sabato 29 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO II DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguìti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse
perdendo me, rimarreste smarriti.
Il canto II del Paradiso si apre con una raccomandazione dell'autore ai suoi lettori. Si rivolge principalmente a quelli che hanno scarse conoscenze di teologia e lo fa ricorrendo a una metafora; raccomanda a quelli che lo hanno seguito, ma che viaggiano su una piccola barca, di tornare indietro perché, qualora dovessero perdere la loro guida in questo viaggio complesso, resterebbero dispersi in mezzo al mare. Spiega poi che sta iniziando a navigare in un mare mai esplorato prima, infatti mai la produzione poetica volgare si era occupata così approfonditamente di argomenti teologici. Lui procede grazie a Minerva che soffia i venti, quindi grazie alla sapienza, grazie ad Apollo che lo conduce, quindi grazie alla poesia, e grazie alle nove Muse che gli indicano gli astri ("mi dimostran l'Orse"), perciò grazie a tutte le arti. Si rivolge poi a quelli che si sono dedicati allo studio delle scienze divine, delle quali si vive ma non si è mai sazi; essi possono seguire la sua scia in mare e ciò che vedranno li riempirà di ammirazione più di quanto fece agli Argonauti la vista di Giasone che coltivava la terra come un semplice contadino ("metter potete ben per l'alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l'acqua che ritorna equale. / Que' gloriosi che passaro al Colco / non s'ammiraron, come voi farete, / quando Iason vider fatto bifolco"). In questa breve apostrofe ai lettori, Dante si comporta in conformità con la sua missione, che è quella di mostrare agli uomini le verità teologiche apprese nel suo viaggio ultraterreno per favorirne la redenzione; da buona guida si preoccupa infatti di dissuadere dal seguirlo coloro che non sono pronti al viaggio e che, in un cammino così impervio, rischiano di perdersi. Il pericolo per chi legge senza un adeguato bagaglio teologico è quello di non comprendere gli insegnamenti e uscire confuso dalla lettura, magari assimilando nozioni errate e ritrovandosi più ignorante di prima. 
Dante e Beatrice continuano la loro veloce ascesa, spinti dalla sete dell'Empireo che nell'uomo fu creata insieme all'anima intellettiva. Beatrice guarda verso l'alto, mentre Dante guarda lei finché, nel rapido istante in cui una freccia è scoccata dalla balestra, vola e colpisce il bersaglio, una meravigliosa visione attira la sua attenzione e lei, che vede i pensieri del suo protetto, si volta e gli dice che deve essere grato a Dio perché l'ha congiunto con il primo cielo. Riguardo al paragone della freccia, l'autore nei versi ha scelto di descrivere l'azione al contrario: "e forse in tanto in quanto un quadrel posa / e vola e da la noce si dischiava". Nel descrivere il volo di una freccia, chiunque inizierebbe dallo scoccare per finire col bersaglio colpito, il poeta invece inverte l'azione, secondo alcuni critici per semplici esigenze di rima, per altri invece con l'intenzione di rendere maggiormente l'immediatezza dell'azione. Il concetto che interessa esprimere con chiarezza a Dante è che il passaggio dal Paradiso terrestre al primo cielo avviene in un istante. 
A Dante sembra che li copra una nube luminosa, fitta, solida e senza macchie, come un diamante colpito dai raggi solari. Entrano nella Luna (l'etterna margarita), la quale rimane unita come l'acqua quando è penetrata dai raggi del sole. Quello che avviene è un miracolo, infatti lui, che è lì col suo corpo, quindi con dimensione e peso, riesce a penetrare in un altro che ha massa e dimensioni proprie. Se a Dio sono possibili queste meraviglie, deve aumentare nell'uomo il desiderio di vedere il mistero della natura umana che si unisce a quella divina nella figura di Gesù Cristo. Nel cielo si vedrà, scrive, per immediata evidenza, ciò che non è dimostrato razionalmente ma si crede per fede, come la prima verità naturale, cioè il principio di casualità ("Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'om crede"). Fatta questa considerazione, Dante si rivolge a Beatrice, alla quale manifesta la sua devozione a Dio e la sua gratitudine per averlo elevato dal mondo dei vivi, poi le chiede cosa sono le macchie lunari, che si vedono dalla Terra e sono associate a Caino. Beatrice sorride, gli spiega che è normale che la ragione umana fatichi a comprendere delle verità così lontane dal mondo sensibile, poi gli chiede di dirle lui cosa ne pensa ("Ella sorrise alquanto, e poi <<S'elli erra / l'opinion>>, mi disse, <<de' mortali, / dove chiave di senso non diserra, / certo non ti dovrien punger li strali / d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi / vedi che la ragione ha corte l'ali. / Ma dimmi quel che tu da te ne pensi>>"). Dante spiega la sua teoria, secondo cui le differenze di luminosità dei corpi celesti siano dovute alle loro differenti densità, quindi anche le macchie lunari sarebbero generate dalla diversa densità di alcune parti della superficie dell'astro. 
Sentita l'argomentazione di Dante, Beatrice gli dice che è completamente sbagliata e glielo dimostra. L'ottava sfera, quella delle stelle fisse, è composta da numerose stelle di diversa luminosità; se fosse vera la teoria di Dante, in esse vi sarebbe una sola virtù distribuita in modo disomogeneo, ad alcune in misura maggiore e ad altre in misura minore. Questa prima constatazione già basterebbe a confutare l'idea del poeta, infatti egli credeva che nelle stelle fisse erano presenti più virtù le quali influenzavano in modi diversi le creature del mondo sensibile. Espressa la prima obiezione, Beatrice spiega che la differente luminosità degli astri ha più cause diverse e Dante, soffermandosi solo sulla differente densità, ha ignorato tutte le altre. Fatta questa considerazione, prende a esempio proprio le macchie lunari: se dipendessero solo dalla differente densità, si spiegherebbero o con delle zone dell'astro dove non c'è materia o con delle differenze di volume paragonabili alla disomogenea distribuzione del grasso nel corpo umano. La prima ipotesi è confutata dal fatto che quando vi sono le eclissi di sole i raggi non attraversano quelle zone, come dovrebbe succedere se non vi fosse materia. La seconda è invece confutata dal fatto che i raggi del sole, anche se riflessi da una profondità diversa, come in una depressione della superficie lunare, dovrebbero apparire all'occhio umano con la stessa intensità luminosa, come accade quando colpiscono uno specchio (vetro lo qual di retro a sé piombo nasconde). Beatrice anticipa poi una possibile obiezione di Dante circa la sua ultima affermazione, egli potrebbe infatti sostenere che un raggio riflesso da una diversa profondità arriverebbe a noi con una luminosità diversa, e lo invita a provare un esperimento: deve prendere tre specchi, porne due alla stessa distanza dal suo volto e un terzo tra i due, ma a una distanza maggiore; deve poi porre un lume alle sue spalle in modo da essere riflesso nei tre specchi; osserverà che lo specchio più lontano rifletterà il lume con minori dimensioni rispetto agli altri due, ma l'intensità della luce sarà la stessa.
Dopo aver confutato la teoria del poeta, Beatrice lo informa di voler rimodellare il suo intelletto, inondandolo di tanta luce da farlo apparire tremolante come una stella; l'intelletto di Dante sarà come la neve che, colpita dai raggi del sole, diventa acqua e perde il colore e la temperatura che aveva prima ("Or, come ai colpi de li caldi rai / de la neve riman nudo il suggetto / e dal colore e dal freddo primai; / così rimaso te ne l'intelletto / voglio informar di luce sì vivace, / che ti tremolerà nel suo aspetto"). Spiega che dentro l'Empireo (ciel de la divina pace) ruota la sfera del Primo Mobile (un corpo) la cui virtù regola il funzionamento di tutti gli altri cieli e dell'intero universo. Il cielo seguente, quello delle stelle fisse, riceve la virtù dal Primo Mobile e la divide tra le diverse stelle come corpi distinti. Gli altri cieli dispongono i pianeti a esercitare le proprie virtù secondo la propria natura e i gli influssi di Dio. Ciascun cielo riceve l'influsso da quello superiore e lo trasmette all'inferiore. Beatrice interrompe un attimo la sua spiegazione per richiamare l'attenzione di Dante, lo invita a seguire bene come procede il suo ragionamento così da poter in seguito giungere da solo alle conclusioni. Torna a spiegare, dice che il moto dei cieli è governato dalle intelligenze angeliche, mentre quello del cielo delle stelle fisse è governato dai cherubini. Come l'anima esercita le sue diverse potenzialità attraverso membra differenti, così l'intelligenza che muove l'ottavo cielo si moltiplica per le stelle pur mantenendo la propria unità. La virtù angelica si lega poi a un pianeta, la cui materia è incorruttibile, e ognuna forma un'unione differente. Avendo natura lieta, la virtù accende di luce l'astro, così come la letizia fa brillare la pupilla di una persona. Da questo derivano le diverse luminosità degli astri, conclude Beatrice: differenti sono le virtù delle intelligenze motrici e per questo differenti sono le luminosità.

Francesco Abate  

P.S. - Vi ringrazio per l'attenzione dedicata a questo nuovo commento.
Colgo l'occasione per ricordarvi che è uscito il mio ultimo romanzo, I Protettori di Libri. Potete ordinarlo in libreria e presso i migliori rivenditori on-line.
Leggere aiuta a crescere e così è anche per lo scrivere: se leggerete il mio romanzo, avremo il piacere di crescere un po' insieme. 
Grazie.

mercoledì 26 giugno 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "CAINO" DI JOSE' SARAMAGO

Lo scrittore portoghese José Saramago si è occupato con due romanzi della religione cristiana e di Dio. Nel romanzo Il Vangelo secondo Gesù Cristo ha analizzato il Dio del Nuovo Testamento, poi a vent'anni di distanza, con Caino, si è concentrato con la figura divina descritta nell'Antico Testamento.
Come tutta l'opera di Saramago, Caino non è un romanzo fine a sé stesso e non nasce con l'intento di fare scalpore; l'autore con questo libro stravolge completamente la figura di Dio, il suo rapporto con gli uomini e i valori proposti dal Cristianesimo.

La trama di Caino nella sua semplicità è molto interessante. 
A causa del peccato originale, Adamo ed Eva vengono cacciati dal Paradiso terrestre. Essi hanno due figli, Caino e Abele. Entrambi fanno sacrifici al Signore ma, per motivi mai chiariti, quelli di Abele sono accettati di buon grado, mentre quelli di Caino vengono rifiutati. Roso dall'invidia, accentuata dalla derisione del fratello, Caino cede all'ira e uccide Abele.
Scoperto il delitto, Dio affronta Caino il quale, tutt'altro che pentito e remissivo, lo incolpa del suo gesto crudele. Alla fine, messo davanti alle proprie responsabilità, Dio non uccide Caino, ma lo condanna a un eterno girovagare e gli pone sulla fronte il famoso segno grazie al quale nessuno gli farà del male.
Inizia la lunga peregrinazione di Caino, il quale non vaga solo tra i luoghi, ma anche in diversi spazi temporali, finendo coinvolto in modo più o meno attivo nelle diverse vicende bibliche, dalla distruzione di Sodoma e Gomorra al diluvio universale.

Caino è una riscrittura originale e irriverente dell'Antico Testamento.
Come già fatto ne Il Vangelo secondo Gesù Cristo, Saramago crea un pretesto per analizzare una religione e il suo Dio. Tutti siamo abituati a pensare a Dio come al padre amorevole e misericordioso dell'umanità, ma leggendo l'Antico Testamento di amore e misericordia ci sono poche tracce. Su questo gioca Saramago, e per farlo usa come protagonista colui che è nella tradizione la perfetta incarnazione del male, Caino.
Come ci hanno insegnato in chiesa, Caino è il primo assassino della storia, uccide infatti il pio Abele per invidia. Nella Bibbia Dio predilige Abele perché questi è più devoto, quindi è colpa di Caino se c'è questa preferenza. Qui nel romanzo abbiamo il primo stravolgimento: Dio predilige Abele per capriccio, e Caino è spinto all'omicidio dalla frustrazione e dal comportamento scorretto del fratello, che lo deride. In questo libro Caino è sì l'assassino, ma allo stesso tempo è la vittima, mentre il vero colpevole è Dio che ha creato i presupposti dell'omicidio.
Il lungo peregrinare a cui è condannato il protagonista diventa poi il pretesto che permette a Saramago di rileggere i fatti più importanti della Bibbia. Non ve li elencherò tutti per non rovinarvi il piacere della lettura, mi limito solo a dire che emerge un ritratto di Dio capriccioso e crudele, che non ama per nulla l'umanità e manca completamente di misericordia. 
Un episodio che devo necessariamente citare è quello delle piaghe mandate da Satana al pio Giobbe per via di una scommessa fatta con Dio. Una volta conosciuta la verità, Caino conclude che Satana non è altri che un angelo che fa il lavoro sporco per Dio, mettendo perciò sullo stesso piano le due figure, testimoniando che tra il bene e il male non c'è tanta differenza.

Questo romanzo, così originale nei contenuti e tanto irriverente nella scrittura da risultare simpatico, non è una semplice storia scritta per intrattenere.
Saramago ribalta la figura del Dio biblico e lo fa per mostrarci come nella principale religione monoteista, la più importante per diffusione nel mondo, il Dio presentato come amorevole e misericordioso è descritto in modo da mancare completamente di queste due caratteristiche. Dio ama l'uomo, ci dicono, ma la Bibbia ci narra di Sodoma e Gomorra incenerite senza pietà, dell'umanità azzerata dal diluvio universale, di un padre spinto sul punto di uccidere l'unico figlio (Abramo) e di un pio uomo devoto ridotto a larva umana semplicemente per metterlo alla prova.
Il Dio dell'Antico Testamento viene spogliato della retorica clericale e visto solo per ciò che nella Bibbia è scritto, quindi diventa molto simile alle divinità della mitologia greca o di quella romana, un essere capriccioso che gioca con le vite umane tanto per passare il tempo. 
Questa distruzione di Dio porta ovviamente a ripensare i concetti di bene e male. La Bibbia ci presenta Abramo, pronto a sacrificare a Dio il suo unico figlio, come persona estremamente devota; Saramago questa devozione la chiama col suo vero nome, crudeltà. La distruzione di Sodoma e Gomorra, che per la religione sono una purificazione, in questo romanzo diventano atti di violenza indiscriminata, senza nessuna misericordia per gli innocenti (spesso, a ricordare questa crudeltà, vengono citati i bambini periti a Sodoma).

I personaggi del romanzo sono quelli della Bibbia, ma realmente approfonditi sono solo Caino e Dio. Il primo è un uomo pieno di demoni, che non trova mai pace ed è roso da un profondo astio nei confronti del Signore, da cui sente di aver subìto un grande torto. Man mano che conosce l'opera di Dio, il suo astio aumenta e sfocia in una sfida aperta. Nei suoi discorsi con Dio si mostra anche molto irriverente e per niente timoroso del Signore, come se non ne riconoscesse la superiorità.
Dio appare come un'entità capricciosa, gioca con gli uomini come un bimbo coi soldatini, non prova nessun amore per gli esseri umani e come unica preoccupazione ha quella di essere adorato. 
Un personaggio minore, che però occupa diverse pagine del romanzo è Lilith, una donna sposata e dedita alla più sfrenata lussuria, con cui Caino intrattiene una lunga relazione sessuale e da cui ha un figlio. Nella Bibbia di questa donna c'è solo qualche traccia, mentre negli antichi testi dell'Ebraismo è presentata come la prima moglie di Adamo, la quale fuggì dall'Eden perché non intenzionata a sottomettersi al maschio. Siamo perciò in presenza della prima femminista dell'umanità, e anche in questo romanzo viene presentata come una donna che esercita una libertà sessuale assolutamente inusuale nell'epoca in cui si svolge la vicenda. Nella tradizione ebraica, Lilith è una specie di demone, anche amante di Satana, invece in questo romanzo diventa una figura positiva, è l'unica persona con cui Caino intrattiene un lungo rapporto interpersonale, l'unica con cui va d'accordo, che mai gli dà problemi e che, tutto sommato, lo rende felice e da lui trae la propria felicità. Anche qui vediamo lo stravolgimento dei valori cristiani di cui scrivevo sopra: la tradizione ebraica chiama lussuria ciò che Saramago chiama libertà; non c'è dannazione in Lilith, ma è l'unico personaggio del romanzo ad assaporare e a dare la felicità.

Io credo che Caino sia uno dei migliori romanzi di Saramago, nonché una delle letture che al giorno d'oggi andrebbero considerate necessarie.
Vivendo in un'epoca molto superficiale, da Caino e da Il Vangelo secondo Gesù Cristo c'è molto da imparare. Saramago era ateo, come sono moltissime persone nel mondo. Oggi però, così come c'è la tendenza a essere religiosi con superficialità, c'è anche la tendenza a un ateismo acritico, cioè si sceglie spesso di essere atei per moda o per essere liberi dagli obblighi prescritti dalle varie religioni. Molte volte viene chiamato "ateismo" una sorta di agnosticismo passivo, cioè il totale disinteresse circa le questioni dello spirito: non ci si dà una risposta perché ci si scoccia di fare la domanda. Con le due opere "religiose", Saramago invece ci mostra come un ateo possa prodursi in una profonda riflessione circa le religioni e la metafisica, da lui possiamo perciò imparare l'ateismo attivo, cioè quello a cui si giunge dopo attente e profonde riflessioni. Lo scrittore portoghese non crede nei valori proposti dalla religione cristiana, non si limita però a rinnegarli, li mostra sotto una luce diversa per mostrare a tutti dove sono gli errori e quanta grottesca sia la figura del Dio biblico.
Come ho già detto sopra, considero Caino uno dei migliori romanzi di questo scrittore che adoro, anche se a mio modo di vedere ha qualcosa in meno rispetto a Il Vangelo secondo Gesù Cristo; sono entrambe opere che fanno riflettere, ma la seconda mi ha anche profondamente emozionato, mentre la prima tiene un tono più irriverente e diverte più che emozionare.

Francesco Abate  

domenica 23 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO I DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Il primo canto della terza cantica si apre con una protasi, come nella tradizione classica. Il Paradiso è il regno dove le imperfezioni umane non esistono più, non ci sono più quindi né la dannazione dell'Inferno né la redenzione del Purgatorio, e soprattutto l'elemento umano assume un valore assolutamente trascurabile rispetto a quello divino; in virtù di questa considerazione, Dante apre la cantica con una riflessione di natura filosofica. Per tutto l'universo si spandono gli effetti della causa prima, di Dio, il cui splendore si riflette di più o di meno nelle cose sensibili in conformità con la loro perfezione intrinseca. L'autore ci informa di essere riuscito a salire fino all'Empireo, nel ciel che più de la sua luce prende, laddove è Dio, ma di non sapere e di non potere raccontare ciò che ha visto; si giustifica spiegando che è un limite dell'intelletto umano il quale, giunto così vicino a ciò che più desidera, diventa tanto profondo da non permettere alla memoria di seguirlo e tornare a quelle visioni. Nonostante i limiti derivanti dalla memoria, Dante scrive che l'argomento della cantica sarà proprio ciò che ha visto nel regno santo e che è servito ad arricchirlo nella mente e nell'anima. Terminata questa introduzione, l'autore invoca Apollo, chiedendogli l'ispirazione per poter raggiungere la perfezione dei versi necessaria affinché un poeta sia incoronato di alloro (pianta sacra al dio, derivante dal sacrificio di Dafne). Fatta l'invocazione, Dante la abbellisce con altri versi. Dichiara che fino a questo momento gli è bastata una cima del Parnaso per cantare ciò che ha visto, adesso invece ha bisogno di entrambe; il significato è che per cantare dell'Inferno e del Purgatorio gli è stato sufficiente l'aiuto delle Muse, adesso è necessario che entri in azione lo stesso dio della poesia. Chiede poi al dio di ispirarlo, di entrare nel suo petto così come fece con Marsia quando lo scorticò dopo averlo battuto in una gara di musica. Gli dice infine che, qualora dovesse ricevere dal dio la capacità di narrare in versi ciò che ha visto nel Paradiso, andrà all'albero di alloro a coronarsi con le sue foglie; capita così di rado che un condottiero o un poeta diventi degno di cingersi il capo di alloro, a causa della scarsa ambizione umana, che quando qualcuno desidera farlo Apollo dovrebbe esserne lieto. In pratica Dante chiede l'aiuto del dio e prova a convincerlo spiegandogli che l'argomento della cantica è tanto importante da poterlo rendere immortale, cosa che dovrebbe fargli piacere. Termina l'invocazione dicendo che forse, dopo di lui, saranno gli stessi beati del Paradiso a pregare il dio perché l'opera interessa tutto il mondo cristiano, non solo l'autore ("Poca favilla gran fiamma seconda: / forse dietro da me con migliori voci / si pregherà perché Cirra risponda"). 
Finita la protasi, inizia l'argomento vero e proprio con una considerazione di natura astronomica. Il sole (la lucerna del mondo) sorge nel mondo da diversi punti, ma quando nel cielo i quattro cerchi formano tre croci, si congiunge con una migliore stella e emana una migliore luce, e la materia del mondo (la mondana cera) riceve dal cielo migliori influssi. Il riferimento che fa l'autore è all'equinozio di primavera, quando il sole si congiunge con la costellazione dell'Ariete e coi suoi raggi fa rinascere la natura, quindi ha effetti più benefici. Per quanto riguarda i quattro cerchi e le tre croci, Dante immagina tracciate nel cielo le linee dell'equatore, dell'eclittica e del coluro equinoziale, le quali si intersecano con quella dell'orizzonte e formano tre croci; l'osservazione non è casuale, permette infatti di richiamare i numeri quattro e tre, quindi le virtù cardinali e teologali, e serve a dirci che sono queste a formare meglio la natura umana ("Surge ai mortali per diverse foci / la lucerna del mondo; ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci, / con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo modo tempera e sugella"). Il sole è nella posizione da cui illumina quasi interamente l'emisfero in cui si trova Dante (è ancora nel Paradiso terrestre al momento), quindi anche la montagna del Purgatorio, mentre Gerusalemme è avvolta nelle tenebre della notte. Il poeta nota Beatrice che si volta a sinistra e fissa lo sguardo verso il sole con un'intensità mai vista nemmeno nelle aquile. Così come il raggio riflesso si separa da quello principale e sale in alto, o come il falco pellegrino risale dopo aver afferrato la preda, Dante è preso dal desiderio di imitare Beatrice e volge a sua volta lo sguardo verso il sole, fissandolo ben oltre le capacità umane. Circa il verso "pur come pelegrin che tornar vole", alcuni critici lo hanno interpretato con la figura del falco pellegrino, il cui moto fu descritto da Alberto Magno nel De falconibus, altri invece con quella del pellegrino che riprende la strada di casa, ma su questa seconda interpretazione alcuni sono scettici perché non giustificherebbe la salita verso l'alto. Guardando il sole, Dante si accorge di aver recuperato le doti originali dell'uomo antecedenti al peccato originale; non riesce a guardare molto a lungo l'astro, ma a differenza di un normale occhio umano resiste abbastanza per vedere che tutto intorno sfavilla come il ferro incandescente, e ha la sensazione che il cielo si ingrandisca come se al sole Dio ne abbia aggiunto un altro ("Molto è licito là, che qui non lece / a le nostre virtù, mercé del loco / fatto per proprio de l'umana spece. / Io nol soffersi molto, né sì poco, / ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, / com ferro che bogliente esce dal foco; / e di subito parve giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che pote / avesse il ciel d'un altro sole adorno"). Beatrice tiene gli occhi fissi nelle sfere celesti e lui, distogliendoli dal sole, li fissa nei suoi. Nel momento in cui guarda la donna, Dante si sente trasformare come il mitologico pescatore Glauco, il quale divenne divinità marina per aver mangiato dell'erba magica. Scrive l'autore che non è possibile spiegare la trasumanazione (l'elevazione oltre i limiti della natura umana per attingere a quella divina), al lettore deve bastare l'esempio di Glauco per immaginarla e la speranza di viverla in prima persona da beato ("Trasumanar significar per verba / non si poria; però l'esempio basti / a cui esperienza grazia serba"). Se adesso lui è solo l'anima razionale, scrive l'autore all'amor che 'l ciel governi, con la sua grazia Dio lo sta elevando. Vede nello spazio il moto delle sfere celesti, moto derivante dal desiderio del principio primo, e ascoltandone l'armonia generata dal loro movimento,  gli sembra il cielo tanto acceso dalla luce del sole che la pioggia o un fiume mai hanno creato un lago tanto ampio. 
Il suono delle sfere celesti e la grande luce fanno nascere un nuovo dubbio nel cuore di Dante. Beatrice, che vede nella sua mente come fosse lui stesso, gli risponde subito senza aspettare che domandi, e gli spiega che adesso non è più sulla Terra, ma sta salendo verso la sua vera patria (l'Empireo) a una velocità superiore a quella del fulmine che lascia la sfera del fuoco (il proprio sito). 
Il poeta, sciolto un dubbio, ne sente nascere subito un altro. Stavolta non aspetta che Beatrice parli, ma le spiega di essere soddisfatto della precedente spiegazione, chiedendole poi come possa col suo corpo salire attraverso la sfera dell'aria e del fuoco (corpi lievi). Lei sospira e lo guarda con l'aria di una madre che osserva il figlio delirante, poi gli risponde. Tutte le cose create sono ordinate ed è quest'ordine che rende l'universo somigliante a Dio, in esso le creature superiori (gli uomini) vedono la causa prima e conoscono la Sua perfezione. Tutte le creature tendono a Dio, ciascuna per diverse sorti e con un differente appetito naturale; questo principio porta il fuoco a tendere verso l'alto, regola il cuore degli animali con una legge interna, fa mantenere la terra compatta, e guida anche le creature dotate di intelligenza e amore (gli uomini e gli angeli). La Provvidenza rende sempre lieto l'Empireo, il cielo dove risiede Dio e dove tutti tendono in virtù dell'istinto naturale. Anche se l'istinto porta l'uomo verso l'Empireo, egli ha il libero arbitrio e può deviare il suo cammino, come la materia che non si piega alle intenzioni dell'artista; così come il fulmine, l'essere umano può cadere verso il basso invece che tendere verso l'alto, deviato dai falsi piaceri terreni. Beatrice esorta infine Dante a non meravigliarsi della sua ascesa, deve vederla come un fenomeno naturale paragonabile al fiume che dal monte scende a valle; dovrebbe meravigliarsi se, privo ormai dell'impedimento del peccato, fosse ancora sulla Terra. 
Terminata la spiegazione, Beatrice volge di nuovo lo sguardo verso il cielo.

Francesco Abate     

domenica 16 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< Deus, venerunt gentes >>, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando:
e Beatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
Il canto inizia con le sette fanciulle, le sette virtù, che cantano il Salmo 78. Le parole del Salmo in questione parlano dell'irruzione dei gentili, che portarono rovina e sangue nel tempo di Gerusalemme, e invocano l'intervento di Dio. Questo canto, eseguito dalle fanciulle in lacrime, mette in relazione la corruzione della Chiesa, guidata dalla prostituta e dal gigante (papato corrotto e regno di Francia), con la profanazione del tempio di Gerusalemme. Beatrice ascolta con un'aria addolorata paragonabile a quella di Maria ai piedi della croce; quando  smettono di cantare, lei si alza in piedi e ripete le parole che il Vangelo di Giovanni attribuisce a Gesù nell'ultima cena (<< Ancora un po' e non mi vedrete, e ancora un po' e mi rivedrete >>). Questa dichiarazione ha il sapore di una profezia e per alcuni critici annuncia l'imminente rinnovamento della Chiesa, mentre per altri è la previsione della scarsa durata della cattività avignonese. Beatrice lascia passare avanti le sette fanciulle e le segue, seguita a sua volta da Dante e Stazio (il "savio che ristette"). Non più colorata come foco, ma con tranquillo aspetto, dopo neanche dieci passi percorsi sprona il poeta ad avvicinarsi e gli chiede come mai non osi chiedere ciò che vorrebbe. Dante è ancora troppo timoroso dopo gli aspri rimproveri ricevuti prima, lei lo sa e capisce che da questo timore nasce il suo silenzio, perciò lo chiama "fratello" per rasserenare il clima del colloquio e mostrargli che non sono più accusatrice e accusato. La risposta del poeta è impacciata come quella di chi risponde a un'autorità da cui è intimorito, si limita a smozzicare una frase e dirle che lei sa di cosa lui ha bisogno, persistendo perciò nella sua rinuncia a porre domande. La donna gli dice che deve abbandonare timori e vergogna, così da non parlare più come un uomo che sogna (non scandendo bene le parole), poi gli spiega che il carro distrutto dal drago fu la Chiesa, ora è come se non esistesse più, e annuncia poi che la vendetta di Dio cadrà sul colpevole di questa distruzione. Parlando della vendetta divina, Beatrice afferma che non teme suppe, riferendosi probabilmente a una vecchia usanza feudale (si ignorano le fonti dei commenti che ne danno notizia) che voleva immune alle vendette l'assassino che riusciva a mangiare una zuppa per nove giorni sul sepolcro della propria vittima; non ci sono scappatoie, l'ira di Dio calerà inesorabilmente sul colpevole. Per altri critici la parola suppa deriva dal latino iuppa, che significa "giubba", e la frase significa che non ci sono corazze che possano difendere dalla vendetta di Dio. In qualunque modo si voglia intendere la frase, il concetto rimane sempre lo stesso e afferma l'impossibilità per il colpevole di fuggire l'ira di Dio. Fatta questa premessa, Beatrice esprime una delle più criptiche previsioni dell'intero poema: l'aquila che ha lasciato le penne sul carro non resterà tutto il tempo senza eredi, lei vede con chiarezza che è vicino un tempo in cui un messo di Dio ucciderà la prostituta e il gigante ("Non sarà tutto tempo senza reda / l'aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch'io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque, / secure d'ogn'intoppo e d'ogne sbarro, / nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque"). Difficile è stabilire con esattezza a chi si riferisse l'autore, di certo egli fa affermare alla nuova guida celeste che un imperatore sarà incoronato in Italia, dando perciò nuova discendenza all'Impero romano (l'aquila), e ci sarà un cinquecento diece e cinque che distruggerà il papato corrotto e il re di Francia, restituendo purezza e dignità alla Chiesa. Il numero indicato nei versi del canto, scritto con le cifre romane è DXV; anagrammando tali lettere, si ottiene la parola latina DVX, che ci rimanda alla figura di un imperatore che, tornando alle parole precedenti, sarà incoronato in Italia. Non è certo a chi si riferisse l'autore, ma si sospetta che le sue speranze fossero riposte in Arrigo VII, che fu incoronato in Italia nel 1312 e a cui Dante nelle Epistole scrive: "In te crediamo e speriamo, affermando te del cielo ministro, della chiesa figliolo, e della romana gloria promotore".
Beatrice continua il discorso ammettendo che la sua narrazione, oscura come gli enigmi della Sfinge e i responsi di Temide (figlia della Terra e di Urano), è difficile da essere accolta dal poeta, però presto sarà tutto chiarito e per questo lo invita a scrivere tutto ciò che ha detto per coloro che vivono ancora la vita mortale, e lo sprona inoltre a scrivere dell'albero della conoscenza che per due volte è stato spogliato delle foglie. Chiunque rubi o ferisca quella pianta reca un'offesa a Dio, che la creò solo a proprio uso; colui che la prima volta oltraggiò Dio mangiando il frutto dell'albero, ha dovuto poi attendere cinquemila anni nel Limbo finché un altro uomo, Gesù, non ha deciso di scontare su di sé quel peccato. La donna afferma poi che è assopito l'ingegno di Dante se non comprende il motivo singolare per cui l'albero è altissimo e dalla forma capovolta; se i suoi pensieri non fossero induriti come le acque calcaree del fiume Elsa, e se i piaceri terreni non gli avessero offuscato la mente così come il sangue di Piramo sporcò il gelso, avrebbe associato all'albero la giustizia di Dio e capito perché era proibito all'uomo. Siccome però, conclude, vede l'intelletto del poeta ancora pietrificato, fermo nei suoi limiti, al punto da non comprendere appieno le sue parole, lo esorta a conservare almeno un vago ricordo di ciò che gli ha spiegato, così come il pellegrino che torna dalla Terrasanta conserva un bordone coronato di palma in ricordo del suo viaggio. Dopo la profezia, il discorso di Beatrice ribadisce la missione sacra del poeta, cioè quella di spiegare le verità divine ai mortali, ma afferma come il sapere umano sia troppo limitato per comprenderle appieno, quindi all'uomo non resta che conservare un ricordo approssimativo di ciò che ha visto e divulgarlo al resto del mondo, sforzandosi di essere il più preciso possibile. 
Sentita la profezia e l'ordine di Beatrice, Dante promette che nella sua mente le immagini resteranno fedeli al vero così come nei sigilli fatti con la cera, però le chiede come mai le sue capacità intellettuali non riescano a fargli comprendere appieno quel messaggio. La donna gli spiega che adesso vede quanto la sua filosofia, il suo umano sapere, sia inadeguata a comprendere la teologia, e vede come da essa disti quanto la terra dal Primo Mobile (il cielo che si muove più in alto). Il poeta afferma di non ricordare di essersi mai allontanato da lei; Beatrice gli spiega che ciò è dovuto alle acque del Letè e proprio il fatto di non ricordare più la sua colpa dimostra che l'ha commessa, poi gli promette che da ora in avanti parlerà in modo più semplice, così che anche il suo rozzo intelletto possa comprenderla (<< E se tu ricordar non te ne puoi >>, / sorridendo rispuose, << or ti rammenta / come bevesti di Letè ancoi; / e se dal fummo foco s'argomenta, / cotesta oblivion chiaro conchiude / colpa ne la tua voglia altrove attenta. / Veramente oramai saranno nude / le mie parole, quanto converrassi / quelle scovrire a la tua vista rude. >>). 
Ormai è mezzogiorno, il sole sembra procedere più lentamente lungo il meridiano, il quale muta posizione a seconda del punto da cui lo si osserva, e di colpo le sette fanciulle si fermano così come fanno le guide quando scorgono qualcosa di insolito lungo il percorso. Si sono fermate alla fine di un'ombra tenue, simile a quella proiettata dalle foglie verdi o dai rami che sembrano neri presso i freddi fiumi delle Alpi. A Dante sembra di vedere il Tigri e l'Eufrate sgorgare da una fonte e dividersi, il corso delle acque non è per niente tumultuoso e sembrano due amici che passeggiano pigri. Il poeta chiede a Beatrice di dirgli che fiume è quello; lei gli dice di chiedere a Matelda e quest'ultima gli ricorda di averglielo già detto, ritenendo improbabile che le acque del Letè gli abbiano fatto dimenticare questa informazione. A questo punto Beatrice ipotizza che una preoccupazione maggiore gli abbia fatto dimenticare il nome del fiume, gli dice che si chiama Eunoè e invita Matelda a immergerlo nelle sue acque, così da ravvivare la sua virtù tramortita. Matelda, come l'anima gentile che rende propria la voglia altrui non appena le viene manifestata, prende Dante e invita Stazio a seguirlo, poi li immerge entrambi nell'Eunoè. L'autore non ci descrive nel dettaglio la sua immersione nel nuovo fiume, ci dice che ha terminato lo spazio dedicato alla cantica e ci racconta che tornò dal fiume come una pianta che torna a germogliare, pronto e disposto a salire a le stelle. L'Eunoè è il fiume le cui acque danno memoria del bene, quindi dopo essersi liberato definitivamente dal peccato, l'anima di Dante rifiorisce nutrendosi delle opere buone.
Anche questa cantica termina con la parola stelle, così come l'Inferno ("E quindi uscimmo a riveder le stelle") e il Paradiso ("l'amor che move il sole e l'altre stelle"). Nella prima cantica il verso finale ci dà quasi l'idea di una fuga riuscita, col poeta che è tornato all'aperto dopo il cammino straziante nell'Inferno; nella seconda invece ci suggerisce l'imminente ascesa verso il Paradiso, quindi uno stato di transizione, di perfezionamento; nella terza il verso finale è invece il punto esclamativo che chiude l'opera e descrive in pochissime parole Dio.

Con questo canto si chiude il Purgatorio. In questa cantica, a differenza che nell'Inferno, abbiamo visto passare in secondo piano le vicende umane, mentre è stato concesso molto più spazio alle valutazioni filosofiche e teologiche. 
Nei canti finali, quelli inerenti la permanenza di Dante nel Paradiso terrestre, abbiamo visto un uso molto abbondante e sapiente dei simboli che è servito a fondere in un'unica visione la valutazione politica e teologica della storia e del futuro della Chiesa. 
Essendo l'Eden una sorta di anticipo del Paradiso, anche il linguaggio si è ulteriormente raffinato, i versi sono diventati più dolci e la loro interpretazione si è fatta più complessa; un'anticipazione di quella che sarà l'evoluzione dell'opera nel Paradiso.

Francesco Abate

martedì 11 giugno 2019

I PROTETTORI DI LIBRI


Sono felice di annunciarvi che dal 28 giugno sarà disponibile il mio terzo romanzo, I Protettori di Libri (0111 Edizioni).

Grazie alla collaborazione dei miei amici, con cui normalmente giro cortometraggi, ho preparato un breve booktrailer.

Seguite il blog e i miei canali social per tenervi sempre aggiornati.

Grazie.

Francesco Abate

domenica 9 giugno 2019

I PROTETTORI DI LIBRI STANNO ARRIVANDO


Seguite il blog per saperne di più!

COMMENTO AL CANTO XXXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Tant'eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti;
ed essi quinci e quindi avean parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli l'antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch' io udi' da loro un << Troppo fiso! >>;
e la disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Il canto XXXII del Purgatorio inizia con Dante che contempla Beatrice. Bramava la vista dell'amata da dieci anni (la vicenda si svolge nel 1300, la donna morì nel 1290) e in lei perde lo sguardo, finendo per ignorare tutti gli altri sensi, quindi per non percepire più nulla di tutto ciò che ha intorno. I suoi occhi non possono essere distolti dalla meravigliosa visione, è come se ai lati vi fossero due pareti di noncuranza che li tengono fissi nella loro posizione; raccontando del magnetismo di Beatrice, l'autore constata come il vecchio amore e la santa risata abbiano catturato il suo sguardo come una rete. Lo sguardo dell'uomo però è troppo imperfetto per poter cogliere appieno la magnificenza della natura divina, la metafisica umana non può comprendere appieno la teologia, perciò le tre fanciulle (le virtù teologali) esclamano che guarda troppo fissamente la donna e distolgono il suo sguardo girandogli il volto. Dante si accorge di essere stato così tanto abbagliato da aver perso temporaneamente la vista, così come accade quando si fissa lo sguardo sul sole. In questi dodici versi si sviluppano all'unisono il contenuto religioso e la poesia d'amore; i primi sono una romantica descrizione dell'uomo innamorato che torna a guardare dopo tanti anni la donna amata che aveva perduto, ma l'andamento successivo serve a spiegare l'inadeguatezza della metafisica umana per l'acquisizione di una piena conoscenza del divino.
Spostato lo sguardo su una fonte di luce meno brillante, cioè il corteo, vede la processione voltarsi e incamminarsi verso oriente. Il corteo è chiamato dall'autore glorioso essercito, questo a sottolineare la lotta della Chiesa per la diffusione della verità cristiana. Il cambio di direzione del corteo è ordinato, ricorda all'autore il ripiegamento degli eserciti in difficoltà, quando, riparati dagli scudi, i soldati invertono il senso di marcia e fanno passare prima la fila che reca il vessillo, poi tutti gli altri; i ventiquattro signori cambiano direzione prima che lo faccia il carro, così da trovarsi davanti anche dopo l'inversione. Le fanciulle tornano vicino alle rispettive ruote e il Grifone tira il carro senza muovere minimamente le ali, mostrando così la tranquillità che è propria di chi è forte ("Indi a le rote si tornar le donne, / e 'l Grifon mosse il benedetto carco / sì, che però nulla penna crollonne"). Matelda ("La bella donna che mi trasse al varco"), Dante e Stazio seguono la ruota che descrive l'arco più piccolo, quindi la ruota destra. La nuova processione che attraversa il Paradiso terrestre, vuoto a causa del peccato di Eva, è accompagnata da una musica angelica ("Sì passeggiando l'alta selva vòta, / colpa di quella ch'al serpente crese, / temprava i passi un'angelica nota"). Dopo aver percorso lo spazio che potrebbe percorrere una freccia scoccata tre volte, Beatrice scende dal carro. Dante sente che tutti mormorano << Adamo >>, probabilmente sottintendendo un rimprovero a colui che abitava il Paradiso terrestre e ne fu cacciato, poi circondano un albero privo di foglie e di fronde su ogni ramo, una pianta la cui chioma spoglia tanto più si dilata quanto più si eleva verso l'alto, ed è tanto grande che susciterebbe meraviglia anche nei boschi dell'India. Arrivato alla pianta, dal corteo si alza una lode al Grifone, che col becco non incide il legno della pianta, poiché ha gusto dolce ma causa dolori al ventre. L'albero rappresenta l'albero della conoscenza del bene e del male, quello da cui Eva mangiò il frutto, e il corteo allude al fatto che Gesù mai offese la giustizia divina. Il Grifone risponde affermando che solo così si rispetta il principio di ogni giustizia. A questo punto il Grifone avvicina il carro e ne lega il timone a una frasca dell'albero ("E vòlto al tempo ch'elli avea tirato, / trasselo al piè de la vedova frasca, / e quel di lei a lei lasciò legato"). Come quando il sole primaverile piove dal cielo, quando il sole attraversa la costellazione dell'Ariete , e le piante si coprono di foglie e si gonfiano le gemme prima che il sole passi nella costellazione del Toro, così l'albero si riempie di fiori colorati tra il rosa e il violetto ("Come le nostre piante, quando casca / giù la gran luce mischiata con quella / che raggia dietro a la celeste lasca, / turgide fansi, e poi si rinovella / di suo color ciascuna, pria che 'l sole / giunga li suoi corsier sotto altra stella; / men che di rose e più che di viole / colore aprendo, s'innovò la pianta, / che prima avea le ramora sì sole"). 
Nonostante sia interessato a quel prodigio, Dante si addormenta. Dapprima sente cantare un inno dal contenuto tanto sovrannaturale da risultargli incomprensibile, poi l'autore ammette di non riuscire a spiegare come abbia potuto il sonno sorprenderlo, così come non può spiegare come Mercurio fosse riuscito ad addormentare Argo raccontandogli gli amori di Pan e Siringa. Non potendolo spiegare (si paragona a un pittore che non può dipingerlo), passa direttamente a descrivere ciò che ha visto al suo risveglio ("S'io potessi ritrar come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, / li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; / come pintor che con essempro pinga, / disegnerei com'io m'addormentai; / ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga"). 
A svegliare il poeta è la voce di Matelda, il cui splendore riesce a riportarlo in sé così come il ritorno all'aspetto normale di Gesù riportò in sé gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo dopo la trasfigurazione. I tre apostoli caddero in un'estasi più profonda di quella del poeta quando videro i primi segni della divinità di Cristo, chiamati da Dante "fioretti del melo", quella divinità di cui gli angeli sono ghiotti e si soddisfano continuamente nel Paradiso, e tornarono in sé solo quando Gesù ritornò nelle sue spoglie normali, senza più avere accanto Mosè e il profeta Elia. Confuso, Dante le chiede dove sia Beatrice, e lei gli dice che sta sotto la fronda dell'albero rifiorito. Matelda gli mostra che è circondata dalle fanciulle, mentre i signori vanno via dietro al Grifone, cantando un inno più dolce e più profondo di quelli precedenti. Attratto dalla vista di Beatrice, Dante smette di ascoltare e l'autore non sa dirci se Matelda ha detto altro oppure no. Beatrice siede sola sulla terra vera del Paradiso terrestre, lasciata a guardia del carro legato lì dal Grifone. In cerchio la circondano le sette fanciulle, le quali portano i candelabri che non possono essere spenti dai venti (Aquilone e Austro); essi rappresentano i doni divini, sono perciò sicuri e non possono mai venir meno. Beatrice si rivolge al poeta, gli dice che resterà ancora per poco nel Paradiso terrestre, poi ascenderà al Paradiso (quella Roma onde Cristo è romano), adesso però deve guardare attentamente il carro e dovrà poi scrivere tutto ciò che vedrà, a vantaggio di quelli che vivono nel peccato. La donna così esplica quella che è la missione di Dante, cioè mostrare al mondo quelle verità divine che sono l'unica salvezza dalla dannazione ("<< Qui sarai tu poco tempo silvano; / e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano. / Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive >>"). Lui, che a lei e ai suoi comando è devoto, volge i suoi occhi e la sua attenzione al carro.
Con un'incredibile rapidità, che non ha mai visto nemmeno nel fulmine (foco di spessa nube), un'aquila scende e attacca l'albero, rompendo i fiori e il legno, poi si abbatte sul carro, facendolo vacillare come una nave tra le onde. Subito dopo arriva una volpe ad attaccare il fondo del carro; è un animale magrissimo, sazio di ogni cibo, che viene messo subito in fuga da Beatrice. Poi l'aquila scende nuovamente sul carro, stavolta però in atteggiamento protettivo, e vi lascia sopra alcune delle sue penne, mentre una voce dal cielo constata rammaricata che il carro è carico di cattiva merce ("O navicella mia, com mal se' carca!"). La terra si apre tra le ruote e ne esce un drago che conficca la coda nel carro, poi la ritrae come fa la vespa col pungiglione, portando via con sé il fondo. Quello che del carro è rimasto, cioè le ruote e il timone, si copre delle penne lasciate dall'aquila in un tempo inferiore a quello che si impiega per sospirare. Così trasformato, il carro genera delle teste: tre sul timone e una in ciascun angolo. Le teste sul timone hanno due corna come i buoi, invece le altre quattro presentano un solo corno; Dante non ha mai visto un mostro del genere. Fiera e orgogliosa, come una rocca sulla cima di un alto monte, sul carro siede una prostituta sfacciata (sciolta), che volge tutt'intorno il suo sguardo lascivo; accanto a lei c'è un gigante, e si baciano diverse volte. Poiché la prostituta volge lo sguardo lussurioso a Dante, il gigante la frusta su tutto il corpo e poi, carico d'ira, scioglie il mostro dall'albero e lo guida per la selva, tanto che solo la stessa nega al poeta la vista del mostro e della prostituta.

Il canto XXXII è molto ricco di simboli che ho scelto di analizzare al termine della spiegazione, onde evitare di appesantire troppo il commento.
L'albero a cui giunge il corteo è l'albero della conoscenza del bene e del male, quello di cui Eva mangiò il frutto e che portò alla sua cacciata con Adamo dal Paradiso terrestre. I frutti dell'albero hanno il potere di mostrare la giustizia divina, è però qualcosa che non può essere compresa senza danno dall'essere umano, per questo ha sapore dolce ma causa dolori al ventre. Gesù Cristo mai lese in alcun modo la giustizia divina, quindi mai il becco del Grifone ha inciso il legno dell'albero. Quando il corteo giunge alla pianta, questa è spoglia, salvo poi rinverdirsi di colpo quando il Grifone lega a essa il carro. Secondo la tradizione e la simbologia, l'albero perse i fiori e le foglie quando Adamo ed Eva commisero il peccato originale, le riacquistò poi grazie all'opera di Gesù Cristo, infine le perse nuovamente con la Donazione di Costantino, che ebbe la colpa di mischiare potere temporale e spirituale, attentando così alla giustizia divina. Dante ci descrive come il Grifone leghi il timone del carro all'albero: alcuni critici hanno visto un riferimento alla leggenda che vuole la croce di Cristo fatta dello stesso legno dell'albero biblico; per altri questo atto, unito alla seguente rifioritura, rappresenta l'uomo che, liberato dalla schiavitù del peccato attraverso l'azione della Chiesa di Cristo, recupera i diritti che aveva perduto a causa del peccato originale.
Vediamo poi andar via il corteo, con Beatrice che rimane a guardia del carro. Gesù Cristo va via e solo la verità rivelata resta a proteggere la Chiesa e il suo popolo.
La parte finale del canto racconta una serie di eventi attraverso cui il poeta ci narra la storia della Chiesa e della sua rovina spirituale. Prima di tutto Beatrice dice a Dante di vedere e scrivere tutto, quindi il poeta e la sua opera diventano parte attiva della rivelazione; la Commedia è un mezzo attraverso il quale la gente può ritrovare la via della salvezza. 
Si vede un'aquila scendere dal cielo e attaccare prima l'albero, poi il carro; essa rappresenta l'Impero romano che perseguitò i cristiani. Arriva poi una volpe, magra e digiuna d'ogne pasto buon, la quale rappresenta le eresie, che sono digiune della verità divina e sono messe in fuga dalla verità rivelata (Beatrice). L'aquila poi torna e lascia sul carro una parte delle sue penne; si tratta di un riferimento alla Donazione di Costantino, un documento fasullo (ma ritenuto originale all'epoca di Dante) attraverso cui l'imperatore Costantino faceva dono alla Chiesa dei beni e dei poteri dell'Impero romano d'occidente. L'atto è secondo Dante fatto a fin di bene, l'aquila scende infatti con fare protettivo, eppure successivamente vediamo queste penne ricoprire tutto il carro così come la gramigna infesta i terreni, quindi secondo lui segna l'inizio della corruzione della Chiesa; tanto è moralmente drammatico l'atto della Donazione, che il poeta narra di una voce che dal cielo definisce mal carca la navicella che è il carro, riprendendo una leggenda che circolava all'epoca, secondo cui al momento della Donazione si sentì la voce del Demonio dichiarare di aver avvelenato la Chiesa. La simbologia legata al drago è abbastanza scontata, con la creatura che rappresenta il Diavolo che inietta il veleno nella Chiesa, dando inizio alla corruzione che avviene grazie ai beni temporali e al potere lasciati da Costantino. Dopo l'attacco del drago, sorgono sette teste, le quali complessivamente hanno dieci corni: vediamo la degenerazione della Chiesa, la quale da sposa di Cristo si trasforma in un mostro; il numero di teste è quello dei corni sono una parodia dei sette sacramenti e dei dieci comandamenti, i quali degenerano nei sette peccati capitali. La Chiesa trasformata in una mostruosità si trova guidata da una puttana, la quale rappresenta i pontificati di Bonifacio VIII e Clemente V, che è affiancata da un gigante, che rappresenta Filippo il Bello o il regno di Francia. La puttana e il gigante si baciano, a rappresentare la collaborazione di alcuni sovrani francesi coi papi più corrotti di sempre. Quando poi lei volge lo sguardo a Dante, quindi si volge verso il popolo cristiano o, secondo altre interpretazioni, si guarda intorno in cerca di altri appoggi politici, il gigante la fustiga, chiaro riferimento all'attentato di Anagni del 7 settembre 1303 contro Bonifacio VIII organizzato da Filippo il Bello, poi scioglie il mostro e fugge nella selva, rappresentando lo spostamento del papato ad Avignone.
Il canto, che era iniziato con versi d'amore nei confronti di Beatrice, nello sviluppo e nella conclusione si rivela di natura teologica. Dapprima Dante ci racconta degli effetti del peccato originale e del ritorno alla purezza attraverso Gesù Cristo, poi con un mirabile testo allegorico ci racconta la storia della Chiesa dalla nascita fino alla cattività avignonese.

Francesco Abate     

mercoledì 5 giugno 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "4321" DI PAUL AUSTER

Pubblicato dallo scrittore americano Paul Auster nel 2017, 4321 è un romanzo di formazione molto particolare che ha riscosso un grandissimo successo sia in patria che in Europa.
Si tratta di un romanzo che mostra come una variazione possa modificare, anzi stravolgere, il destino di una persona e la persona stessa. La tesi che Auster ci propone in quest'opera è che lo spirito, soprattutto quello di un bambino, è ancora una scultura in potenza e può bastare poco per cambiarlo in maniera radicale.
Per sviluppare questo concetto, lo scrittore racconta una storia che si quadruplica. Inizia raccontandoci lo sbarco negli USA di quello che sarà il capostipite del ramo americano dei Ferguson, ci mostra come nasce la storia d'amore tra i genitori di quello che sarà il protagonista, Archie, poi divide la storia in quattro e da quel momento la sviluppa in quattro modi completamente differenti. Abbiamo così modo di osservare la stessa persona nello stesso libro, con tratti fisici e caratteriali di base sempre uguali, che vive quattro esistenze completamente differenti. La vicenda abbraccia un arco temporale che va dal 1923, quando il nonno di Archie sbarca in America, fino alla fine degli anni Sessanta.

Il romanzo inizia con la storia dello sbarco in America di colui che fonderà la famiglia Ferguson, poi si sviluppa con il racconto della crescita del figlio Stanley, il suo incontro con Rose Adler e la nascita di colui che sarà il loro unico figlio, Archie.
Stanley è un imprenditore di successo, titolare di un negozio di elettrodomestici. Dà lavoro anche ai suoi due fratelli, i quali però non esitano a cacciarsi nei guai e trascinarvi anche lui. La divisione dei destini, il bivio da cui la storia si divide in quattro, è rappresentata dall'evoluzione dell'attività di famiglia. Dal modo in cui Stanley affronta i guai causatigli dai fratelli, e dal conseguente andamento del suo negozio, si differenziano le quattro parti in cui può essere divisa l'opera.
Il romanzo si divide in quattro parti, ognuna delle quali ci mostra la crescita di Archie e il suo passaggio nell'inquieta America degli anni Cinquanta e Sessanta. Tutti e quattro gli Archie sono bravi nello sport e particolarmente amanti della letteratura, inoltre quasi tutti hanno la parola scritta nel loro destino, o come giornalisti o come scrittori.
Nei quattro destini di Archie, oltre alle attitudini, vi sono anche dei punti in comune. Uno di questi è sicuramente la presenza di Amy, che in ogni storia compare con un ruolo diverso, ma di cui il protagonista finisce sempre per innamorarsi follemente.
Auster chiude la sua opera con un finale che chiarisce il suo progetto narrativo e di fatto spiega cosa sia questo romanzo.

4321 può essere considerato un romanzo di formazione, con la particolarità di non mostrarci la crescita del protagonista in modo univoco, ma di analizzarla alla luce di una variabile che produce quattro combinazioni diverse. Spesso ci capita di chiederci cosa sarebbe stato della nostra vita se in quel dato giorno avessimo agito in un modo piuttosto che in un altro; ebbene, Paul Auster usa Archie Ferguson come cavia per farci un esempio, per mostrarci come una decisione possa cambiare irrimediabilmente non solo il corso degli eventi, ma anche l'interiorità della persona che li vive.
Molto importante in questo romanzo è il contesto storico, per questo come immagine introduttiva della recensione ho scelto quella degli studenti in rivolta alla Columbia nel 1968. Le vicende di Archie si svolgono a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, un'epoca di profondi sconvolgimenti sociali, con le proteste contro la guerra in Vietnam e gli scontri razziali a far percepire il paese come una polveriera pronta a esplodere da un momento all'altro. Non in tutti i quattro futuri di Archie il protagonista prende parte attivamente agli sconvolgimenti politici, ma li vive comunque tutti molto da vicino e questo rende le pagine del romanzo molto ricche di descrizioni dei fatti storici e degli stati d'animo che suscitarono negli americani. 
Sebbene il ruolo della storia americana sia importante nel romanzo, si tratta comunque di un'opera costruita con l'intento di fare luce sui moti dell'animo umano. Auster dedica lunghe pagine alla descrizione dei pensieri del protagonista, ci permette di conoscerlo a fondo e di perderci con lui nei suoi fiumi di entusiasmo, paura, gioia o dolore.

4321 è un romanzo molto ricco di contenuti, per questo vale sicuramente la pena di leggerlo. Non si tratta però di una lettura semplice e per lunghi tratti diventa molto pesante.
Auster ha sicuramente il merito di trattare un argomento importante e interessante, inventando un espediente narrativo efficace che permette al lettore di vedere con chiarezza i cambiamenti che un singolo evento può causare in una persona. Lo scrittore statunitense però commette degli errori che un po' rovinano l'opera. Innanzitutto sceglie di sviluppare le quattro storie parallelamente, cioè racconta le vite dei quattro Archie alternandole tra loro, non sviluppandole una alla volta in modo lineare, e così facendo rende difficile seguire le vicende senza perdersi, aumentando il rischio per il lettore di fare confusione.
Come ho detto sopra, grande spazio nel romanzo lo trova la descrizione degli eventi storici. Sicuramente nell'economia del romanzo era importante farlo, sia per definirne la collocazione temporale, sia per mostrare gli effetti del clima politico-sociale sulla psiche del protagonista; Auster ha però il difetto di dilungarsi troppo nelle descrizioni dei fatti e, considerando che tali lunghe digressioni spesso si moltiplicano per il numero di storie, in parecchie parti del libro questo porta il lettore ad annoiarsi, come fosse in presenza di un chiacchierone ripetitivo. Lo stesso problema si ha con le introspezioni, specialmente quelle inerenti gli innamoramenti o le estasi sessuali: l'autore spende numerose pagine per descrivere gli stati d'animo, a volte usando molte più parole del dovuto, e questo poi si moltiplica per quattro. 

Se la struttura e il modo di scrivere di Auster rendono il romanzo un po' pesante e non sempre godibile, 4321 lo consiglierei a qualunque giovane fosse interessato a intraprendere la strada della scrittura creativa. Sviluppando le esistenze degli Archie, l'autore tratta approfonditamente il modo in cui si approcciano alla scrittura, gli esercizi che fanno e i passi che seguono per scrivere e pubblicare i loro romanzi. 
Nei percorsi artistici le regole sono fatte perlopiù per essere infrante, ma per infrangerle è sempre necessario conoscerle; un conto è conoscere una strada e ignorarla consapevolmente, un altro è esserne completamente all'oscuro. Ai giovani aspiranti scrittori perciò consiglio vivamente di leggere questo romanzo, che comunque, tolto il problema della pesantezza, è un buon libro, e di assimilare le dritte che Auster lascia nelle pagine. Sceglierete poi in un secondo momento quali seguire e quali ignorare.

Francesco Abate