora la speranza, ancora tende a distinguere il bene dal male, non cedendo così alla crudeltà del presente, ed è l'unico dei due che può cercare di vivere un futuro diverso.
Sebbene racconti una realtà all'apparenza tanto diversa, La strada è un romanzo che può benissimo essere usato per leggere la nostra attuale società, presentando un'estremizzazione di quanto già succede intorno a noi. L'uomo distrugge la natura (nell'immagine vedete alberi bruciati in Amazzonia, non la foto di un mondo distopico), che infatti nel romanzo è morta, e paga le conseguenze di questo comportamento scellerato con eventi naturali sempre più estremi, così come estrema è la natura nel libro. Nel romanzo ci sono poi i cannibali, che tengono prigionieri altri esseri umani per nutrirsene, così come oggi fanno i capitalisti, che imprigionano altri uomini in lavori degradanti e sottopagati per nutrirsene e accumulare altre ricchezze. Nel mondo popolato da ladri e cannibali, anche i buoni rischiano di cedere all'odio e comportarsi da malvagi, così come oggi in questo mondo cinico anche chi non lo è può cadere nella trappola e approfittare di qualcun altro a proprio vantaggio. Anche il finale del libro lancia un messaggio valido anche per la contemporaneità: in un mondo dove gli uomini sono disposti a distruggerne altri pur di avere un vantaggio, l'unica speranza consiste nel restare umani e non perdere la voglia di amare e condividere.

Francesco Abate

sabato 24 febbraio 2024

LA DEUMANIZZAZIONE SPIEGATA DA CHIARA VOLPATO

 

Nel 1550 Juan Ginés de Sepulveda descrisse gli indios del Nuovo Mondo come omuncoli privi di qualsiasi traccia di umanità, creati da Dio al solo fine di servire come schiavi i civilizzatori europei. Circa un paio di secoli dopo, George Washington giustificava il genocidio dei pellerossa paragonandoli a lupi da cacciare. In tempi molto più recenti, la propaganda nazista diffondeva vignette in cui gli ebrei venivano rappresentati come esseri deformi o veri e propri mostri. Oggi si imita il verso della scimmia per offendere le persone di colore.
Gli esempi che ho fatto sopra, benché distanti tra loro nel tempo e nello spazio, fanno parte tutti di un unico fenomeno, quello della deumanizzazione, di cui parla ampiamente la prof.ssa Chiara Volpato in un saggio del 2011 intitolato Deumanizzazione. Come si legittima la violenza.
Deumanizzare significa negare l'umanità dell'altro, singolo o gruppo, introducendo un'asimmetria tra chi gode delle qualità dell'umano, giudicate superiori, e chi ne è considerato privo o carente. Partendo dagli esempi storici citati sopra, occorre subito chiarire come la deumanizzazione non sia una conseguenza di fenomeni come la ghettizzazione, la persecuzione o la riduzione in schiavitù, ma ne sia causa o giustificazione; gli storici ritengono che la schiavizzazione dei neri africani in America precedette la diffusione del razzismo nei loro confronti, non la seguì. La deumanizzazione serve infatti ad escludere dei soggetti dalla razza umana, giustificando le nefandezze compiute nei loro confronti, è perciò funzionale agli interessi economici e politici dell'agente.
Leggendo il saggio della prof.ssa Volpato, si impara come esistano due tipi di deumanizzazione, una esplicita ed una sottile. La deumanizzazione esplicita si ha quando l'altro è accusato apertamente di essere carente o mancante di condizioni umane, quella sottile invece si insinua subdolamente nella nostra quotidiana percezione degli altri e ci convince che le emozioni unicamente umane siano proprie solo del nostro gruppo di appartenenza.
Nel saggio sono individuate cinque strategie di deumanizzazione esplicita: espulsione sociale (quando le vittime sono viste come violatrici di una o più norme sociali), caratterizzazione in tratti, uso di etichette politiche, confronto tra gruppi (si delegittima un gruppo facendo leva sulle differenze col gruppo cui appartiene l'agente), deumanizzazione (metafore o paragoni con animali, mezzi meccanici, virus e batteri, mostri, ecc.).
Per quanto concerne la deumanizzazione sottile, come esempio più comune possiamo richiamare l'ontologizzazione, cioè il fenomeno che ci porta a vedere più vicina al mondo animale che a quello umano una minoranza etnica non assimilata (non si denuncia apertamente la mancanza di umanità, ma a pelle si percepisce una differenza tra noi e loro).
C'è poi una forma particolare di deumanizzazione che è l'oggettivazione, cioè la percezione di un individuo come oggetto, merce o strumento. Il caso più comune ed evidente di oggettivazione è quella sessuale, nella quale l'individuo (spesso la donna) viene visto come strumento per il raggiungimento del piacere sessuale e non come persona. Una forma di oggettivazione è anche la schiavitù, perché lo schiavo è visto come strumento al servizio del padrone.
Nel saggio viene evidenziato come la deumanizzazione possa essere favorita dalla depersonalizzazione, cioè dal trattare i membri di un gruppo come una cosa unica, privandoli della propria singolarità. Questa considerazione, in apparenza banale, deve portarci a riflettere sull'opportunità delle categorizzazioni, di cui oggi si abusa. Quando si semplifica un fenomeno riducendo vittime e carnefici in categorie, si apre la strada alla deumanizzazione, rendendo così più facile l'esplosione di comportamenti violenti o comunque discriminatori nei loro confronti.
Nelle pagine del libro si evidenzia anche come il linguaggio possa facilitare l'uso della violenza, citando studi che correlano un maggiore uso di epiteti contro una certa categoria ad una maggiore frequenza di aggressioni violente nei loro confronti. Questo dovrebbe spingere chi esercita un'influenza, o comunque ha la possibilità di parlare ad un pubblico numeroso, a pesare bene le parole ed evitare l'uso di epiteti offensivi o di termini violenti.

Il saggio Deumanizzazione. Come si legittima la violenza della prof.ssa Volpato non rivela delle verità fino ad ora ignote, ha però il merito di spiegare in modo chiaro un fenomeno molto comune nelle dinamiche della nostra società ma ancora troppo sottovalutato. Ancora oggi parliamo con leggerezza di "clandestini", riassumendo in un'etichetta denigratoria una moltitudine di vicende umane, o usiamo con leggerezza epiteti denigratori (come non citare i "fottuti figli di Allah" di Oriana Fallaci), o deumanizziamo esseri umani di cui sappiamo poco. Queste che possono sembrare leggerezze possono aprire la strada ad eventi drammatici, la deumanizzazione ha permesso di giustificare Abu Ghraib e Guantanamo, permette a molti di giustificare il genocidio dei palestinesi (che per molti sono solo terroristi, o musulmani), consente di lasciare impunite mostruosità come le manganellate agli studenti (che per molti sono "comunisti", non persone con un'opinione e il diritto di manifestarla).
La deumanizzazione è un fenomeno ancora molto attuale, un'arma ancora molto usata dal potere per manipolare la nostra volontà, e solo conoscendola possiamo sfuggirle.
Il saggio ha il merito di essere molto semplice, leggibile da chiunque, pur se molto completo e rigoroso.

Francesco Abate

giovedì 15 febbraio 2024

ERITREA

 

"Giovane ragazza dalla pelle alla nocciola,
perché i tuoi ricci ribelli son fuggiti
dalla casa in cui nascesti?"

Eritrea, poesia contenuta nella mia raccolta Inferno, non è solo il canto di un paese stritolato dalla dittatura, ma è anche la voce di tante donne che fuggono dall'inferno per resistere a un destino nefasto.
"Là parlavo a voce bassa per paura delle orecchie
ma io ho la voce forte e i polmoni per urlare,
per questo fuggii"
La donna eritrea che parla nella poesia fugge, ma non lo fa perché codarda; a spingerla alla fuga è la forza di opporsi al piede prepotente che vuole schiacciarla, ridurla al silenzio, usarla e poi buttarla via.
In Eritrea, come purtroppo in tantissime parti del mondo, le donne sono, insieme ai bambini, le vittime preferite dei regimi, che quando non le uccidono le declassano al rango di schiave, e la fuga in questi casi è il più grande atto di coraggio, un atto che molto spesso costa la vita.
La poesia si conclude con la donna che rivendica la voglia di vivere della sua fresca gioventù:
"Là la morte è padrona con la falce sua compagna
ma io ho le carni fresche e la voglia di campare,
per questo fuggii".

Vi ricordo che potete acquistare Inferno in tutte le librerie e in tutti i collegamenti che trovate in questa pagina.
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Colgo l'occasione per segnalarvi la mia ultima intervista, rilasciata ad Ottiche Parallele Magazine.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

sabato 10 febbraio 2024

SOFFOCARE DI CHUCK PALAHNIUK

 

Soffocare è un romanzo pubblicato nel 2001 dallo scrittore statunitense Chuck Palahniuk, dal quale è stato tratto l'omonimo film diretto del regista Clark Gregg nel 2008.
Al centro di questo romanzo c'è la nevrosi, il protagonista Victor Mancini è infatti sessodipendente ed ha serie difficoltà a vivere un'esistenza normale nella società. Perseguitato da un'infanzia passata con una madre instabile ed ossessionata da teorie complottiste, Victor non fa niente per combattere la propria dipendenza anzi, la alimenta in continuazione, e nel frattempo mantiene l'anziana madre in una costosa clinica per malati di Alzheimer raccattando i soldi con un espediente tanto furbo quanto squallido: ogni sera, in un ristorante diverso, volontariamente inghiotte qualcosa che rischia di soffocarlo, per poi venire salvato dall'eroe di turno che puntualmente lo prende a cuore e gli dona del denaro. 
L'ipersessualità in questo romanzo è una disperata via di fuga, una trasgressione necessaria per deragliare da un percorso di vita fin troppo ben definito dalla società. Tutti i personaggi principali di questo romanzo non riescono a conformarsi alla vita definita normale, ognuno trova una propria via di fuga. Per buona parte del romanzo la fuga dalla società è distruttiva, infatti i personaggi non fanno altro che abbandonarsi alla propria dipendenza e chiudersi nel proprio malessere; nel finale sembrano trovare la loro via, perché realizzano che non c'è una strada maestra da seguire per essere felici, l'unica soluzione che c'è è disegnare il proprio mondo, realizzarlo e viverlo. Il romanzo si conclude proprio con Victor e i suoi amici intenti a crearsi un mondo proprio, a concretizzare quella fuga dalla società solo abbozzata a colpi di dipendenze e trovate squallide.
Victor Mancini, il protagonista di Soffocare, per molti versi somiglia a due dei personaggi principali dell'opera dello scrittore russo Fedor Dostoevskij. Victor è infatti imprigionato nel proprio sottosuolo, come il protagonista di Memorie del sottosuolo, e con ogni azione autolesionista sceglie di scivolare sempre più in basso, di farsi respingere sempre più dalla società, di annegare nelle bassezze del proprio animo, e come il suo omologo tenta di trovare consolazione abbandonandosi alla massima abiezione quando tenta di consumare un rapporto sessuale sull'altare di una chiesa. Victor è un dannato, uno schiavo del proprio lato oscuro, ma presenta anche dei lati di estrema bontà paragonabili a quelli del principe Myskin, protagonista de L'idiota, che appaiono quando prende sulle proprie spalle i peccati che tormentano le anziane pazienti del centro per i malati di Alzheimer in cui è ricoverata sua madre. Questo dualismo tra il suo sottosuolo e i suoi lampi di bontà provocano una sorta di corto circuito nella sua anima, soprattutto quando si convince di essere una sorta di erede di Gesù Cristo, ma il tutto si risolve quando viene a conoscenza della verità intorno alle proprie origini e alle persone che lo circondano, a quel punto realizza di dover trovare una strada diversa da quella già tracciata dalle narrazioni religiose.
Soffocare è senz'altro un bel romanzo, disturbante e forte come ci si aspetta da un'opera di Palahniuk, anche se non all'altezza del suo capolavoro, Fight Club. Sebbene sia peculiare della scrittura di Palahniuk una certa volgarità e la descrizione esplicita di immagini crude o di atti sessuali, in alcuni casi la scelta di un certo tipo di linguaggio e di certi particolari appare un po' forzata, finalizzata più a colpire che a dare un valore aggiunto all'opera. Nonostante tutto vale la pena di leggere questo romanzo, ci mostra infatti tante cellule impazzite che non riescono a integrarsi in questo grande organismo che è la società odierna, facendoci vedere come esse tendano ad essere espulse ma allo stesso tempo tentino di costruirsi una propria strada, perché anche chi non riesce a sottostare alle regole sociali (che non ha scelto) ha il diritto di vivere un'esistenza dignitosa e felice.

Francesco Abate

domenica 4 febbraio 2024

LA MARCIA DI REHAM

 

La marcia di Reham è una poesia contenuta nella raccolta Inferno.
La poesia parla di Reham Yacoub, nutrizionista irachena e attivista dei diritti umani, uccisa da un commando armato nel 2020 probabilmente per via delle sue attività di protesta contro il governo iracheno e le sue violazioni dei diritti umani.
Nella poesia ho voluto spronare la povera Reham, e tutte le persone coraggiose come lei, a non mollare nemmeno mentre la morte incombe, perché "morire fa male, però non dura".
Purtroppo la sua marcia coraggiosa e il suo sacrificio, almeno per ora, non sono serviti a niente, e la poesia purtroppo ha una conclusione amara:
"Cammina Reham, ancora il governo
con lo scettro trasforma l'Iraq in inferno."

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Francesco Abate

venerdì 26 gennaio 2024

INFERNO FINALISTA AL PREMIO NABOKOV

 

Continuano i riconoscimenti per la raccolta di poesie Inferno, selezionata tra le opere finaliste del Premio Nabokov 2023.

Sono felice di tutti questi riconoscimenti, che mi fanno sperare di essere riuscito nell'impresa di costruire un'opera capace di comunicare il dolore che troppe persone nel mondo devono patire.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

domenica 21 gennaio 2024

EGITTO

 

Egitto è una poesia contenuta nella mia raccolta, Inferno, nella sezione dedicata all'inferno dei popoli.
Nei versi c'è il lamento che un egiziano muove al proprio presidente, al-Sisi. Il presidente di una nazione dovrebbe essere un padre per i propri cittadini, esercitare il potere per garantire loro benessere e giustizia, per questo nella poesia il cittadino si rivolge ad al-Sisi con tono confidenziale, chiamandolo per nome.
Dici di essere mio padre, Abdel,
perché allora non mi lasci uscire?
Al-Sisi attua sui dissidenti egiziani una feroce repressione, come abbiamo saputo attraverso le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki, tutto col silenzio complice della comunità internazionale, che si guarda bene dal censurarlo vista la fitta rete di interessi economici in comune (cito un esempio: l'Egitto ha comprato numerose navi italiane, quindi i nostri politici illuminati si guardano bene dal farlo arrabbiare).
Il dissidente che canta non è però una vittima inerme, né un sofferente che chiede pietà: è un eroe che rivendica la forza delle proprie idee e vede la sofferenza nel potente che usa la forza per difendere il potere:
Pensi che io stia qui a tremare,
ma il freddo tormenta le ossa
del debole, del mostro,
di chi beve potere per nascondere il vuoto.


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Francesco Abate

mercoledì 10 gennaio 2024

VI PRESENTO IL RACCONTO DELLA MORTE

 

Ho il piacere di presentarvi Il racconto della morte, l'ultima poesia che ho pubblicato sul sito Spillwords.com.

Si tratta di una breve poesia in cui la Morte spiega, attraverso un racconto, come chiudersi fuori dal mondo per fuggirle non fa altro che facilitarne la venuta; se è vero che alla morte non si può sfuggire, è pur vero che rinunciando a vivere le si facilita il compito. 
Questa poesia mi sta particolarmente a cuore perché esprime un concetto che non vale solo per la morte, ma per il dolore in generale; chi si isola dal mondo per non farsi male, si nega le esperienze di vita, finisce per distruggersi, perché quando il male arriva, così come la morte non si può fuggire senza le porte che aprono al mondo e senza finestre che mostrano il cielo.

Vi ricordo che potete trovare tutte le poesie che ho pubblicato su Spillwords su questa pagina.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

domenica 7 gennaio 2024

DISERTATE DI FRANCO BERARDI

Da sempre la retorica nazionalista presenta la diserzione come la più abietta delle azioni, il peccato più grave di cui macchiarsi, un imperdonabile tradimento ai danni della nazione e dei connazionali, figlia dalla più patetica vigliaccheria. Ma se oggi disertare fosse l'unica soluzione, l'unica via di salvezza?
Per l'attivista e saggista Franco Berardi, detto Bifo, disertare è oggi l'unica difesa che ha l'essere umano dal crollo della società. Il nostro modello di vita comune attraversa una crisi irreversibile; per anni ci hanno illuso che l'espansione non sarebbe mai finita, che l'essere umano avrebbe vissuto in un mondo sempre migliore e sarebbe stato sempre più felice, adesso invece ci troviamo a fare i conti con i disastri causati dal capitalismo e dal neoliberismo, con un ambiente che si rivolta contro al super-sfruttamento al quale lo stiamo sottoponendo, con la sovrappopolazione e con l'avanzamento di culture che fino a pochi anni fa abbiamo schiacciato e sfruttato (e che per questo ci odiano). Messi di fronte all'amaro calice della fine dell'espansione ed alla vista della morte (il Covid ha demolito la nostra illusione di invulnerabilità), la nostra psiche cede e ci abbandoniamo sempre di più a comportamenti irrazionalmente violenti, i quali spiegano fenomeni come l'invasione russa dell'Ucraina (una guerra inter-bianca ed inter-capitalista) o le manifestazioni violente sempre più frequenti anche nelle nostre città.
La società crolla, eppure chi la regge, per conservare il potere, ci chiede di sorridere, far finta di niente e vivere seguendo la strada che Palahniuk illustra nel romanzo Fight Club: produci, consuma, crepa. Il finto benessere non inganna però la nostra mente, e un malessere cresce nella popolazione occidentale, aumentando sempre di più casi di depressione o scelte in contrasto con l'espansione come quella di non fare figli.
Questo malessere, che è una conseguenza della crisi irreversibile vissuta dalla società, potrebbe però essere quell'adattamento che può salvare l'essere umano. Secondo Berardi infatti la soluzione è proprio quella di disertare, cioè abbandonare il gioco per non dover seguire le sue regole. Per l'autore ci sono cinque tipi di diserzione:
1) diserzione dalla politica, cioè rinunciare alla finzione democratica e smettere di credere che si possa salvare il mondo eleggendo qualcuno al governo delle nazioni;
2) diserzione dal lavoro, sottrarsi allo sfruttamento finalizzato alla produzione dell'inutile e dedicare le proprie energie "alla cura, alla trasmissione del sapere, alla ricerca, all'autosufficienza alimentare";
3) diserzione dal consumo, evitando di consumare qualsiasi cosa che non sia prodotta dalle comunità di autoproduzione, boicottando così la circolazione delle merci;
4) diserzione dalla guerra, non aggredire e non difendere, non combattere per nessuna ragione;
5) diserzione dalla procreazione, perché mettere al mondo un essere umano quando le probabilità che sia felice sono vicine allo zero è un atto egoista e irresponsabile.
Come può facilmente intuire chiunque stia leggendo, applicare del tutto queste diserzioni è praticamente impossibile in questo mondo e in questa epoca. Di questo è consapevole anche l'autore, che specifica come si debba provare ad avvicinarsi il più possibile all'indipendenza dal legame sociale, evitare ogni attaccamento alle cose, disprezzare ed ignorare ogni legge.
Con la società che crolla intorno a noi, Berardi ci suggerisce quindi di fuggire e pensare a noi stessi, evitando così di restare travolti dal crollo.

Leggendo questo saggio, mi è tornata alla mente una poesia che scrissi nel 2017, La vera rivoluzione, nella quale scrivevo che "La vera rivoluzione è fermarsi" in una società che ci fa correre a vuoto dietro traguardi che sono i suoi e non i nostri. 
Posso dire di condividere in grandissima parte il pensiero di Franco Berardi, solo che nel disertare io mi pongo sempre un intento costruttivo. Di disertori in genere ce ne sono due tipi, c'è quello che si nasconde e basta, poi c'è quello che combatte per conto proprio. Io non credo che basti chiamarsi fuori dalla società, bisogna cercare di contaminare col germe della diserzione quante più persone possibile, far capire agli altri quello che si è capito, cioè che i valori della società attuale non significano più niente, si deve provare a trasformare la propria svolta in un vero cambiamento culturale; ovviamente non è facile e non è qualcosa che può riuscire in pochi anni, ma provarci non ci impedisce di essere felici, quindi se si dovesse fallire si morirebbe comunque con la consolazione di aver seguito le proprie inclinazioni e di essere stati liberi, perciò vale la pena provare.

Francesco Abate