giovedì 30 gennaio 2020

I RACCONTI UMORISTICI DI ANTON CECHOV

Anton Cechov è uno dei più famosi autori della letteratura e del teatro russo. La sua produzione varia da brevi aneddoti comici, molti pubblicati usando pseudonimi, ai racconti dello stesso genere; anche a livello teatrale ha prodotto inizialmente testi brevi per poi passare a drammi che riscossero un notevole successo (Ivanov, Il gabbiano, Lo zio Vanja, Le tre sorelle, Il giardino dei ciliegi).

In questo post voglio analizzare principalmente i suoi racconti umoristici. Si tratta di componimenti molto brevi, costruiti però con grande abilità letteraria. Tra i grandi meriti di Cechov c'è quello di aver dato dignità letteraria all'aneddoto; non scriveva storielle grezze e volgari, come accadeva su molti giornali di fine Ottocento, ma partiva da una storia semplice e la impreziosiva con tante situazioni ed equivoci, così da renderla dinamica e accattivante.
Il contenuto dei suoi racconti nasceva per divertire smascherando i difetti della gente. Ne Il leone e il sole vediamo un sindaco così desideroso di ottenere una decorazione da rendersi ridicolo agli occhi dei suoi cittadini, così come ne Il camaleonte vediamo come un commissario di polizia cambi idea circa il modo di comportarsi nei confronti di un cane quando scopre che appartiene a un generale. Ci sono racconti come Un cognome cavallino dove la storia nasce dal cognome Avenov, che ricorda appunto un cavallo, e intorno a questo paradosso si sviluppa per intera; ce ne sono invece di più complessi, come nel caso di Matrimonio di calcolo, dove Cechov ci mostra un matrimonio di interessi e il suo disfacimento, impreziosendolo con un equivoco generato dalle parole di un invitato alla cerimonia, scambiate dalle due famiglie per allusioni a causa della loro coda di paglia. Mentre Un cognome cavallino è molto semplice anche nella sua struttura, in racconti come Il romanzo del contrabbasso troviamo anche uno sviluppo accattivante e avventuroso della storia. Non mancano i racconti che fanno riflettere, come Dal diario d'un aiuto contabile, dove Cechov ci mostra un uomo che spera ardentemente nella morte di un superiore così da poterne prendere il posto, ma per la sua smisurata cupidigia finisce per ammalarsi.    

I racconti umoristici di Cechov li ho letti in una sera da un libretto che mi fu regalato tempo fa. Nonostante sia una lettura molto leggera e per niente impegnativa, mi sento di consigliarvela. Vi permetterà di passare qualche ora col sorriso, perché sono prima di tutto storie divertenti, e allo stesso tempo vi mostrerà il lato peggiore delle persone.
Si tratta di letture che non hanno nulla a che vedere coi grandi romanzi di Tolstoj e Dostoevkij, ma nella loro semplicità comunque procedono a quell'analisi dell'animo umano che i due grandissimi della letteratura russa fanno in modo più approfondito nei loro libri.

Francesco Abate

venerdì 24 gennaio 2020

COMMENTO AL CANTO XXVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Mentr'io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
uscì un spiro che mi fece attento,
dicendo: <<Intanto che tu ti risense
de la vista che hai in me consunta,
ben è che ragionando la compense.
Il canto XXVI comincia con Dante che, rimasto accecato dalla vista della luce di san Giovanni, è turbato e intimorito. Il santo lo invita a compensare la propria cecità con gli occhi della ragione, quindi lo esorta a ragionare ancora come ha fatto prima con gli altri due santi, nell'attesa che riacquisti la vista (che tu ti risense de la vista). Gli chiede quale sia il fine della sua anima (di' ove s'appunta l'anima tua), poi lo tranquillizza dicendogli che la vista non è perduta per sempre e la riacquisterà grazie a Beatrice, che nello sguardo ha la stessa virtù che ebbe Anania (nella tradizione biblica Anania fece riacquistare la vista a san Paolo, che l'aveva persa sulla via di Damasco, con la sola imposizione delle mani). 
Dante risponde dicendo che presto o tardi arriverà la guarigione per quegli occhi che furono porte attraverso cui entrò in lui Beatrice e gli scatenò dentro il fuoco dell'amore, poi risponde a san Giovanni dicendogli che Dio (lo ben che fa contenta questa corte) è il principio e la fine di tutto quello che l'amore gli insegna (Alfa e O è di quanta scrittura mi legge Amore) con maggiore o minore ardore.
La voce di san Giovanni, che gli aveva tolto la paura dell'improvviso abbarbagliamento, gli dà una nuova occasione di parlare dicendogli che deve far passare i suoi concetti per un setaccio più fine, quindi li deve chiarire e deve essere più specifico, e poi chiedendogli chi ha indirizzato la sua anima a Dio (chi drizzò l'arco tuo a tal berzaglio). 
Il poeta alla nuova domanda risponde dicendo che l'amore verso Dio si è impresso in lui grazie ad argomenti di natura filosofica (Per filosofici argomenti) e all'autorità di Dio che si rivela attraverso la Bibbia (per autorità che quinci scende). Fatta l'introduzione, descrive gli argomenti filosofici usando la forma del sillogismo, con tre terzine rappresentanti la premessa maggiore, la premessa minore e la conclusione; non appena l'intelletto comprende il bene, non può che amarlo con un'intensità tanto più forte quanto maggiore è la bontà che contiene, per questo è giusto che l'intelletto umano tenda a quel bene supremo (Dio) di cui gli altri beni sono i raggi ("ché 'l bene, in quanto ben, come s'intende, / così accende amore, e tanto maggio / quanto più di bontate in sé comprende. / Dunque a l'essenza ov' è tanto avvantaggio / che ciascun ben che fuor di lei si trova / altro non è ch'un lume di suo raggio, / più che in altra conven che si mova / la mente, amando, di ciascun che cerne / il vero in che si fonda questa prova"). Fatta la premessa generale, Dante parla della sua esperienza personale e cita i tre autori che gli hanno mostrato (ripete tre volte il verbo sternere, cioè "chiarire") la necessità di amare Dio: gliel'ha chiarito colui che ha dimostrato come Dio (il primo amore) sia il fine di tutto l'universo (di tutte le sustanze sempiterne); gliel'ha poi chiarito la voce stessa di Dio, verace autore della Bibbia, il quale a Mosè che chiedeva di mostrargli la Sua gloria si mostrò e gli disse che gli avrebbe fatto vedere tutto il bene (ogne valore); gliel'ha infine chiarito lo stesso san Giovanni, che nel prologo del suo Vangelo manifesta le cose arcane del cielo più di ogni altra scrittura ("Tal vero a l'intelletto mio sterne / colui che mi dimostra il primo amore / di tutte le sustanze sempiterne. / Sternel la voce del verace autore, / che dice a Moisè, di sé parlando: "Io ti farò vedere ogne valore". / Sternilmi tu ancora, incominciando / l'alto preconio che grida l'arcano / di qui là giù sovr'a ogn' altro bando"). La seconda parte della risposta di Dante, quella in cui spiega chi lo ha indirizzato al bene supremo, si divide in tre terzine: nella prima il poeta fa riferimento ad Aristotele, che definì Dio non soltanto come causa efficiente ma anche come causa finale dell'universo; nella seconda si riferisce al libro dell'Esodo in cui è narrato l'episodio di Mosè; nella terza si riferisce al prologo del Vangelo di Giovanni, in cui l'evangelista parla dell'essenza di Dio e del mistero dell'Incarnazione (secondo alcuni Dante si riferisce all'Apocalisse, ma questa tratta del giudizio di Dio e della lotta tra Cristo e Satana, quindi sembra poco attinente all'argomento del canto).
San Giovanni riassume il concetto espresso dal poeta, cioè che la sua anima tende a Dio grazie agli argomenti della ragione e a quelli teologici delle Sacre Scritture (per autoridadi a luo concorde), ma gli chiede di dire se sente altri impulsi (altre corde) che lo portano ad amare Dio, così da manifestare tutte le motivazioni che generano in lui questo amore (con quanti denti questo amor ti morde).
A Dante è subito chiaro cosa voglia sapere da lui (dove volea menar mia professione) san Giovanni, che definisce l'aguglia di Cristo perché nell'iconografia cristiana è associato all'aquila. Risponde che tutti gli impulsi che possono muovere il cuore lo hanno indirizzato a Dio: l'esistenza dell'universo che è anche la sua, la morte di Cristo patita per la salvezza della sua anima, quello in cui spera ogni fedele e in cui spera anche lui, insieme agli argomenti filosofici e teologici di cui ha parlato prima, lo hanno tirato fuori dall'amore delle cose terrene e l'hanno portato sulla riva del retto amore. Conclude dicendo che ama tutte le fronde che abbelliscono l'orto dell'ortolano eterno, quindi tutte le creature di Dio, con la stessa intensità con cui Lui le ama.
Non appena il poeta tace, risuona un canto intonato da Beatrice e gli altri beati, i quali ripetono "Santo, santo, santo!"; probabilmente l'autore qui si riferisce al canto di lode a Dio citato nell'Apocalisse di san Giovanni. 
A Dante poi succede come all'uomo che dorme il quale, nel momento in cui viene colpito da una luce violenta, si sveglia (si disonna) a causa della virtù visiva, la quale si rivolge al raggio che traspare attraverso le membrane dell'occhio (lo splendor che va di gonna in gonna), e prova ripugnanza (aborre) per quel che vede, tanto è confuso, finché non viene in suo soccorso la capacità estimativa a cancellare ogni confusione. Per gli Scolastici e gli Arabi, la capacità estimativa è una facoltà interna dell'uomo che gli permette di apprendere tutto ciò che è utile o nocivo alla vita; è in pratica quello che noi oggi chiamiamo "istinto". A sostituire nel caso del poeta la capacità estimativa sono gli occhi di Beatrice, i quali si potrebbero vedere a più di mille miglia di distanza tanto splendono, e gli permettono di vedere di nuovo chiaramente, tanto da accorgersi di una quarta luce che si era aggiunta ai tre apostoli. Alla sua domanda circa l'identità del nuovo arrivato, Beatrice risponde che dentro quella luce c'è la prima delle anime create da Dio, quindi Adamo, la quale contempla Dio con amore (vagheggia il suo fattor).
Dante a causa dello stupore china il capo mentre Beatrice parla, dopodiché rialza lo sguardo perché desidera fare delle domande ad Adamo. Questo suo movimento è paragonato dall'autore a quello delle fronde degli alberi, le quali si piegano sotto la spinta del vento per poi tornare a ergersi verso l'alto, riprendendo così la propria posizione naturale. Il poeta si rivolge a lui chiamandolo "pomo che maturo solo prodotto fosti", cioè uomo che fu creato già adulto, e padre di cui ciascuna sposa è sia figlia che nuora (perché discende da lui allo stesso modo del marito), poi devotamente lo supplica di parlargli e, per la fretta di udire le risposte, evita perfino di formulare le domande, che in quanto beato Adamo già conosce. 
La gioia del beato nel rispondere alla richiesta si manifesta attraverso la luce che lo copre, così come accade quando un animale è coperto da un panno e la sua agitazione si manifesta soltanto attraverso i sussulti del tessuto che lo copre ("Talvolta un animal coverto broglia, / sì che l'affetto conven che si paia / per lo seguir che face a lui la 'nvoglia; / e similmente l'anima primaia mi facea trasparer per la coverta / quant'ella a compiacermi venìa gaia"). Prima di tutto, Adamo conferma che, nonostante non gli abbia fatto domande specifiche, conosce ciò che Dante vuole sapere meglio di quanto lui stesso conosca ogni cosa di cui ha certezza, perché ne ha visione nello specchio veritiero in cui ogni cosa si riflette alla perfezione (Dio). Ciò detto, elenca le curiosità del poeta: vuole sapere quanto tempo è passato dal periodo in cui viveva nel Paradiso terrestre, per quanto tempo i suoi occhi hanno goduto del giardino (quindi per quanto tempo c'è stato), la vera causa della sua cacciata, infine quale lingua parlava e quale creò. Per prima cosa, spiega che la cacciata dall'Eden non avvenne perché gustò con Eva del frutto proibito, ma per via della superbia che lo spinse alla disobbedienza (non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno). Nel Limbo, racconta, luogo dove Beatrice ha invocato Virgilio, passò 4302 anni (volumi) a desiderare l'ascesa in Paradiso (Dante ci dice nel canto IV dell'Inferno che l'anima di Adamo e dei patriarchi di Israele fu portata in Paradiso da Gesù Cristo, quindi dovette attendere l'Incarnazione); dice poi che sulla Terra vide il sole tornare 930 volte in tutti i segni zodiacali, perciò visse 930 anni. Per quanto riguarda la lingua, dice che quella da lui parlata che era già sparita prima che il popolo del sovrano Nembrot (i babilonesi) iniziasse la costruzione dell'opera che non sarebbe mai terminata, cioè la torre di Babele; non poteva durare in eterno la sua lingua perché all'uomo piace cambiare i prodotti dell'intelletto in base agli influssi celesti. Che l'uomo parli, spiega ancora Adamo, è dovuto alla natura, ma la lingua in cui lo fa è frutto dell'arbitrio umano. Racconta poi che prima della sua discesa nel Limbo il nome di Dio era I, poi fu chiamato El, e questo cambiamento ci fu perché all'uomo piace cambiare così come il ramo cambia le foglie. Chiude dicendo che alla sommità del monte che più di tutti si alza dal mare, perché il Paradiso terrestre si trova in cima al Purgatorio, restò con la sua vita prima pura e poi disonesta dalla prima ora (le sei del mattino) a quella che segue l'ora sesta (quindi la settima ora, le tredici) e in cui il sole cambia quadrante.

Molto importante per comprendere l'importanza del canto è approfondire la parte finale delle parole di Adamo.
Dobbiamo innanzitutto parlare della lingua di Adamo, domanda che Dante non fa a caso. Circa la lingua originaria dell'essere umano il dibattito è sempre stato molto acceso. Nel De vulgari eloquentia Dante riprese la tesi della Genesi, a sua volta ripresa da sant'Agostino nel De civitate dei, secondo cui la capacità di parlare è parte della natura umana e la lingua originale dell'essere umano era quella ebraica, poi la molteplicità di linguaggi è arrivata in un secondo momento come punizione divina per la superbia dell'uomo. Dopo la confusione babelica, per Dante le lingue sacre furono l'ebraico, il greco e il latino, in conformità col pensiero di Brunetto Latini e sant'Isidoro. Con queste parole di Adamo il poeta cambia nettamente posizione, affermando come la lingua di Adamo, quindi quella originale, fosse già morta prima della costruzione della torre di Babele, quindi sconfessando l'ipotesi dell'ebraico come lingua naturale dell'uomo.
Anche nel riportare il nome di Dio, Dante segue la sua nuova teoria circa il linguaggio umano. Il nome più comune della divinità nell'Antico Testamento è EL, termine dall'etimologia dubbia ma che certamente è un riferimento alla potenza (nella Bibbia è più usato il suo plurale, Elohim, che corrisponde a un'intensità di forza, ma più di tutti compare il tetragramma YHWH, che probabilmente significa <<colui che è>>); dicendo che EL non fu il primo nome di Dio, ma il secondo, Dante ribadisce il suo abbandono della teoria dell'ebraismo quale lingua naturale dell'uomo. Per quanto concerne la scelta del nome I, si tratta probabilmente della scelta di farlo corrispondere all'uno latino, così da ribadire l'unicità di Dio.
Anche la scelta delle ore di permanenza di Adamo nell'Eden c'è da fare una riflessione. Non è casuale che l'ultimo verso termini con l'ora sesta, infatti il poeta crea così una coincidenza tra la cacciata di Adamo a causa della caduta nel peccato e le ore della Passione di Cristo, grazie alla quale avvenne la salvezza dell'uomo.

Francesco Abate

venerdì 17 gennaio 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "GUERRA E PACE" DI LEV TOLSTOJ

Scrivere la recensione di un libro è un'attività che può impegnare più o meno tempo in base sia alla sua ricchezza di contenuti che alla complessità della storia che racconta. Recensire Guerra e pace, il capolavoro assoluto dello scrittore russo Lev Tolstoj, è decisamente impegnativo e richiede una bella dose di tempo e di energia. 
Prima di tutto, è necessario che vi spieghi perché io non abbia esitato a definirlo un "capolavoro assoluto". Guerra e pace non è solo un romanzo, ma è un'opera d'arte; attraverso pagine scritte magnificamente, quindi attraverso la bellezza, ci comunica i frutti delle inquietudini e delle riflessioni dell'autore su ogni aspetto della vita e della storia. Nelle pagine di questo libro troverete il tutto, cioè la vita in ogni aspetto, e lo troverete descritto magnificamente. Dentro quest'opera non troviamo soltanto il genio di Tolstoj, ma la sua anima vi è fotografata per intera, e con essa è fotografato l'universo; dopo la stesura di Guerra e pace Tolstoj soffrì un periodo di "stanchezza creativa" (cit. Treccani) e questo non mi sorprende, visto che il suo intero essere e il suo intero pensare l'aveva condensato in queste pagine così dense e belle.

Per capire Guerra e pace nella sua complessità, occorre partire da una semplificazione. Si tratta di un romanzo storico che descrive la vita di due famiglie nobili, i Bolkonskij e i Rostov, a cavallo dell'invasione di Russia ad opera di Napoleone Bonaparte. Le due famiglie sono molto diverse, coi Bolkonskij più rigidi a causa del carattere aspro e chiuso del principe Nikolaj, e i Rostov più socievoli e aperti. In mezzo alla storia delle due famiglie si inserisce Pierre; figlio illegittimo del conte Bezuchov, ne eredita la fortuna e passa dall'essere disprezzato e deriso a essere ricercato e ammirato.
La vita dei protagonisti si svolge oziosa nella Russia dei salotti frequentati dai nobili, finché prima la battaglia di Austerlitz e poi l'invasione di Russia da parte di Napoleone arrivano a sconvolgere tutto. La complessa situazione politica, dominata dall'oscura figura dell'imperatore francese, prima serve solo da argomento di discussione nei salotti, in cui continuano a dominare gli intrighi amorosi e i problemi economici, poi irrompe con violenza nelle esistenze di tutti i russi e ne sconvolge l'esistenza, causando tensioni, dolori e lutti.
La trama si può riassumere in queste poche parole, così da non rovinare al lettore le tante sorprese che il romanzo riserva.

Come ho già detto nel primo paragrafo, Guerra e pace è un romanzo in cui c'è tutto.
Trattandosi di un romanzo storico, ci sono ovviamente le valutazioni dell'autore sugli eventi e sulla cultura dell'epoca. Con la vita delle famiglie nobili, Tolstoj ci presenta la nobiltà in tutta la sua ipocrisia e vanità; tutti sembrano preoccuparsi solo di ricevimenti, di combinare matrimoni, e di garantirsi vantaggiose amicizie. Emblematico è l'atteggiamento della classe alta nei confronti di Pierre, disprezzato perché ritenuto rozzo e originale, ricercato e ammirato una volta ereditata la fortuna del conte Bezuchov; Vasilij Kuragin, che dell'ipocrisia e dell'arrivismo è l'emblema, lo spinge a prendere in moglie sua figlia Helene, la quale non esita poi a tradirlo.
Prima che la guerra irrompa con violenza nel romanzo, l'atteggiamento della nobiltà nei confronti di Napoleone è molto vario. Da un lato ci sono i più anziani, che lo disprezzano, dall'altro i giovani, che ne subiscono il fascino e l'ammirano; entrambi gli orientamenti sono indotti dalla visione dell'imperatore come elemento di rottura, come l'onda d'urto capace di frantumare la vecchia società per farne sorgere una nuova. L'invasione di Russia aiuta poi tutti a unirsi contro il nemico comune, colui che ha distrutto la loro pace e ha portato distruzione e lutto nella loro casa. 
Una delle particolarità del romanzo è la presenza allo stesso tempo di personaggi inventati, come i protagonisti che ho citato fino a ora, e personaggi realmente esistiti. Tolstoj ci presenta la società attraverso i Rostov e i Bolskonskij, ma con l'arrivo della guerra ci descrive, valuta e fa agire, anche personaggi reali come Napoleone, Kutuzov e l'imperatore Alessandro I. Di questi ci dà un'immagine molto diversa da quella che normalmente dipingono gli storici, e ciò non mancò di suscitare aspre critiche, così come molto diversa è la sua lettura della storia. Tolstoj mostra una concezione fatalistica della storia; per lui non contano le gesta degli eroi anzi, essi subiscono le azioni più che compierle, e quel che accade non è mai opera di uno, di pochi o di molti, ma nasce sempre da un movimento globale che è avvenuto perché doveva avvenire. Scrive nel romanzo: "Tutti costoro (si riferisce ai generali e ai soldati) avevano paura, si vantavano, si rallegravano, si sentivano contrariati, erano di questo o quel parere, sicuri di sapere ciò che facevano, e di farlo per sé stessi; e tutti, intanto, erano involontari strumenti della storia, e andavano lavorando a un'opera che a loro restava nascosta, ma che a noi svela il suo significato. Tale, immutabilmente, è il destino di tutti quelli che agiscono nella realtà pratica, e tanto minore è la loro libertà, quanto più in altro è il posto che essi occupano nella gerarchia umana". Per rafforzare il suo concetto fatalistico, Tolstoj provvede a demolire e rimodellare le immagini degli eroi della storia: in Guerra e pace Napoleone è un generale che si crede grande ma dà ordini perlopiù inutili, che non ha particolari meriti nei trionfi così come non ha particolari demeriti nella disfatta, è spesso appare addirittura confuso; Kutuzov non è il generale indeciso e pauroso che la storia racconta (i russi poco gli perdonavano la mancata difesa di Mosca e il non aver sferrato l'attacco decisivo a Napoleone in fuga), è semplicemente un uomo scaltro ed esperto, che sa quanto sia importante lasciare che le cose vadano come si dispongono naturalmente. Per l'autore perfino l'incendio di Mosca, che è una ferita che bruciava all'epoca nell'anima dei russi, è stato un evento che non si poteva evitare e di cui non si può incolpare né Kutuzov, che dovette desistere dal difendere la città, né Napoleone.
Non mancano poi, nel corso della guerra, gli intrighi dei vari generali, che Tolstoj ci mostra più interessati alla carriera e al conseguimento di vantaggi che all'esito della guerra stessa.

Guerra e pace è un romanzo in cui la ricerca spirituale recita un ruolo di primo piano.
Comincio col dire che Pierre, personaggio in cui le inquietudini dello spirito si manifestano con maggiore forza, si può considerare un alter ego dell'autore. Con Pierre, Tolstoj ci mostra la vita dissoluta che visse lui stesso prima del matrimonio, coi vani tentativi di porsi delle regole e trovare la strada della rettitudine. Il protagonista vive tra i vizi e non riesce a raddrizzarsi neanche entrando della massoneria (che non ha nulla a che vedere con quella che nell'Italia risorgimentale fu una società segreta politica, è in realtà un movimento che ha come finalità la ricerca della rettitudine morale e della verità di fede); si convince poi di essere predestinato a cambiare la storia ma, una volta rimasto prigioniero, conosce il povero contadino Platon Karataev, attraverso il quale scopre che la felicità si raggiunge solo occupandosi del necessario, tralasciando il superfluo, e comprende il ruolo che ha la Provvidenza nella costruzione della storia degli uomini. 
La ricerca spirituale non è però solo quella di Pierre. Anche il principe Andrej Bolkonskij, figlio del principe Nikolaj, vive con inquietudine la sua vita di nobile. Le sue inquietudini trovano soluzione quando si trova vicino alla morte. La prima volta riconosce quanto sia insignificante la gloria, che lui ha inseguito cercando di fare l'eroe nella battaglia di Austerlitz, e perde interesse per tutto quello che è terreno; conoscendo però Natasha Rostov, la passione irrompe di forza nella sua vita come la primavera irrompe nella natura e la cambia senza che in alcun modo possa essere fermata. La seconda volta invece comprende definitivamente come la morte sia un ritorno all'originale fonte d'amore, cioè a Dio.   
Anche la bellissima Natasha Rostov soffre la noia della vita nobiliare. Sembra sul punto di trovare pace quando si innamora di Andrej, ma cede alla passione per lo sciagurato Anatol Kuragin (bello e vizioso figlio di Vasilij) e si compromette. Anche a lei la morte funge da alleata per ritrovare la pace dell'anima, anche se nel suo caso si tratta della fine di una persona cara.

Dopo aver parlato della complessità dei temi trattati, è necessario spendere qualche parola sulla bellezza del romanzo.
Guerra e pace è animato da una moltitudine di personaggi veri, carichi di passioni e mai banali. Perfino Anatol e il suo amico Dolochov, due donnaioli viziosi, hanno personalità ben definite e tratteggiate magistralmente dall'autore. Anche il più comune dei contadini, che magari compare per poche pagine, viene ben caratterizzato e al lettore sembra vivo e dotato di personalità propria.
Nel romanzo ci sono poi molte pagine in cui l'autore spiega la sua visione della storia e fa le sue valutazioni su alcune vicende di guerra, aiutandoci a comprendere meglio il messaggio contenuto nel libro. Anche in queste pagine, che hanno più le caratteristiche di un saggio che non di un romanzo, non mancano frasi ed espressioni cariche di poesia, che impreziosiscono il lavoro complessivo e ne rendono la lettura piacevole.
L'unica pecca, a volerne trovare una, è l'abbondante utilizzo del francese (l'incipit stesso è in francese), che era la lingua parlata dai nobili. Non si tratta ovviamente di un vezzo dell'autore, ma queste frasi servono a farci entrare meglio nell'atmosfera dei salotti e soprattutto a farci capire quanto la cultura del nemico affascinasse i russi prima della guerra.

Guerra e pace è un romanzo sull'uomo e sulla storia. Per Tolstoj la storia è generata dai movimenti e dalle idee di ciascun singolo individuo, anche il più insulso, e per questo non può essere in alcun modo controllata né dai governanti né dagli eroi. 
Questo concetto della storia spiega a mio modo di vedere la ragione che ha portato l'autore a scrivere questo romanzo: egli ci mostra le vicende dei singoli individui, ci fa vedere come questi vivono nella storia, come la subiscono, ma anche come a loro modo la fanno. L'autore per spiegarci la storia ha voluto narrarci i movimenti delle particelle più elementari che la compongono e ne determinano il movimento, gli uomini.
Guerra e pace è il mondo intero visto al microscopio.

Francesco Abate

martedì 14 gennaio 2020

"I PROTETTORI DI LIBRI" SU QUARTADICOPERTINA.COM

Sono felice di annunciarvi che I Protettori di Libri è da oggi tra i libri in evidenza della nuova piattaforma Quartadicopertina.
Su questo sito troverete una sinossi del romanzo e qualche notizia biografica su di me.

Buona lettura.

Francesco Abate

lunedì 13 gennaio 2020

COMMENTO AL CANTO XXV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Se mai continga che 'l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m'ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov' io dormi' agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra
Il canto XXV si apre con una speranza espressa da Dante, quella che il riconoscimento ricevuto da san Pietro nel canto XXIV gli serva per essere riaccolto a Firenze, dove è nato ed è cresciuto (bello ovile ov' io dormi' agnello), e dove ha combattuto quelli che sono nemici suoi e della stessa città (nimico ai lupi che li danno guerra); in questi versi il poeta ci tiene a specificare di non essere lui, l'esiliato, il nemico di Firenze, ma lo sono quelli contro cui ha combattuto e che hanno causato la sua condanna. Riferendosi al poema, che definisce sacro, Dante ci dice che è stato scritto sotto l'influsso delle cose fisiche (la terra) e delle cose spirituali (il cielo), quindi è frutto della saggezza umana e di quella divina, e racconta che questo lavoro durato anni l'ha logorato nel fisico (sì che m'ha fatto per più anni macro). Egli tornerà, scrive, con altra voce e con altro vello; per alcuni queste espressioni indicano il suo invecchiamento fisico, per altri invece segnalano la mutazione artistica di Dante, che ha abbandonato le rime d'amore per dedicarsi a quelle sacre della Commedia. Qualora lo lasciassero tornare a Firenze, tornerebbe con la fama di poeta e immagina che sarebbe incoronato nel battistero di S.Giovanni, da dove entrò in quella fede (fu battezzato) che rende le anime familiari a Dio e grazie alla quale san Pietro gli girò intorno alla fronte, incoronandolo ("con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte").
Un'altra luce si avvicina a Dante dalla schiera da cui prima era uscito san Pietro (di quella spera ond'uscì la primizia che lasciò Cristo de' vicari soi) e Beatrice lo invita a guardare il santo (nel testo è usato il termine barone, titolo feudale attribuito appunto ai santi) per cui si fanno i pellegrinaggi in Galizia (il sepolcro di san Giacomo è a Santiago di Compostela, capoluogo della Galizia). Il santo in questione è san Giacomo il Maggiore, fratello di san Giovanni evangelista e uno degli apostoli prediletti di Gesù. Il poeta assiste a una scena che gli porta alla mente il colombo: così come l'uccello vola accanto a un compagno, e i due si mostrano l'affetto reciproco tubando, il santo si avvicina a san Pietro e i due si accolgono l'un l'altro e lodano la beatitudine che li nutre lassù (il cibo che là su li prande). Terminata la festosa reciproca accoglienza, i due santi si mettono davanti a Dante (coram me) e la loro luce splende tanto da vincere il suo sguardo.
Beatrice, ridendo, si rivolge al nuovo arrivato chiamandolo "anima illustre" (Inclita vita), che con la sua Epistola ha insegnato quanto sia liberale il Paradiso (la nostra basilica), e gli chiede di parlare con Dante della speranza, poiché lui può farlo visto che la rappresenta, così come si legge in quei passi del Vangelo in cui Gesù mostra apertamente la sua predilezione per lui. La richiesta di Beatrice è motivata dal fatto che, secondo la tradizione evangelica, i tre apostoli prediletti da Gesù (san Pietro, san Giacomo il Maggiore e san Giovanni evangelista) rappresentano rispettivamente la fede, la speranza e la carità. L'Epistola a cui Beatrice fa riferimento era attribuita all'epoca a San Giacomo il Maggiore, ma in realtà fu scritta da san Giacomo il Minore, un altro apostolo.
San Giacomo (il foco secondo) invita Dante ad alzare lo sguardo, perché ciò che lì viene dal mondo dei mortali è giusto che maturi alla loro luce. Il poeta alza gli occhi verso gli apostoli, che con la loro luce accecante prima l'avevano indotto ad abbassarli; riferendosi agli apostoli, Dante li indica come monti, attingendo in questo caso alla tradizione dei Salmi. Il santo, poiché egli è stato ammesso per grazia di Dio ad accedere alla Sua corte e al cospetto dei suoi conti (il Paradiso e i beati sono evocati con le immagini della corte medievale, com'era tradizione all'epoca) prima di morire, ed ha veduto la verità di quello che si crede nel mondo, gli chiede di dirgli cos'è la speranza, in quale grado la possiede e da dove gli è venuta; gli pone questa domanda affinché possa concedere il conforto della stessa speranza, virtù che fa innamorare del vero bene, a sé stesso e agli altri uomini.
Prima che il poeta risponda, lo fa per lui Beatrice, colei che ha guidato le sue ali in un volo così alto, la quale afferma che nessun figlio della Chiesa militante possiede più speranza di lui, come si legge nella mente divina che illumina tutti i beati (nel Sol che raggia tutto nostro stuolo), perciò gli è stato concesso di venire dall'Egitto (simbolo della vita terrena e della schiavitù) a Gerusalemme (simbolo della beatitudine e della libertà) prima che il suo servizio nella milizia di Dio sia finito (prima della morte). Data la risposta, Beatrice lascia che sia il suo discepolo a rispondere alle altre due domande, che non vengono fatte da san Giacomo per sapere, dato che in Dio lui vede tutto, ma perché possa riferire al mondo quanto questa virtù gli piaccia; chiude poi dicendo che per lui non sarà difficile rispondere alle domande e nemmeno queste gli daranno occasione di essere presuntuoso, invocando infine la grazia di Dio affinché gli consenta di rispondere adeguatamente. La risposta di Beatrice non è da intendersi come un soccorso dato a un allievo in difficoltà, lei semplicemente evidenzia un'ovvietà e da questa parte per fare un discorso più ampio: Dante ha la fede, l'ha dimostrato a san Pietro, quindi deve avere per forza la speranza; con la metafora dell'Egitto e di Gerusalemme, Beatrice ci dice che la speranza è il ponte per passare dalla schiavitù alla libertà, dal mondo umano a quello dei beati. 
Terminata la risposta di Beatrice, Dante risponde alle altre due domande, come un allievo che risponde al docente con prontezza e buona volontà (libente, dal latino libenter) in quelle cose di cui è più esperto e in cui si manifesta il suo valore. La speranza, spiega, è attendere senza dubbi la beatitudine celeste, la quale è prodotta dalla grazia divina e dai meriti in vita; a lui essa è arrivata dagli autori dei libri della Bibbia (Da molte stelle), ma colui che per primo la distillò nel suo cuore fu il sommo cantore di Dio, cioè David. Nel suo canto in onore di Dio, spiega ancora il poeta, David dice che nel Signore sperano coloro che ne conoscono il nome; con la fede che lui possiede è impossibile non conoscere il nome Suo (e chi nol sa, s'elli ha la fede mia?). Oltre a David, conclude, anche lo stesso san Giacomo con la sua Epistola ha istillato nella sua anima la luce della speranza, così adesso lui ne è pieno e la istilla negli altri (la stessa Commedia, con la visione della futura beatitudine, è un'opera che dà speranza). 
Mentre Dante risponde, vede apparire improvvisi bagliori dentro la luce di san Giacomo (dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo subito e spesso a guisa di baleno). Il santo spiega che l'amore di cui arde per la speranza, virtù che lo seguì fino al trionfo (la palma) e al martirio (l'uscir del campo), vuole che ne parli ancora con lui che dimostra di amarla, e gli chiede cosa questa virtù gli promette. Da notare che, nonostante san Giacomo affermi di amare ancora la speranza, dice che questa lo accompagnò fino al martirio e al trionfo, quindi fino alla fine della sua vita terrena; fede e speranza non possono essere possedute dal beato perché egli ha la visione certa di Dio, quindi non ha più bisogno di credere perché sa, e non ha più bisogno di sperare perché ha; solo la carità permane anche nei beati, perché Dio è carità e questa non avrà mai fine (lo scrisse san Paolo nella prima lettera ai Corinzi). 
Dante risponde che sia il Nuovo Testamento che l'Antico (Le nove e le scritture antiche) indicano il segno, e questo a lui mostra il fine, delle anime vissute nella grazia di Dio. Cita poi Isaia, secondo cui le anime nella loro terra indosseranno la doppia veste della felicità dell'anima e del corpo, e la loro vera terra è il Paradiso (questa dolce vita). Chiude dicendo che il fratello di san Giacomo, san Giovanni evangelista, manifesta questa verità ancor più chiaramente (più digesta) quando nell'Apocalisse descrive la schiera degli eletti ricoperti di vesti bianche.
Subito dopo la risposta di Dante, sopra di loro si sente dire da qualcuno "Sperent in te" ("Sperano in te", versetto del salmo citato prima) e i beati danzanti rispondere in coro. Tra queste luci una si fa così intensa che, ci dice l'autore, se la costellazione del Cancro avesse una stella così luminosa, l'inverno avrebbe un giorno della durata di un mese (non calerebbe mai la notte fino al tramonto della costellazione). Questo nuovo splendore si unisce ai due già presenti, san Pietro e san Giacomo, come l'adolescente che si unisce al ballo solo per onorare la nuova sposa (la novizia) e non per compiacere sé stessa (non per alcun fallo); insieme ballano e cantano come si conviene all'ardore della loro carità, mentre Beatrice li guarda fissi come una sposa silenziosa e immobile. La donna spiega a Dante che il nuovo arrivato, san Giovanni evangelista, è colui che riposò sul petto di Gesù (nostro pellicano - Gesù era identificato col pellicano perché c'era la credenza che questo uccello si lacerasse il petto per nutrire i figli del proprio sangue) e che il giorno della crocifissione fu scelto per un grande compito (Gesù lo designò come nuovo figlio di Maria); mentre parla, la donna non distoglie mai lo sguardo dai tre apostoli danzanti.
Dante fa come colui che prova a guardare l'eclissi parziale di sole, finendo per perdere la vista, e si sforza di fissare la luce di san Giovanni, mentre questi lo rimprovera chiedendogli perché mai si sforzi di guardare qualcosa che lì non c'è. Il santo gli spiega che il suo corpo è sulla Terra a decomporsi, e lì resterà con gli altri finché non sarà raggiunto il numero di beati stabilito da Dio (che 'l numero nostro con l'etterno proposito s'agguagli); chiude il discorso dicendo che solo le due anime salite prima nell'Empireo, cioè Gesù e Maria, sono state ammesse nel Paradiso sia con l'anima che con il corpo, e dice a Dante che questo dovrà dire nel suo mondo. La curiosità di Dante serve a introdurre un chiarimento su una disputa cristiana dei tempi antichi, alcuni infatti credevano che san Giovanni non fosse morto, ma il poeta prende posizione dichiarando che solo Maria e Gesù sono saliti al cielo coi corpi, quindi rinnegando non solo l'assunzione dell'apostolo, ma anche quella dei profeti Enoc ed Elia.
La danza delle tre luci (infiammato giro) si ferma non appena san Giovanni inizia a parlare, così come il loro canto (suon del trino spiro), allo stesso modo in cui al fischio del timoniere i rematori posano i remi con cui avevano percosso l'acqua, per riposarsi o evitare un pericolo. Dante si gira verso Beatrice ma, pur standole vicina, non riesce a vederla a causa dell'accecamento provocato dalla luce di san Giovanni: pur essendole vicino e pur trovandosi nel mondo della beatitudine eterna, non vedendola prova turbamento (Ahi quanto ne la mente mi commossi).

Francesco Abate

giovedì 9 gennaio 2020

STORIA: LE TENSIONI TRA L'OCCIDENTE E L'IRAN

La terribile spirale di violenza che si è scatenata dopo l'assassinio di Qassem Soleimani voluto dal presidente americano Trump, e che ha fatto temere a molti l'inizio di una nuova guerra, impone una riflessione sulla tensione che appare sempre alta tra l'Iran e l'Occidente.
Come sempre si dovrebbe fare in questi casi, per capire meglio il presente e non cadere preda dei preconcetti, è fondamentale ricorrere alla storia.

Alla fine della prima guerra mondiale, l'allora Persia stipulò un accordo con la Gran Bretagna, grazie al quale mantenne la propria indipendenza (al contrario di tanti stati della Mezzaluna fertile) pur concedendo grossi privilegi fiscali e militari agli inglesi. Il petrolio era stato scoperto una decina di anni prima e la compagnia incaricata di estrarlo era la Anglo-Persian Oil Company, quindi anche nell'estrazione del petrolio gli inglesi avevano un ruolo di primo piano.
I rapporti tra i due paesi non furono minati nemmeno dai colpi di stato del 1921 e del 1925, che portarono alla fine della dinastia Qajar e alla presa di potere di Reza Shah Pahlavi, il quale divenne scià dell'Iran (il nome era stato cambiato in occasione del colpo di stato).
I primi attriti tra Iran e Gran Bretagna si ebbero nel corso del secondo conflitto mondiale, quando lo scià, pur dichiarandosi neutrale, non nascose una certa simpatia nei confronti della Germania e ospitò nel territorio iraniano personale tedesco. Questo comportamento mise in allarme Francia e Germania, le quali fecero pressioni e costrinsero lo scià ad abdicare, lasciando il posto a suo figlio Muhammad Reza.
Le prime grosse tensioni diplomatiche, che corrisposero anche ai primi gravi segnali di squilibrio politico interno del paese, arrivarono nel 1951 e furono dovute alla politica del primo ministro nazionalista Mossadeq. Questi il 30 aprile del 1951 firmò il decreto con cui veniva nazionalizzato il petrolio iraniano. Questo provvedimento colpì nel vivo gli interessi inglesi, i quali protestarono formalmente ricorrendo prima all'AIA e poi all'ONU, ma non videro mai accolte le proprie rimostranze. La Gran Bretagna reagì con il boicottaggio commerciale dell'Iran, intaccandone gli interessi economici e facendo venir meno l'assistenza tecnica per gli impianti petroliferi; ciò non convinse però Mossadeq a tornare sui propri passi.
Mossadeq agì anche per limitare i poteri dello scià e questa sua iniziativa, che da molti fu gradita e gli garantì l'appoggio dei comunisti iraniani, si rivelò per lui un'arma a doppio taglio. Con l'indebolimento dello scià, si scatenarono violente manifestazioni con cui si chiedeva la fine della monarchia e il passaggio alla repubblica; Mossadeq represse tali manifestazioni con la forza, perdendo l'appoggio dei comunisti e ritrovandosi isolato politicamente.
La prospettiva della caduta dello scià, da sempre fedele alleato dell'occidente, in piena guerra fredda fece tremare Gran Bretagna e USA le quali, nell'estate del 1953, con un colpo di stato misero agli arresti domiciliari Mossadeq e diedero di nuovo tutti i poteri in mano allo scià. 
Lo scià cancellò le riforme sociali di Mossadeq e represse con forza ogni opposizione, dando inizio a una vera e propria dittatura di cui la polizia politica Savak fu lo strumento più temibile. Con gli aiuti economici degli USA, l'Iran formò uno degli eserciti più potenti del Medio Oriente (tanto che Nixon, dopo la sconfitta in Vietnam, lo tenne presente per eventuali azioni militari nella zona, volendo evitare ulteriori coinvolgimenti diretti dei militari americani). Nel 1971 Muhammad Reza si fece incoronare a Persepoli imperatore di una nuova Persia ariana, con l'intenzione di sostituire la tradizione islamica del paese con quelle dell'antico impero di Serse e Dario. Indifferente all'Islam, tentò anche delle riforme sociali in senso laicizzante, ma si trattò di interventi di facciata (esempio: costrinse le donne a togliere il velo e le ammise all'università, ma non abolì i privilegi maschili nel diritto matrimoniale e di famiglia) che servirono solo a inimicargli le istituzioni religiose del paese e la parte credente del popolo, che vide questi interventi come una violenza culturale.
L'impopolarità dello scià crebbe nel 1976, quando la crisi economica impoverì notevolmente il paese. Si formarono gruppi terroristici la cui azione era finalizzata a scatenare la rivoluzione. In questo clima emerse la carismatica figura dell'ayatollah Khomeini, diventato guida dei rivoluzionari grazie alle proteste del 1963, contro il servizio militare obbligatorio per i religiosi e le riforme agrarie, e del 1964, contro il servilismo dello scià nei confronti degli USA, a seguito delle quali fu costretto all'esilio.
Il 1979 fu l'anno di svolta: il 16 gennaio lo scià fu costretto a fuggire dal paese e tre giorni dopo vi rientrò Khomeini, accolto come un trionfatore. A marzo un referendum sancì la fine della monarchia e la nascita della repubblica.
Khomeini si preoccupò subito di cancellare gli oppositori e creare un governo totalmente religioso, in cui lo affiancavano i Guardiani della rivoluzione e la milizia armata dei pasdaran (di cui Soleimani era membro di primo piano). 
Con la rivoluzione e il progetto khomeinista di esportare la rivoluzione islamica in tutto il mondo, si deteriorarono definitivamente i rapporti tra Iran e USA, anche in virtù dell'appoggio di quest'ultimi allo stato di Israele. 
Un'apertura dell'Iran verso l'occidente si ebbe tra il 1989, anno della morte di Khomeini (a cui successe l'ayatollah Khamenei) e il 2005. In questi anni si successero governi riformatori che chiusero all'idea di esportare la rivoluzione islamica e di fare guerra agli altri paesi, aprendo un dialogo con l'Occidente. Questa fase però fallì per varie ragioni: i vari schieramenti riformatori erano molto divisi e non ebbero il coraggio di apportare cambiamenti radicali; alle istituzioni elettive si affiancavano quelle non elettive, che erano nelle mani dei religiosi e ponevano un freno alle iniziative riformiste; con l'11 settembre gli USA inserirono l'Iran tra gli "stati canaglia", vanificando le aperture diplomatiche del recente passato e alimentando l'immagine dell'Occidente dispotico e sanguinario agli occhi del popolo (immagine alimentata anche dalle invasioni di Afghanistan e Iraq).
Il vento riformatore dell'Iran si arrestò definitivamente con l'elezione del conservatore Ahmadinejad, il quale impoverì ulteriormente il paese con riforme economiche disastrose e lo isolò ancor di più avviando un programma nucleare che avrebbe permesso al paese di dotarsi della bomba atomica. Ahmadinejad fu rieletto nel 2009 grazie a conclamati brogli elettorali.
Nel 2013 alla guida del paese è stato eletto il moderato Ruhani, il quale ha avviato una nuova fase di distensione, riuscendo anche a portare avanti un dialogo storico e costruttivo con gli USA di Barak Obama, assicurandosi il diritto di portare avanti il programma nucleare senza però usarlo per scopi militari. 
Il resto è storia di questi giorni.

Ci tengo a precisare che questo post non nasce allo scopo di fare valutazioni politiche. Semplicemente ho riportato i fatti storici più utili alla comprensione della situazione attuale per permettere a voi lettori di capire meglio il presente e formarvi una vostra opinione. Non è questione di essere pro-Occidente o pro-Iran, è questione di capire perché succedono determinate cose e fare una scelta ponderata, qualunque essa sia.

Francesco Abate 

martedì 7 gennaio 2020

SERATA "DANTE ALIGHIERI" A BATTIPAGLIA

Stasera ho avuto il piacere di curare la serata dedicata a Dante Alighieri che si è svolta presso la Biblioteca comunale di Battipaglia (SA).
Ringrazio per il privilegio l'Associazione Rinascita Commercianti di Battipaglia, specialmente nella persona della presidentessa Lucia Ferraioli, che ha pensato a me per l'evento.
Ringrazio inoltre tutti i partecipanti e spero che si organizzino in futuro altri eventi del genere, perché da Dante e dalla Divina Commedia possiamo imparare ancora tanto.

Francesco Abate

giovedì 2 gennaio 2020

ESTRATTO N°3 DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

Il trambusto che aveva dominato fino a qualche secondo prima si spense di colpo, lasciando il posto a qualche vana e flebile richiesta di aiuto, che si spense nel giro di qualche giorno.
La pioggia di bombe durò ventiquattrore. Quando arrivò il tramonto e gli aerei tacquero, fu perché non c'era più nulla da attaccare.
Il crepuscolo scese su uno sterminato mare di distruzione e di morte. Non una casa era in piedi. Non fosse stato per le macerie, si sarebbe potuto pensare che mai l'uomo avesse abitato quei territori.
Un silenzio irreale prese possesso di quelle terre, si sentiva solo il vento e il verso dei lupi attratto dall'odore delle carcasse.
La montagna era diventata un enorme cimitero dove ai morti era negata anche la consolazione della memoria. Non c'erano lapidi o scritte a ricordare le migliaia di persone, giudicate da qualcuno solo un danno collaterale. Di colpo la loro esistenza, fatta di gioie e dolori, di amore e odio, era stata cancellata. Cettina non poteva più crescere, pentirsi dell'errore fatto o perseverare in esso; Enzuccio non poteva più coltivare la sua frutta e lottare contro le avversità; i bambini non potevano più ridere, giocare, e capire l'attrazione strana provata per la bella Cettina; Maria non poteva più sperare di vedere il figlio sistemato e Ciccio non poteva più comprendere l'amore che lei provava per lui; la vecchietta dell'ospedale non poteva più sperare nella sopravvivenza del marito.
Non esistevano più e mai sarebbero davvero esistiti, colpevoli di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

***

Il romanzo I Protettori di Libri si svolge in un'Italia sul cui suolo è combattuta una guerra tra gli alleati americani e i nemici russi.
La guerra non ha un ruolo di primissimo piano, la mostro sullo sfondo, ma mi sono sentito in dovere di dedicare qualche pagina all'illustrazione di quello che è davvero un conflitto bellico. Non mi sono soffermato sulle ragioni politiche o sui movimenti degli eserciti, quello che ho voluto è stato raccontare delle storie di uomini e donne, militari e non, così da ricordare al lettore che dietro alla guerra, argomento di cui spesso parliamo con superficialità, ci sono vite spezzate. Ogni volta che si combatte una guerra, si cancellano dalla faccia della Terra tante esistenze uniche e irripetibili che nulla hanno a che vedere con gli eserciti, semplicemente abitano quei posti che in un determinato momento diventano obiettivi strategici.
Oggi sentiamo quotidianamente parlare di bombardamenti e vittime, non ci prestiamo neanche attenzione, ma dietro a quei numeri si nasconde un carico di vite cancellate per sempre. Il mio tentativo è stato quello di mostrare l'umanità ferita e uccisa dalla guerra; per farlo in maniera efficace ho portato il conflitto sulle nostre terre, ho chiamato le vittime Cettina e Maria, non Abdul e Mohammed, sperando di accendere nel cuore del lettore la consapevolezza dell'atrocità che è la guerra, che è per me un atto sempre ingiustificabile.
Chi sarà stato a bombardare il nostro paese?
Scopritelo acquistando I Protettori di Libri su uno dei link che troverete in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, oppure sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", o ancora sull'account Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate