venerdì 18 novembre 2016

IL PREZZO DELLA VITA: NOTE DELL'AUTORE (SULL'AUTORE)

Italo Calvino e Benedetto Croce avevano una cosa in comune: entrambi credevano che di un autore contassero le opere, non la biografia. Ovviamente io non oserei mai paragonarmi a due giganti della cultura italiana e mondiale, però su questa idea sono d'accordo. 
Avevo deciso, visto che su questo blog promuovo anche le mie opere, di parlare di me, del loro autore, e in virtù dell'idea citata sopra non vi riporterò la mia biografia (che oltretutto risulterebbe molto magra, vista l'assenza di eventi eclatanti nella mia giovane vita), bensì parlerò di quello che concerne il mio rapporto con la letteratura. La mia scelta è sottolineata anche dall'immagine che ho scelto per il post, che raffigura il mio libro (ciò che ho prodotto) e non la mia figura (e non vi perdete niente!).
Un estratto molto sintetico della mia biografia lo trovate sempre sotto i post in cui parlo del mio romanzo, ma in quel caso è una necessità dovuta al fatto che ci sono diversi miei colleghi che hanno il mio stesso nome e cognome, quindi devo in qualche modo provvedere a chiarire chi io sia.

Sono un uomo come tanti, e come tanti sono unico. La mia non è un'affermazione di superiorità, semplicemente io credo che ogni persona, a meno che non ceda all'omologazione che ci impone la società, sia unica e faccio di tutto per difendere la mia unicità. Non mi ritengo perfetto, ma mi piace essere quello che sono. Adoro usare l'arma che differenzia noi umani dagli altri animali, cioè la ragione, e amo condividere con la gente le mie idee. Sono una persona che ha opinioni su tutto, ma su tutto sono pieno di dubbi. 
Quello che sono mi ha da subito costretto ad intraprendere la strada dell'arte. La persona che ama pensare ed è piena di dubbi può sopravvivere in un solo modo, cioè ordinando le proprie idee e condividendole con quante più persone possibile. Io scrivo proprio per questo. La mia letteratura non è e non sarà mai di solo intrattenimento, mi piace l'idea che un mio romanzo possa far nascere delle riflessioni nel lettore e che questo possa formare in sé stesso una sua opinione sui temi trattati, non importa se uguale o diversa dalla mia. Ovviamente a muovermi non può essere solo il bisogno di condivisione, altrimenti avrei scritto saggi. Quando invento una storia, dei personaggi e dei luoghi, dei pensieri e dei sentimenti, io elaboro quello che ho dentro, razionale o irrazionale che sia, e lo impasto fino a dargli una forma esteriore e una vita propria. Scrivere per me è come mettere al mondo un figlio. Il padre col proprio seme dona parte del proprio corredo cromosomico per formare una nuova vita, simile ma diversa da lui, lo scrittore dona parte della propria interiorità per formare un romanzo (o un'opera in generale), che non sarà identica al creatore. Quando scrivo parto da un progetto, decido cosa voglio comunicare e in base al messaggio creo personaggi e trama, ma capita sempre che al momento della scrittura le parole comincino a fluire da sé, dando ad un personaggio un lampo di vita indipendente che nemmeno lo scrittore può controllare. Ovviamente io potrei cancellare quel lampo di vita in fase di correzione, ma sacrificherei la poesia alla razionalità, sarebbe come amputare un arto ad un figlio perché non rassomigliante a quello del padre. Tanto lo scrittore è sempre lo stesso, ciò che finirà su foglio non sarà mai incoerente con quello che era il progetto iniziale.
Alla passione per la scrittura si accompagna sempre anche quella per la lettura, chi ama spiegare sé stesso deve poi saper anche ascoltare gli altri, oltretutto non si può sperare di avere un'idea decente se prima non la si è confrontata con altre mille. Nel mio caso credo di poter dire che l'amore per la lettura ha portato a quello per la scrittura. Mia madre sin da piccolo mi ha incoraggiato a leggere ed ha sempre assecondato la mia passione sostituendo ben presto i libri ai giocattoli nei regali. Da bambino un po' serbai rancore per questo, oggi ritengo invece sia stata un'ottima scelta. Da piccolo ovviamente prediligevo i romanzi d'avventura, adoravo le vicende dei cavalieri della Tavola Rotonda, oggi invece leggo tante cose diverse, prediligendo quelle opere che possono arricchirmi dentro. Leggo molto i classici, ma amo anche la letteratura del Novecento, sto scoprendo lentamente che anche quella italiana dello scorso secolo è molto valida e mi sto innamorando di Calvino e Moravia. Non mancano nella mia libreria anche romanzi dei giorni nostri, anche se spesso rimango deluso da quel che leggo e molti romanzi li concludo chiedendomi a cosa sia servito buttare giù tutte quelle parole che (almeno per me) non portano a niente. Purtroppo anche l'editoria segue le regole del commercio, si scrive tanto e si predilige quello che vende, i contenuti spesso passano in secondo piano. Per fortuna comunque non è sempre così ed anche oggi vengono pubblicati romanzi molto validi.

Come ho scritto sopra, i miei romanzi nascono dal bisogno di comunicare. Con Il Prezzo della Vita ero intenzionato ad esporre la mia teoria sul valore eccessivo che hanno i soldi nella nostra vita, per farlo pensai di costruire una storia in cui i soldi rovinassero ogni cosa. Come sempre accade però, nel romanzo è finito anche altro. Scrivendo della vita di Antonio Mestieri, ho illustrato come dal male nasca altro male, come un uomo cattivo riesca ad "infettare" altre vite, talvolta anche suo malgrado. Ovviamente poi, sempre attraverso il protagonista, mostro anche come non esista il "totalmente cattivo", nel senso che anche un essere spregevole può avere nel cuore qualche buon sentimento. Nella filmografia e nella letteratura moderna siamo troppo spesso abituati a trovare cattivi assoluti o buoni assoluti, in realtà la vita ci insegna ogni giorno che non è così. Anche l'uomo migliore può essere capace di commettere azioni spregevoli, così come anche quello peggiore può talvolta mostrare macchie di bontà. Io in generale non amo i personaggi monocolore, tutte le persone reali (fatto eccezione per quelle banali e prive di unicità) sono un mosaico fatto delle tessere più diverse, quindi costruire un personaggio assolutamente buono o assolutamente cattivo è una banalizzazione che amo evitare.

Una volta parlato di quel che ho fatto, mi tocca parlare di quel che farò. Progetti ne ho tanti e non vi ammorberò elencandoli, semplicemente scriverò tanto e tante cose diverse, perché le idee sono come le persone, non sono mai completamente uguali. Scriverò su tanti temi, inoltre mi piacerebbe anche cimentarmi in altri tipi di scrittura, come sceneggiature e canzoni. Di poesie ne scrivo già, anche se non sono mai stato pubblicato. Quel che è certo è che mi divertirò tantissimo, e fin quando mi divertirò non mi fermerò mai. Spero che anche voi vi divertirete a leggermi.

Vi ricordo che Il Prezzo della Vita può essere ordinato sul sito www.csaeditrice.it, in tutte le librerie ed anche in quelle online.

Potete seguire la mia attività su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Sin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con Matrimonio e Piacere. Autore anche di poesie. Il Prezzo della Vita è la sua prima pubblicazione per la CSA Editrice.

   



domenica 6 novembre 2016

ENZO BIAGI, STORIA DI GIORNALISMO E LIBERTA'

Considerato uno dei giornalisti più importanti del XX secolo, la vita di Enzo Biagi è la storia di un uomo che ha sempre fatto il suo lavoro con grande professionalità, senza mai svendersi ai potenti anche a costo di gravi perdite. Di fatto si può considerare la vita di Biagi come un esempio di integrità ed onestà intellettuale.

Nato a Pianaccio di Lizzano in Belvedere il 9 agosto 1920, Biagi manifestò subito una grande passione per la scrittura e il giornalismo. Appena maggiorenne iniziò a lavorare ne Il Resto del Carlino e a 21 anni, età minima per essere iscritti all'albo dei giornalisti, divenne professionista. Nel corso degli anni lavorò per numerose testate giornalistiche come corrispondente, editorialista ed anche direttore. Nel 1943, dopo l'armistizio, varcò il confine per non essere arruolato tra i repubblichini di Salò e divenne partigiano. 
Fu anche autore di libri, ha venduto 12 milioni di copie in tutto il mondo.
Nel 1961 avvenne il suo ingresso in RAI, da quel momento iniziò ad ideare e condurre numerose e fortunate rubriche giornalistiche, impegnandosi in dossier su argomenti delicati come la mafia e in interviste con personaggi di grande spessore come Gorbaciov e Gheddafi, quest'ultimo intervistato all'indomani della strage di Ustica. Nel 1995 iniziò la conduzione de Il Fatto, una rubrica di 5 minuti in onda subito dopo il TG, in cui Biagi analizzava personaggi ed eventi dell'Italia di quel periodo. Dovette abbandonare la trasmissione e risolvere il contratto in RAI nel 2002, a seguito del famoso editto bulgaro di Berlusconi. Tornò in tv nell'aprile 2007 con la rubrica RT - Rotocalco Televisivo, di cui realizzò sette puntate. La rubrica sarebbe dovuta tornare in onda nell'autunno successivo, ma il peggioramento delle condizioni di salute di Biagi lo impedirono. Enzo Biagi morì a Milano il 6 novembre 2007 a causa delle complicazioni dovute ad un edema polmonare acuto.

Come già detto, la biografia di Enzo Biagi è tutt'oggi un esempio di libertà ed onestà intellettuale. Oggi tutti conosciamo le vicende relative all'editto bulgaro, ma già nel 1982 il giornalista lasciò il Corriere della Sera perché dalle inchieste della magistratura stava emergendo come la testata fosse sotto il controllo della P2. In seguito lo stesso Biagi rivelò che Licio Gelli aveva chiesto all'allora direttore del quotidiano, Franco Di Bella, di rimuoverlo o spedirlo in Argentina. Biagi, non appena emersero le prime verità riguardo la P2, lasciò il Corriere e divenne editorialista de la Repubblica. Tornò al Corriere della Sera solo sei anni dopo.

La vicenda personale di Biagi toccò il massimo della drammaticità con l'editto bulgaro. Il 18 aprile 2002, nel corso di una visita a Sofia, l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi auspicò che la il nuovo Consiglio di Amministrazione RAI, che si stava eleggendo in quei giorni, evitasse un uso criminoso del servizio pubblico contro di lui. L'ordine era stato lanciato sin troppo chiaramente, era noto che Berlusconi non avesse gradito le conduzioni di Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi. A far cadere le ire dei berlusconiani su Biagi furono due interviste, fatte prima delle elezioni, fatte a Roberto Benigni ed Indro Montanelli. Il primo commentò a modo suo il Contratto con gli italiani che Berlusconi aveva firmato nello studio di Porta a Porta, il secondo invece definì il centrodestra un virus e disse chiaramente che con Berlusconi l'Italia avrebbe avuto una "dittatura morbida". 
Le due interviste prima e le parole di Berlusconi poi scatenarono una pioggia di attacchi professionali e personali contro Biagi, che la sera stessa dell'editto rispose così a Il Fatto: << Il presidente del Consiglio non trova niente di meglio che segnalare tre biechi individui: Santoro, Luttazzi e il sottoscritto. [...] Poi il presidente Berlusconi, siccome non intravede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione, lascerebbe intendere che dovrebbero togliere il disturbo. Signor presidente, dia disposizioni di procedere perché alla mia età il senso di rispetto che ho verso me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri. [...] Sono ancora convinto che perfino in questa azienda (che come giustamente ricorda è di tutti, e quindi vorrà sentire tutte le opinioni) ci sia ancora spazio per la libertà di stampa; sta scritto - dia un'occhiata - nella Costituzione. Lavoro qui in RAI dal 1961 ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto [...]. Cari telespettatori, questa potrebbe essere l'ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare a prezzo di certi patteggiamenti >>.
L'editto bulgaro portò, come Biagi aveva previsto, alla fine de Il Fatto. Il nuovo CdA RAI prima cambiò fascia oraria al programma, poi lo spostò su Rai3, infine lo cancellò. Sentendosi preso in giro, Enzo Biagi risolse il contratto con la RAI.
La grandezza di Biagi in occasione dell'editto bulgaro fu il preferire essere tagliato fuori da un'azienda per cui aveva lavorato più di trent'anni e che amava. Qualche anno prima, infatti, Biagi rifiutò la chiamata proprio di Berlusconi che lo voleva in Fininvest. Il giornalista rifiutò sia per amore della RAI, che anni dopo lo avrebbe tradito per accontentare il potente di turno, sia temendo di subire limitazioni nella tv berlusconiana.

Un personaggio indipendente non piace mai a tutti, Enzo Biagi non fece eccezione. L'allora presidente del Consiglio Craxi lo definì "moralista tanto al chilo", Berlusconi lo censurò con l'editto bulgaro, la sinistra lo definiva buonista e Giorgio Bocca lo accusava di speculare sulle tragedie. Particolarmente duro con Biagi fu, all'epoca dell'editto bulgaro, Giuliano Ferrara che lo invitò a sputarsi in faccia. 
La storia ci insegna però che tali critiche furono ingiustificate. Craxi all'epoca dei governi socialisti definiva "moralista tanto al chilo" chiunque parlasse di corruzione contro il PSI, Tangentopoli ci ha però spiegato che i moralisti avevano ragione e che lui era un corrotto.
La stessa vicenda dell'editto bulgaro ci insegna come Biagi avesse fatto bene il suo lavoro e come la sua integrità lo avesse fatto uscire vincitore dallo scontro. Nell'intervista a Montanelli infatti l'ospite disse che con Berlusconi ci sarebbe stata una dittatura morbida, lo stesso editto bulgaro diede ragione a Montanelli e la storia ci insegna come sia stato effettivamente così anzi, come da allora in Italia si siano succedute solo dittature morbide, perché il berlusconismo ha creato una politica nuova dove il cittadino è tifoso e non giudice. Biagi informò correttamente, in più mantenne la propria integrità preferendo continuare per la sua strada, alla fine riuscì anche a tornare in tv e solo la morte ha fermato definitivamente il suo lavoro.
La figura di Biagi è però una di quelle che non smettono mai di avere un effetto nel mondo, il segno che ha lasciato è indelebile. Se oggi possiamo ancora leggere i suoi libri, i suoi articoli, o vedere le sue interviste, e conoscere meglio la storia, leggendo la sua biografia possiamo imparare che si può essere quello che si ama senza chinare il capo davanti a nessuno.

Francesco Abate



mercoledì 2 novembre 2016

RECENSIONE DE "IL ROSSO E IL NERO" DI STENDHAL


Il Rosso e il Nero è il romanzo più importante di Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Bayle, uno degli scrittori francesi più importanti dell'Ottocento.
L'opera è allo stesso tempo una descrizione molto accurata della società francese della Restaurazione, mostrata in tutta la sua decadenza morale, ed un'analisi dell'animo umano tanto accurata da spingere il filosofo Nietzsche a definire Stendhal l'ultimo dei grandi psicologi francesi.

Classificabile come romanzo di formazione, Il Rosso e il Nero narra le vicende del giovane Julien Sorel, attraverso i cui occhi il lettore può vedere prima le brutture della borghesia di provincia e poi le falsità della nobiltà parigina.
La vicenda prende spunto da un fatto realmente accaduto, pubblicato sulla Gazette des Tribunaux tra il 28 e il 31 dicembre 1827. Antoine Berthet, ex seminarista figlio di un artigiano, assunto come precettore in una famiglia di ricchi borghesi, sparò alla padrona durante una funzione religiosa. Berthet era divenuto amante della donna. Per il suo crimine fu condannato a morte e ghigliottinato nella piazza di Grenoble il 23 febbraio 1828.
La storia di Berthet è lo scheletro attorno cui Stendhal costruisce il personaggio e le vicende di Julien Sorel, solo che l'autore ci mette molto del suo. Stendhal definì il protagonista dell'opera << un infelice in guerra contro l'intera società >> ed in effetti Julien questo è. Figlio di un artigiano, è di bassa estrazione sociale, ma vive leggendo il Memoriale di Sant'Elena e sognando un'ascesa sfolgorante come quella del suo idolo Napoleone Bonaparte, sognando quell'epoca passata in cui un signor nessuno in breve tempo poteva far carriera. Grazie alla sua cultura, Julien viene assunto come precettore nella casa dei de Renal, una famiglia di ricchi borghesi di provincia. Già nel passaggio dai sogni di gloria all'incarico di precettore, avviene in Julien il passaggio dal rosso al nero, cioè capisce di non poter ambire alla carriera militare (il rosso) che tanto sognava e che l'unico modo per salire nella scala sociale in quei tempi era attraverso la religione (il nero). In breve tempo Julien diventa amante di Madame de Renal e deve fuggire da quella causa per sfuggire alle prevedibili vendette del marito. Dopo un periodo in seminario, approda a Parigi come segretario del marchese de la Mole, così entra in contatto con l'aristocrazia parigina. Dopo essersi discretamente integrato, finisce per innamorarsi e sedurre l'altezzosa figlia del marchese, Mathilde. Julien deve lottare non poco per conquistarsi definitivamente l'amore della giovane nobildonna, quando finalmente l'ha conquistata però lei scopre di essere incinta. Lo scandalo che suscita la notizia costringe Julien ad una nuova fuga. Inizialmente il marchese de la Mole sembra intenzionato ad acconsentire alle nozze del giovane con sua figlia, spinto proprio dalle pressioni di quest'ultima, ma una lettera di Madame de Renal gli fa cambiare idea. La lettera spinge Julien a sparare contro la sua ex amante, fortunatamente non la uccide ma, in seguito al processo, viene condannato a morte e decapitato.

Pur non parlando mai apertamente di politica, Il Rosso e il Nero può essere definito un romanzo politico. Narrando le vicende, Stendhal ci mostra la Francia della Restaurazione come una palude fatta di intrighi, raccomandazioni e corruzione. Gli uomini di Chiesa non esitano a muoversi nell'ombra per guadagnarsi un posto da vescovo, la borghesia di provincia svende la propria dignità pur di acquisire posti di prim'ordine nell'amministrazione statale, i nobili combinano perfino i matrimoni pur di acquisire o mantenere i propri privilegi. Tutto è intrappolato nelle convenzioni, non si parla mai francamente e chiunque compie un'azione lo fa sempre con un secondo fine, mirando a conquistarsi un'amicizia o a screditare qualcuno, tutto per guadagnare posizioni di rilievo in società. Stendhal ci mostra una società corrotta e doppiogiochista, dove è impossibile emergere se non sottomettendosi a squallidi giochi di potere.

I personaggi del romanzo sono tantissimi. Alcuni in sé stessi hanno poco valore, servono semplicemente a rappresentare una categoria sociale, come sono i vari M. de Renal e M. Valenod, o il marchese de la Mole. I primi sono borghesi di provincia, tutti presi ad ostentare il loro potere e le loro ricchezze, sempre proiettati al mantenimento dei loro incarichi pubblici od all'ottenimento di incarichi ancora più importanti. Il marchese invece rappresenta l'aristocrazia parigina, un uomo tutto preso al rispetto delle etichette ed alla gestione economica dei suoi affari, nonché partecipante attivo della vita politica francese. Anche i religiosi servono a rappresentare la categoria e possono essere divisi in due categorie: quelli più attenti alla spiritualità, ma comunque pronti a sottomettersi alle convenzioni sociali; quelli totalmente proiettati sulla carriera, ambiziosi e intriganti politici che usano la tonaca per acquisire ruoli di prim'ordine in società.
I personaggi chiave del romanzo a mio parere sono tre: Julien, Madame de Renal e Mathilde de la Mole.
Julien Sorel cresce nel mito dell'ascesa fulminea di Napoleone e conduce la sua intera esistenza cercando di emularlo. Di bassa estrazione sociale, ogni sua azione è finalizzata all'acquisizione di vantaggi. Anche le sue due passioni amorose, almeno in origine, sono vissute e condotte con freddo cinismo. I suoi corteggiamenti sono un'insieme di azioni pianificate e frasi da opere antiche, per lui conquistare il cuore della donna è come conquistare il campo nemico ed ottenere una vittoria. Visto il suo atteggiamento, i suoi corteggiamenti sono grotteschi e faticano ad avere successo, solo quando finisce per farsi prendere davvero dalla passione e dimentica le sue tattiche, riesce ad avere successo. La sua anima è nobile e fiera, è in continuo contrasto con l'ordine costituito (seppur egli intenda servirsene), per questo ogni volta che si trova in un ambiente nuovo appare fuori luogo. Proprio questa sua diversità però finisce per conquistare il cuore delle due donne, egli è un'alternativa agli uomini del suo tempo. Il suo temperamento però gli è spesso dannoso, egli infatti vede tutto ciò che gli succede intorno, ma ha sempre interpretazioni alterate dai suoi stati d'animo e i suoi pregiudizi, finendo spesso per fraintendere quello che davvero sta succedendo. Nel processo finale è proprio questa sua mancanza di intuizione che probabilmente gli costa la condanna a morte. Solo nei momenti finali della sua esistenza, quando sa che la sua scalata sociale non potrà proseguire, si gode davvero l'amore che prova e capisce quale dei due per lui è quello vero.
Madame de Renal fu sposata a soli 16 anni. A causa di questo matrimonio giovane e del carattere mite, non ha mai conosciuto la vera passione amorosa. Julien sconvolge la sua vita facendola innamorare davvero. Essendo inesperta nelle questioni amorose, ha una visione del suo peccato d'adulterio e delle sue conseguenze molto tragica, arrivando prima a temere che il marito uccidesse l'amante e le facesse mangiare il suo cuore, poi che la malattia di uno dei figli fosse una punizione divina. Nonostante i timori dovuti alla sua ingenuità, ama Julien talmente tanto che finisce per rompere apertamente tutte le convenzioni sociali, facendo praticamente in modo che il loro amore fosse evidente a tutti.
Mathilde de la Mole, la figlia del marchese, vive un amore meno puro di Madame de Renal. Tra le due donne è possibile una contrapposizione, la signora rappresenta la nobiltà d'animo mentre la giovane nobildonna la nobiltà d'origine. Mathilde disprezza gli uomini della sua epoca, ritenendoli noiosi ed incapaci di grandi passioni, e vive nel ricordo di un suo avo che per amore di una donna sposata era stato decapitato molti anni prima. Si innamora di Julien proprio perché lo vede fuori dal comune, lo riconosce come capace di grandi azioni e grandi passioni, per lui accetta tutto ed anzi, più sono duri i sacrifici che deve sopportare e più lo ama. Lo ama perché non è un nobile in cerca di un buon partito, ma un uomo pieno di passione. La giovane nobildonna è però molto capricciosa, cede all'amore di Julien solo quando questo finge di non tenerla più in considerazione, finché lo crede perdutamente innamorato invece lo disprezza, trovandolo banale come tutti.

Il Rosso e il Nero è un romanzo la cui fama ha attraversato i secoli. La ragione di tanta fortuna è di sicuro la ricchezza di contenuti, come detto è un concentrato di politica e psicologia. Non va però trascurato il grande merito che ha avuto Stendhal di rendere una storia così complessa e pregna di contenuti tanto scorrevole, l'autore usa infatti un linguaggio molto essenziale, non si prolunga più di tanto in descrizioni di particolari superflui, ed anche l'intreccio è molto essenziale. Il romanzo perciò si legge in modo molto scorrevole, si tratta di certo di una lettura molto piacevole.

Francesco Abate 
  

martedì 1 novembre 2016

SCHERZA COI FANTI, MA NON SCHERZARE CON I SANTI

I santi sono di certo un elemento caratteristico della religione cattolica. Tanti sono i culti nel mondo, ma non sono molti quelli che prevedono l'adorazione di persone giudicate sante dal capo religioso della comunità, nel caso dei cattolici a scegliere è il papa.

Chiunque conosca un po' la storia, sa benissimo che i personaggi saliti nel corso dei secoli al soglio pontificio sono spesso stati discutibili, qualcuno aveva i figli, altri scomunicavano per perseguire fini politici, altri ancora vendevano indulgenze. Alla luce di questa considerazione, è fuori discussione che il papa sia tutt'altro che infallibile, quindi viene da chiedersi come egli possa decidere della santificazione di un personaggio.

Alla luce della riflessione fatta sopra, quella che propongo ora è una valutazione storica dei santi più controversi della chiesa cattolica, privilegiando ovviamente i più famosi e i più moderni.

La prima figura controversa oggi venerata come santa è quella di Giovanna D'Arco. La famosa pulzella d'Orleans sosteneva di sentire la voce di Dio e che questa l'avesse inviata ai francesi come sua messaggera. A consegnarla definitivamente alla storia fu l'effetto dirompente che ebbe la sua comparsa nella guerra dei Cent'anni, infatti l'esercito francese era stanco ed aveva collezionato numerose sconfitte, ma dopo la comparsa di Giovanna D'Arco arrivarono vittorie importanti ed insperate che capovolsero le sorti del conflitto.
Giovanna D'Arco fu bruciata dal Santo Uffizio a seguito di un processo condotto in modo discutibile e di un inganno. Il giudizio dell'Uffizio sancì solo il carcere, perché Giovanna abiurò e la condanna arrivò solo perché aveva indossato abiti maschili. I carcerieri però la privarono dei vestiti femminili e le lasciarono solo i maschili così lei, rivestendosi da uomo, compì di nuovo il peccato per cui era stata condannata, e per questo le toccò il rogo.
Al di là dei motivi politici che portarono alla sua condanna, restano grossi dubbi sulla santità attribuita alla pulzella. Lei rappresenta la speranza, i francesi la venerano da secoli per la sua opera, ma fondamentalmente lei combatté per la Francia in una guerra dinastica, uccise e fece uccidere (la guerra è guerra), la sua santificazione tiene conto solo del fatto che disse di farlo in nome di Dio. Alla luce di questa valutazione, che dovrebbe essere ovvia, si potrebbe definire la santificazione di Giovanna D'Arco come la promozione della guerra di religione, cioè della guerra fatta in nome di Dio.
La santificazione di Giovanna D'Arco arrivò nel 1920 e fu opera di Benedetto XV, probabilmente influì anche l'importanza avuta dalla Francia (di cui Giovanna D'Arco era già simbolo) nella Prima Guerra Mondiale.

Altra figura molto controversa, ma di nomina molto più recente, è quella di San Pio da Pietrelcina.
Padre Pio fu già molto venerato in vita. La sua fama si estese in tutta Italia grazie al suo carisma ed alle stimmate. E' però storia nota che il Vaticano ebbe un atteggiamento molto ostile nei confronti del frate. 
Papa Benedetto XV fu molto scettico nei confronti di Padre Pio e autorizzò subito indagini sulle sue famose stimmate. Già nel 1919 furono raccolte alcune testimonianze che gettano grossi dubbi sulla natura divina delle stimmate, infatti un farmacista dichiarò di aver venduto acido fenico ad una persona che dichiarò di acquistarlo per contro del frate, inoltre nello stesso anno il giornalista de Il Mattino Enrico Morrico sostenne di aver visto una boccetta di acido fenico commerciale nella cella del frate. Il farmacista nella sua testimonianza dichiarò che l'acido fenico può causare ferite compatibili alle stimmate presentate da Padre Pio. E' noto che il frate fosse poco propenso a farsi analizzare le mani, dovette cedere solo in tre occasioni ad altrettanti medici mandati dal Santo Uffizio. Nel 1920 padre Agostino Gemelli, medico mandato dal Santo Uffizio ad analizzare le stimmate di Padre Pio, scrisse un giudizio impietoso. Secondo padre Gemelli le ferite erano un bluff, il frate se le era procurate da sé e aggiunse che Padre Pio possedeva le caratteristiche somatiche dell'isterico e dello psicopatico, concluse insomma che il frate fosse uno psicopatico che si procurava le ferite. 
Anche papa Giovanni XXIII fu poco tenero con il frate. Il pontefice venne a conoscenza del fatto che il frate ed il suo ordine fossero in possesso di auto e grosse somme di denaro, inoltre donne si intrattenevano regolarmente nel convento. Giovanni XXIII, oggi santo, in un documento scritto definì la situazione un "disastro di anime". Padre Pio e i suoi confratelli intanto guadagnavano grosse somme con la vendita delle pezzuole che avevano coperto, per ordine del Santo Uffizio, le sue stimmate (e si scoprì erano sporche di sangue di gallina). 
La svolta per Padre Pio arrivò con Paolo VI, il quale assunse un atteggiamento molto più favorevole sia al frate che all'ordine. Proprio sotto il pontificato di Paolo VI il Vaticano ottenne di essere nominato nel testamento del frate erede universale dei beni economici accumulati dall'ordine, ciò fornirebbe una giustificazione poco mistica e più concreta al cambio di atteggiamento del Vaticano.
La santificazione di Padre Pio è stata poi opera di Giovanni Paolo II, da sempre affascinato dalla figura del frate a tal punto da non farsi condizionare nella sua scelta dai lati oscuri della storia del frate.

Parlando di papa Giovanni Paolo II, non posso esimermi dall'inserire anche lui nell'elenco di questi santi "discutibili".
Il pontefice, che sicuramente deve la sua santità al peso della sua figura nei paesi comunisti, è ancora oggi considerato una figura chiave nella fine della Guerra Fredda.
L'opera politica di Giovanni Paolo II, che la si condivida o no, è indiscutibile. I dubbi sulla sua santità arrivano dalla gestione dello scandalo pedofilia. Tante denunce arrivarono negli anni '90 in Vaticano, ma il pontefice non intervenne mai con la dovuta fermezza nemmeno quando fu evidente che la Chiesa pensava solo ad insabbiare.
Diversi anni fa vennero poi fuori documenti che dimostravano come la Santa Sede, sin dal 1948, fosse a conoscenza di denunce a carico di Marcial Marcel Degollado, sacerdote messicano fondatore dei Legionari di Cristo. Tali denunce tornarono ad arrivare alla Santa Sede negli anni '90, quando il sacerdote fu accusato di violenze sessuali nei confronti di seminaristi minorenni. Giovanni Paolo II e Ratzinger, che all'epoca era cardinale, decisero di non agire. Un'inchiesta sul conto di Degollado partì solo nel 2005, poco prima che Ratzinger venisse eletto papa.
Oggi i difensori di Giovanni Paolo II giustificano i suoi silenzi sul caso dei preti pedofili scaricando la colpa sui suoi collaboratori, che a loro dire lo tradirono, ma considerando anche il polverone mediatico che si scatenò, riesce difficile credere che il pontefice fosse all'oscuro di tutto.

L'ultima santa dai lati oscuri, quella entrata più di recente nell'Olimpo della santità, è madre Teresa di Calcutta.
Vincitrice del Nobel per la Pace nel 1979, madre Teresa è stata fondatrice di numerose case di cura per poveri ed ha operato specialmente in India.
Cattolica fervente, madre Teresa lodava apertamente la sofferenza, dichiarò che "c'è qualcosa di bello nel vedere i poveri ad accettare il loro destino, vederli soffrire la passione di Cristo. Penso che il mondo tragga molto giovamento dalla sofferenza della povera gente". Queste parole della suora furono le sue linee d'azione, infatti già molti anni fa riviste mediche come The Lancet e British Medical Journal scrissero che le case di cura altro non erano che ospizi pieni di moribondi, dove non c'erano antidolorifici e venivano garantite cure molto dozzinali, mancava l'igiene e anche il cibo era scarso. 
Le condizioni delle case di cura gestite dalla fondazione di madre Teresa erano evidentemente legate alle convinzioni della suora, ma creano ancora oggi un dubbio: i tanti soldi ricevuti in donazioni dall'ordine che fine hanno fatto? Nessuno sa di preciso quanti soldi l'ordine abbia ricevuto, c'è solo una testimonianza di molti anni fa che parlava di 50 milioni di dollari su un solo conto, ma di certo avrebbero dovuto garantire case di cura molto meglio gestite.
Oltre alle cattive condizioni delle case di cura ed agli interrogativi sulla gestione dei soldi, madre Teresa è stata più volte criticata per le sue amicizie. E' storia nota che non si fece problemi ad accettare la legione d'onore conferitale da Duvalier, dittatore di Haiti. 
In occasione dell'assegnazione del Nobel, nel suo discorso madre Teresa mostrò anche convinzioni religiose piuttosto anacronistiche definendo l'AIDS la "giusta punizione per una condotta sessuale impropria".

Voglio concludere questo post con una precisazione. Questo post non nasce con intenti anti-clericali e non voglio ergermi io a giudice delle persone di cui ho raccontato sopra. Questo post riporta solo dei fatti storici, il mio intento è solo quello di informare. L'unica critica che mi permetto di muovere a chi ha proclamato questi santi è che avrebbero dovuto prima fare pienamente luce su questi lati oscuri, poi eventualmente procedere alla canonizzazione. Purtroppo la frettolosità di alcuni processi di canonizzazione, alcuni dei quali hanno saltato i tempi e le modalità previste dal diritto canonico, non fanno altro che alimentare i legittimi sospetti.

Francesco Abate