domenica 17 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
Il canto X inizia con Virgilio che, seguito dal suo protetto, percorre una via posta tra il muro di Dite e i sepolcri infuocati degli eretici. Dante si rivolge alla sua guida ("O virtù somma, che per li empi giri / mi volvi") e chiede se sia possibile vedere coloro che abitano quei sepolcri, infatti pensa sia semplice soddisfare questa curiosità visto che sono aperti e nessun demonio è nei pressi a far la guardia. Tanto sono profondi i sepolcri infatti che per il poeta è impossibile vedere chi c'è dentro nonostante i coperchi siano sollevati. Virgilio non si limita solo ad acconsentire, con la sua risposta spiega a Dante quale sarà il destino degli eretici e a quale eresia appartennero quelli che patiscono la loro pena nella zona che adesso i due poeti stanno percorrendo. La guida spiega che nel giorno del giudizio gli eretici verranno rinchiusi con i loro corpi nei sepolcri, adesso aperti, e lì sconteranno la pena per l'eternità. "Tutti saran serrati / quando di Iosafàt qui torneranno / coi corpi che là su hanno lasciati", dice Virgilio, citando il termine "Iosafàt", che il profeta Gioele usò per indicare la valle dove Dio emetterà il giudizio sull'operato degli uomini. Dopo aver illuminato Dante sul destino degli eretici, gli spiega che in quella zona giacciono gli Epicurei, coloro "che l'anima col corpo morta fanno". Il filosofo Epicuro, che Dante conobbe per mezzo degli scritti di Cicerone, riteneva infatti che l'anima fosse una sostanza materiale diffusa per tutto l'organismo e fosse mortale. Alla fine del suo discorso Virgilio rassicura Dante dicendogli che a breve saranno soddisfatte sia la curiosità che ha manifestato, sia quella che ha celato ("Però a la dimanda che mi faci / quinc'entro satisfatto sarà tosto, / e al disio ancor che tu mi taci"). Il poeta a questo punto si giustifica spiegando che certe domande evita di farle non per mancanza di fiducia nei confronti della guida, ma per "dicer poco" così come gli è stato più volte chiesto di fare.
Il dialogo tra Dante e Virgilio è bruscamente interrotto dalle parole di Farinata degli Uberti, di cui Dante aveva già chiesto notizia a Ciacco (canto VI, verso 79). Farinata, il cui vero nome fu Manente, fu capo politico e militare dei ghibellini fiorentini e nel 1248 cacciò i guelfi dalla città. Quando tre anni dopo i guelfi ritornarono, furono i ghibellini e lo stesso Farinata ed essere esiliati. Nel settembre del 1260 sconfisse a Montaperti i guelfi e rientrò a Firenze da conquistatore, opponendosi però a chi voleva distruggere la città. Morì nel 1264, circa un anno prima della nascita di Dante. Dopo la morte, Farinata e i suoi uomini furono giudicati eretici, per questo Dante lo colloca in questo cerchio. Farinata si erge dal suo sepolcro quando sente Dante esprimersi nella lingua della sua città, infatti lo chiama: "O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto, / piacciati di restare in questo loco. / La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natìo, / a la qual forse fui troppo molesto". Dante inizialmente si spaventa e si accosta a Virgilio, quest'ultimo lo esorta a voltarsi e guardare Farinata che s'è alzato ed è visibile in tutta la parte superiore del corpo. Il poeta finalmente volge lo sguardo verso il dannato. Davanti stavolta non si trova un personaggio devastato o umiliato, bensì ad una figura eretta che manifesta tutta la propria forza, per Dante è come se "avesse l'inferno a gran dispitto". Già da questo particolare, cioè dalla posizione del corpo di Farinata, possiamo capire come il poeta lo stimasse nonostante fosse uno dei principali esponenti della parte politica avversa. Farinata non è dilaniato dagli altri dannati, non è trasfigurato come una bestia e non ha il visto stravolto dal dolore: affronta l'Inferno con la stessa forza e determinazione con cui in vita affrontò le battaglie contro i guelfi. Anche nel porre all'uomo che ha di fronte una domanda, cioè quali furono i suoi antenati, non piange né implora, addirittura appare sdegnoso. Dante gli cita i suoi antenati e Farinata constata come essi furono suoi nemici e lui due volte li cacciò dalla città. Anche nel ricordare le sue vittorie in battaglia contro i guelfi, il dannato dimostra un orgoglio non piegato dalla pena che sta subendo: il ricordo della gloria passata sembra attenuargli la pena. Dante ribatte però che i guelfi, cacciati dalla città, seppero rientrarvi entrambe le volte, cosa che i ghibellini non sono stati in grado di fare. 
Il dialogo tra Dante e Farinata è interrotto dall'apparizione di una figura molto diversa da quella del dannato orgoglioso, quella di Cavalcante dei Cavalcanti. Cavalcante fu padre del poeta Guido, grande amico di Dante. Egli non si erge sprezzante come Farinata, rimane in ginocchio e di lui Dante vede solo la testa. Cavalcante si preoccupa di sapere come mai, se Dante è giunto fin lì grazie all'altezza del suo ingegno, non è con lui Guido. Questa domanda la fa piangendo, ha già il sospetto che suo figlio sia morto. Nel rispondergli che quel viaggio non dipende da lui, ma da un Bene superiore che forse non ritiene Guido Cavalcanti degno, Dante commette l'errore di usare il tempo passato ("per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno"), così Cavalcante si convince che suo figlio sia morto e ne chiede conferma. Dante non risponde a questa nuova domanda, facendo cadere il dannato nella disperazione al punto da lasciarsi cadere supino nel sepolcro infuocato. La mancata risposta del poeta non è però determinata dalla pietà, infatti Guido Cavalcanti è ancora vivo, ma da un dubbio che di colpo lo assale: fino a quel momento i dannati sono stati capaci di predire il futuro, non si spiega perciò come possa Cavalcante ignorare il destino del figlio. 
Caduto Cavalcante nel sepolcro, torna in scena Farinata. Quest'ultimo non mostra alcun interesse né alcuna pietà per il suo compagno di sventura, nemmeno gira la testa per vedere meglio ciò che accade. Farinata riprende il dialogo interrotto dall'apparizione di Cavalcante rispondendo all'ultima affermazione di Dante e lo fa con una profezia, accentuando la contrapposizione con l'altro dannato, che è incapace di vedere nel futuro del figlio. Farinata dichiara che l'incapacità dei ghibellini di rientrare a Firenze gli pesa più della pena che sta scontando ("S'elli han quell'arte ... male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto"), ma predice a Dante che sperimenterà in prima persona la difficoltà dell'impresa prima che siano passati cinquanta mesi ("Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge"). Fatta la predizione, Farinata chiede a Dante perché a Firenze siano così ingiusti nel fare leggi contro la sua famiglia (dalla pace del 1280 in poi, diversi furono i decreti con cui si riammettevano famiglie ghibelline a Firenze, ma gli Uberti furono sempre esclusi). Dante motiva l'accanimento dei fiorentini contro gli Uberti con il sangue che questi fecero scorrere nella battaglia di Montaperti. L'ultima risposta di Dante genera un cambiamento nell'atteggiamento di Farinata, adesso sospira e muove il capo, perdendo un po' della sua alterigia e forse prendendo atto della colpa che gli viene addebitata, infine si giustifica prima ricordando che non fu lui solo a far scorrere quel sangue e non lo fece senza ragione, poi ricordando che fu l'unico a opporsi a coloro che avrebbero voluto distruggere la città. L'argomento del dialogo viene bruscamente cambiato da Dante, il quale chiede all'interlocutore come mai riescano a vedere nel futuro ma non nel presente. Farinata gli spiega che i dannati vedono il futuro lontano come chi ha una cattiva vista, questo non per loro capacità ma per volere di Dio, invece il futuro prossimo e il presente sfugge alla loro conoscenza e non ne sanno nulla. Ovviamente questa conoscenza del futuro la perderanno dopo il giudizio universale perché non ci sarà più il tempo, ma solo l'eternità. Dante, compresa questa verità, gli chiede di dire a Cavalcante che suo figlio Guido è ancora vivo (lo sarà per pochi mesi ancora, per questo il padre non sa più nulla di lui) e non gli ha risposto solo perché in preda al dubbio che ora Farinata gli ha tolto. Virgilio inizia a richiamare Dante, ma questo chiede ancora a Farinata di dirgli quali altri anime stiano scontando la pena lì. Farinata gli dice che sono tantissime ("Qui con più di mille giaccio") e gli cita solo Federico II e il Cardinale diacono Ottaviano degli Ubaldi. Farinata si ritira nel suo sepolcro infuocato e Dante torna da Virgilio.
Virgilio si accorge che Dante è turbato a causa della profezia avversa avuta da Farinata, per tranquillizzarlo gli dice che quando sarà al cospetto di Beatrice, che in quanto rappresentante della scienza teologica può chiarirgli ogni dubbio, verrà messo a conoscenza di tutto il suo futuro. I due poeti riprendono il cammino lungo un sentiero che conduce al settimo cerchio, dal quale si alza uno spiacevole odore.

Francesco Abate  
  

domenica 10 dicembre 2017

COMMENTO DELLE RACCOLTE DI NOVELLE DI GIOVANNI VERGA

Giovanni Verga, oltre che per i romanzi, è famoso per le sue novelle. Nei brevi componimenti che pubblicò in diverse raccolte, Verga sperimentò elementi che poi ripropose nei suoi romanzi più celebri, in alcuni però sperimentò anche tipi di narrazione che difficilmente gli attribuiremmo. Vedremo, nell'analisi delle varie raccolte di novelle che di seguito farò, che è esistito addirittura un Verga "gotico" che pochi conoscono.
Le novelle di Verga possono essere quasi tutte raggruppate nelle otto raccolte che pubblicò tra il 1876 ed il 1894. Di quelle escluse, la più importante è Nedda, il cui commento trovate al seguente link: http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/11/nedda-di-giovanni-verga.html.

La prima raccolta di novelle dello scrittore siciliano è Primavera e altri racconti. Pubblicata nel 1876, contiene novelle pubblicate su varie riviste nei due anni precedenti. Essendo una raccolta di novelle pubblicate singolarmente, non presenta omogeneità né nei temi trattati né nello stile narrativo. Proprio in questa raccolta troviamo il primo esempio del Verga "gotico" di cui parlavo prima. Le storie del castello di Trezza racconta di un castello abitato da un fantasma che di notte ne terrorizza gli abitanti. 

La seconda raccolta è una delle più famose, Vita dei campi. Pubblicata nel 1880, presenta nelle sue novelle alcune caratteristiche che si ritroveranno poi nel romanzo I Malavoglia, che sarà pubblicato l'anno dopo. In questa raccolta ci sono alcune delle novelle più famose di Verga: Rosso Malpelo, La lupa e Cavalleria rusticana.
In Rosso Malpelo troviamo la tragedia dei vinti così come ne I Malavoglia. Questa novella parla infatti di un minatore ragazzino che vive una condizione di miseria da cui non può uscire, può solo peggiorare, e in cui muore. La novella tratta anche il tema delle condizioni di vita terribili dei minatori siciliani del XIX secolo, questione che proprio in quegli anni stava emergendo prepotentemente a causa di alcune inchieste giornalistiche. Nella storia del povero Rosso Malpelo è anche presente il dramma dell'emarginazione, infatti il ragazzo è malvisto perfino in famiglia per via del colore dei suoi capelli, non trovando perciò affetto e conforto nemmeno tra le mura domestiche. Trattato come una bestia, il protagonista finisce per diventare duro di cuore, ed anche nei modi di manifestare affetto risulta brusco e violento.
Cavalleria rusticana ci mostra invece la tragedia dei delitti d'onore, quelli cioè compiuti per rivalersi nei confronti di chi insidiava la propria donna. La lupa invece rappresenta la lussuria che distrugge quel che di più sacro c'è al mondo, cioè il nucleo familiare.
Tra le novelle meno famose della raccolta, mi piace segnalare Guerra di santi, in cui Verga ci mostra lo scontro tra diverse fazioni di fedeli. Nelle vicende narrate in questa novella vediamo come si arrivano a mischiare fede, fanatismo e superstizione.

La terza raccolta, anch'essa molto famosa, è Novelle rusticane. Pubblicata nel 1883, essa anticipa il tema dell'accumulo di beni come mezzo per raggiungere la felicità, che lo scrittore ripropose nel romanzo Mastro-don Gesualdo sei anni dopo. 
Accumulare beni è l'unico modo per sopravvivere agli imprevisti della vita, questo spinge ad accumularne sempre di più. In La roba però vediamo il ricco Mazzarò, in punto di morte, che scopre come la ricchezza non gli renda meno amara la sentenza e, impazzito, cerca di portare le cose accumulate con tanta fatica con sé all'altro mondo.
Degna di nota anche La malaria, che racconta di un paese devastato dalla malattia e dai drammi che vive chi lo abita. Si tira a campare e si perde tutto, affetti e beni, mentre il resto del mondo va avanti indifferente, rappresentato dal treno che passa pieno di gente.

Del 1883 è Per le vie, raccolta di novelle ambientate nella ricca e lussuosa Milano. Verga ci mostra però l'altra faccia del capoluogo lombardo, ci racconta di chi vive ai margini, di chi a fatica sopravvive e quel benessere ostentato lo vede solo come spettatore, accontentandosi al massimo delle briciole.

Drammi intimi fu pubblicata nel 1884 e narra i mali dell'animo umano. 
In I drammi ignoti vediamo prima una giovane quasi morire d'amore, poi il dramma di sua madre che rinuncia per lei al suo segreto amante. La Barberina di Marcantonio ci mostra una vita spezzata dalle sciagure e dall'alluvione. Tentazione! descrive come, attraverso uno stupro di gruppo che degenera in omicidio, dei ragazzi spezzino una vita innocente e rovinino per sempre la propria. La chiave d'oro ci fa vedere la corruzione di un giudice e Ultima visita il dramma che vive chi perde una persona amata.

Del 1887 è Vagabondaggio. Questa raccolta di novelle non parla solo di vagabondi, ci descrive in realtà una vita che è essa stessa un interminabile vagabondaggio. L'esistenza è un cammino dalla durata e dalle vicissitudini imprevedibili.
In Lacrymae rerum Verga ci mostra diverse storie che si svolgono in una casa. In questo ambiente si susseguono famiglie diverse con storie diverse. I protagonisti arrivano, stanno un po' e poi vanno via, rendendo appieno il senso del vagabondaggio.
In questa raccolta troviamo anche il secondo esempio di Verga "gotico", nella novella La festa dei morti infatti assistiamo al risveglio di un gruppo di cadaveri che si riunisce in una grotta sotterranea. Il loro vagabondare non è finito nemmeno con la morte.

I ricordi del capitano d'Arce è una raccolta di novelle pubblicata nel 1891. Verga, attraverso i ricordi di un capitano di marina, narra le vicende della moglie di un comandante. Donna adultera e civettuola, vive l'amore con la massima libertà. La vediamo prima nel suo momento migliore, quando è circondata da corteggiatori e ha diversi amanti, infine in quello peggiore, quando è malata e molti amici nemmeno vanno più a trovarla.

Don Candeloro e i C.i. fu pubblicata nel 1894 e mostra il mondo teatrale dell'epoca. Si comincia con le vicende di don Candeloro, un bravissimo burattinaio la cui arte va in malora a causa dell'avvento di un nuovo modo di fare teatro, meno artistico e più spregiudicato. Le vicende successive mostrano altri spaccati del mondo teatrale, fatto di falsità, privo di sentimenti genuini, dove l'arte e l'amore per essa passano in secondo piano.

Come detto all'inizio, vi sono anche delle novelle di Verga non contenute in nessuna delle raccolte sopra citate. Si tratta però di componimenti meno importanti.
Io ho letto uno dei tanti libri che le raccolgono tutte, entusiasmato dalla lettura di Mastro-don Gesualdo, che ho adorato. Oltre all'entusiasmo, leggendo le novelle ho voluto perdonarmi un atteggiamento troppo ostile tenuto negli anni nei confronti di Verga. Lessi da ragazzo I Malavoglia e lo odiai, interrompendolo a metà, ma oggi sono convinto che quel libro semplicemente mi capitò tra le mani nel momento sbagliato. Le novelle sono comunque una lettura che racchiude tutto ciò che è Verga, per questo sono bellissime e vale la pena leggerle. L'unico consiglio che mi sento di dare, però, è di non leggerle tutte insieme. Esse furono infatti scritte in momenti diversi, sono tante storie diverse, ma figlie dello stesso autore, dello stesso modo di pensare e di scrivere. Sebbene Verga sia un grandissimo scrittore, è facile intuire che a lungo andare le novelle possano risultare un po' ripetitive. Leggendole però a distanza di un po' di tempo, sono sicuro che questo spiacevole effetto venga annullato. 

Francesco Abate

sabato 9 dicembre 2017

VI RACCONTO LA MIA POESIA "CACOFONIA"

La mia vita è cacofonìa:
orchestre di strumenti scordati
e cori di cantanti stonati
rovinano lo spartito che ho dentro.
La vita non sempre va come noi vorremmo e spesso non riusciamo ad esprimere ciò che siamo davvero per colpa di circostanze avverse, o comunque di situazioni che si evolvono diversamente da come avremmo gradito.
Cacofonìa, l'ultima poesia che ho pubblicato su Spillwords, esprime questo, sottolineando la differenza tra la musica celestiale che sentiamo dentro (lo spartito) e quella che riusciamo a diffondere nell'aria (la nostra vita).
In fondo, siate sinceri, tante volte avete esclamato anche voi:
Il mondo gira sempre al contrario
e mai la natura mi è amica.

Per chi volesse leggere la poesia, è pubblicata al link: http://spillwords.com/cacofonia/.

Francesco Abate


COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il nono canto dell'Inferno inizia con Dante e Virgilio chiusi fuori la città di Dite, impossibilitati a riprendere il proprio cammino a causa del rifiuto dei demoni. Nei primi versi troviamo i due impalliditi, Virgilio a causa della delusione e Dante per la paura di essere abbandonato, la guida però riprende subito il suo colore naturale perché non ha il cuore colmo di viltà. Virgilio resta in guardia ("Attento si fermò com'uom ch'ascolta"), in attesa di un intervento divino, perché consapevole che quel viaggio non possa e non debba finire lì. Sta ad ascoltare perché con gli occhi può vedere poco a causa delle tenebre e della nebbia che regnano in quel luogo. Le parole della guida di Dante tradiscono un po' di indecisione, infatti dichiara che dovranno vincere quella disputa, ma subito dopo tronca la frase come chi non è sicuro di ciò che sta dicendo ("<< Pur a noi converrà vincer la punga >>, / cominciò el, << se non... Tal ne s'offerse"). Le parole di Virgilio si concludono con un'esclamazione che chiarisce le sue speranze, egli infatti si rammarica di quanto si faccia attendere l'intervento superiore, è quindi sicuro che ci sarà. Quella frase lasciata a metà però spaventa Dante, il quale chiede se mai sia sceso laggiù qualcuno dal limbo, quindi qualche anima che sia nella stessa condizione di Virgilio ("<< In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca? >>"). Dante in realtà vuole sapere se la sua guida ha mai compiuto prima quel viaggio nelle profondità dell'Inferno, per delicatezza però pone la domanda in modo generico. Virgilio spiega di aver già percorso questo cammino poco tempo dopo la sua morte ("Di poco era di me la carne nuda") per mezzo della maga Eritone, che lo usò per riportare in vita un morto la cui anima era caduta nella Giudecca, l'ultimo cerchio dell'Inferno. Spiega a Dante che la Giudecca è il luogo più basso dell'Inferno, quindi lo rassicura dicendogli che conosce il cammino che ora stanno compiendo. La vicenda della precedente discesa di Virgilio nell'Inferno è un'opera della fantasia di Dante, usata per giustificare la sicurezza della guida e dello stesso autore. Rassicurato il suo protetto però, Virgilio gli spiega che non c'è altro modo di entrare nella città di Dite, dovranno per forza vincere quella disputa coi demoni. 
Il discorso di Virgilio continua, ma Dante smette di ascoltarlo perché attratto dalla visione delle tre furie sulla torre. Queste Furie sono figure della mitologia greca già citate da Omero ed Euripide, i nomi che Dante attribuisce loro furono però assegnati loro da Virgilio nell'Eneide: Megera, Aletto e Tisifone. Secondo alcuni critici, in questa situazione esse rappresentano i tre mali puniti all'interno della città di Dite: matta bestialità, frode e tradimento. Le Furie ovviamente hanno un aspetto mostruoso, cinte di serpenti acquatici velenosi (idre) e con i capelli fatti sempre di serpenti. Ecco come le descrive Dante: "che membra feminine avieno e atto, / e con idre verdissime eran cinte; / serpentelli e ceraste avien per crine, / onde le fiere tempie erano avvinte". Virgilio indica quelle creature mostruose e ne cita i nomi, mentre esse invocano Medusa, l'orrenda Gorgone che in questa situazione probabilmente rappresenta il terrore che immobilizza Dante. Virgilio, temendo l'arrivo della Gorgone, fa voltare Dante e gli dice di non guardarla, infatti è noto che lo sguardo del mostro riduca il malcapitato in pietra. La situazione è disperata, i poeti non possono proseguire e sono minacciati da un terribile mostro che riduce in pietra chi lo guarda, a questo punto arriva l'aiuto divino in cui Virgilio ha confidato sin dall'inizio. Dante, non dimenticando lo scopo didattico dell'opera, chiede al lettore di comprendere "la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani". Dalle acque del fiume si alza un potentissimo vento che ne scuote le due rive, poi Dante vede una creatura celeste camminare sulle acque putride senza bagnarsi i piedi, mentre le anime immerse nella melma fuggono come rane alla vista della biscia (dannati, fuggono la grazia divina). La nuova apparizione percorre le acque, intenta solo a scostarsi l'oscura nebbia dal viso. Il messo celeste si avvicina alla porta di Dite e la apre semplicemente percuotendola con una piccola verga ("Venne a la porta e con una verghetta / l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno"). Aperta la porta con facilità, la creatura celeste si rivolge ai dannati, chiedendo loro perché mai si oppongano all'immutabile volontà divina e minacciandoli ricordando loro l'episodio in cui Cerbero si oppose alla discesa di Ercole, finendo incatenato e sconfitto. Spiegato con poche parole ai demoni che non è il caso che continuino la loro ribellione, il messo celeste torna indietro senza nemmeno rivolgere la parola a Dante e Virgilio.
Le porte di Dite sono aperte e l'intervento divino infonde coraggio ai due viaggiatori che, animati da una nuova sicurezza, entrano dentro la città ("e noi movemmo i piedi inver' la terra, / sicuri appresso le parole sante"). Dentro non trovano alcuna resistenza, segno che i demoni si sono arresi di fronte alla manifestazione della volontà e della potenza di Dio. Qui Dante assiste alla punizione che scontano gli eretici, essi giacciono in sepolcri infuocati. Nel descrivere quest'immensa necropoli piena di sepolcri, il poeta fa riferimento a due famosi cimiteri dei suoi tempi: Arles e Pola. Virgilio, nello spiegare a Dante chi siano i dannati, spiega che "Simile qui con simile è sepolto", cioè gli eretici sono raggruppati in base all'eresia che predicarono o seguirono in vita.

Francesco Abate  

domenica 3 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Dante inizia il verso dicendoci che "Io dico, seguitando..." e su questo "seguitando" i critici hanno fatto delle ipotesi interessanti. Ovviamente il canto VIII segue i sette precedenti, ma è la prima volta che il poeta introduce i suoi versi dicendoci che sta proseguendo ciò che ha già raccontando. Per i critici più antichi, tra cui Boccaccio, questo è il primo canto scritto dal poeta dopo l'esilio. Aveva già scritto i primi sette canti e, precisamente nel 1306, gli furono inviati da Firenze presso il suo nuovo soggiorno (era ospite dei Malaspina). Quindi questa brevissima introduzione sarebbe dovuta ad un'interruzione della stesura dell'opera: il poeta, dopo una lunga pausa, riprende a scrivere e prosegue dal punto in cui l'aveva lasciata. Non tutti i critici però concordano con questa ipotesi, molti ritengono che la Divina Commedia fu scritta in blocco, senza alcuna interruzione.
Dante vede delle fiamme usate per comunicare tra le due torri poste sulle due sponde dello Stige. Probabilmente stanno comunicando l'imminente arrivo delle due anime, ecco perché su una torre le fiamme accese sono due, e l'altra torre segnala di aver ricevuto il messaggio. Questa immagine richiama le segnalazioni tra torri all'epoca degli antichi romani: i demoni si scambiano informazioni così come i soldati facevano in epoche antiche nel mondo dei vivi. Il poeta si rivolge alla sua guida, "mar di tutto 'l senno", e gli chiede tre cose: che vogliono dire le due fiammelle accese per prime, cosa hanno risposto dall'altra torre e chi sono quelli che tramite esse comunicano. Virgilio non gli dice chi abbia comunicato, gli dice solo che può già vedere cosa sta accadendo, quindi cosa è stato sollecitato con quella comunicazione. La guida risponde quindi spronandolo a guardare da sé, la terza domanda invece la ignora completamente. Sulle acque putride dello Stige, Dante vede avanzare una barchetta. Per rendere l'idea della velocità con cui naviga l'imbarcazione, il poeta la paragona alla freccia lanciata dalla corda dell'arco: "Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l'aere snella, / com'io vidi una nave piccioletta / venir per l'acqua verso noi in quella". La barca è guidata da Flegias, il demone incaricato di condurre le anime nella città di Dite. Nella mitologia greca, uccise sua figlia Coronide e bruciò il tempio di Delfi per vendicarsi del dio Apollo che l'aveva violentata. Il ruolo di Flegias non è chiaro per i critici, che ancora oggi si chiedono se egli sia di fatto il traghettatore delle anime sullo Stige, o se la sua apparizione sulla barca sia un evento eccezionale dovuto all'arrivo di Dante e Virgilio. Stando ad altri versi dell'opera, risulta che le anime vengano scagliate direttamente nel cerchio loro destinato senza varcare il fiume fangoso, quindi non è detto che a Flegias spetti stabilmente il ruolo di traghettatore. Flegias giunge al cospetto dei due viaggiatori urlandogli contro quello che potrebbe essere un rimprovero o una minaccia: "Or se' giunta, anima fella!". Se intendiamo il termine "giunta" come "arrivata", può quasi sembrare un rimprovero, ma per alcuni critici potremmo anche tradurlo come "presa", trasformando la frase in una minaccia. Flegias si rivolge solo a Virgilio (lo deduciamo dall'appellativo "anima fella", cioè anima colpevole), a suo avviso colpevole di aver condotto fin lì un vivente. Virgilio come sempre non si perde d'animo e risponde a tono, prima dicendogli che grida a vuoto ("Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto"), poi che deve svolgere il suo compito e traghettarli sull'altra sponda dello Stige ("più non ci avrai che sol passando il loto"). A questo punto la furia di Flegias si trasforma in rammarico, prende atto di non potersi opporre in alcun modo ad una volontà superiore. Sulla barca sale prima Virgilio, poi Dante, ma solo quando sale il secondo la barca sembra appesantirsi. Questo ovviamente accade perché le anime, separate dal corpo, non hanno peso. 
Navigando sullo Stige, i due poeti si imbattono nella figura di Filippo Argenti. Di questo personaggio fiorentino non si hanno molte notizie. Appartenne alla famiglia degli Adimari e fu soprannominato "Argenti" perché fece ferrare d'argento il suo cavallo. Compare anche nel Decamerone di Boccaccio e nella Novella di Sacchetti, in entrambi è descritto come un personaggio prepotente e violento. Anche il figlio di Dante, Iacopo, lo descrisse come un uomo di cui non era ricordato un solo atto nobile. Non godeva quindi di grande stima tra gli intellettuali fiorentini dell'epoca, inoltre si pensa fosse fratello di Boccaccio Adimari, colui che si impadronì dei beni di Dante non appena quest'ultimo fu esiliato. Se Filippo Argenti non era amato in generale, è chiaro che Dante aveva qualche ragione più degli altri per avere di lui poca stima. L'incontro tra Dante e l'Argenti è quasi uno scontro. Dapprima il dannato sbuca dal fiume e, sporco di fango, chiede chi sia l'anima sulla barca e lo fa convinto che anch'essa sia destinata ad essere immersa lì con lui. Dante risponde subito con disprezzo, sottolineando che "S'i' vegno, non rimango", rinfacciandogli in pratica il fatto che lui è lì di passaggio, non destinato all'orribile pena cui è sottoposto l'interlocutore. L'Argenti non si sbilancia e non rivela la sua identità, si identifica semplicemente come uno dei tanti dannati ("Vedi che son un che piango"). Il poeta però l'ha riconosciuto e non mostra per lui alcuna pena: "E io a lui: << Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto >>". A questo punto si rivela l'indole violenta del dannato, che tende le mani nel tentativo di farlo cadere nello Stige, ma viene respinto da Virgilio che gli dice: "Via costà con li altri cani!". La guida poi si comporta con Dante come una madre nei confronti del figlio spaventato: lo abbraccia, gli bacia il volto, elogia il suo sdegno nei confronti del dannato con versi simili a quelli dedicati alla Madonna nel Vangelo di Luca ("Alma sdegnosa, / benedetta colei che 'n te s'incinse") e si lascia andare ad un'invettiva contro chi ha provato a fargli del male ("Quei fu al mondo persona orgogliosa; / bontà non è che sua memoria fregi: / così s'è l'ombra sua qui furiosa"). L'invettiva di Virgilio contro Filippo Argenti viene poi rivolta a tutti i nobili reggenti fiorentini, i quali pagheranno le loro malefatte annegando in quel fiume fangoso: "Quanti si tengon or là su gran regi / che qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi!". Finita l'invettiva di Virgilio, vediamo una versione meno compassionevole e molto più crudele di Dante che, come detto sopra, aveva validi motivi per portare rancore a Filippo Argenti. Il poeta dichiara che sarebbe felice di veder annegare il dannato nelle acque fangose e Virgilio lo rassicura dicendogli che potrà godersi lo spettacolo prima di giungere all'altra riva. Dante finalmente vede le altre anime immerse nello Stige avventarsi contro Filippo Argenti, dargli addosso come fosse un'aggressione programmata (con tanto di urlo "A Filippo Argenti!", un incitamento ad attaccarlo) e fare strazio di lui in modo tale "che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio". Tanta è la sofferenza patita dal dannato che contro sé stesso avventa i denti, si morde come se volesse punirsi per essersi condannato a quella pena. In questa immagine possiamo vedere ancora una volta le anime dannate ridotte come animali: in branco si avventano su uno e lo straziano, usando i denti e non le mani.
Lasciatisi dietro lo spettacolo degli iracondi che fanno scempio di Filippo Argenti, i viaggiatori sono scossi da un terribile urlo. Sono arrivati nei pressi della città di Dite, dichiara Virgilio. Dite è il nome latino di Plutone, dio dell'inferno pagano, che Dante identifica con Lucifero. Per capire come il poeta immaginava la città di Lucifero, ci bastano i versi 69-75. Dante ci dice che già vede le sue "meschite", cioè le sue moschee. Ha la tipica struttura della città medievale, con mura di cinta e torri. Dante però vede moschee, quindi le torri il poeta le immaginava come minareti. La città è simbolo della rivolta contro Dio, quindi l'autore vi inserisce delle immagini che richiamano una religione diversa da quella Cristiana. Dante inoltre le mura le vede rosse e Virgilio spiega che il fuoco eterno che brucia dentro la città le fa apparire così. Quindi sappiamo che questa città, cinta di mura e con torri simili ai minareti, al suo interno ospita le eterne fiamme infernali. Per spiegarci la presenza del fuoco nell'Inferno, immagine a noi familiare ancora oggi, dobbiamo ricordare che per san Tommaso il fuoco impedisce il libero moto dell'anima, precipitandola in un tormento senza speranza. I poeti si trovano con Flegias alle porte della città. A causa del fuoco, Dante nota che le mura sembrano di ferro, sono cioè di colore rosso. A questo punto scatta una rivolta dei demoni contro il viaggio del poeta. Flegias dà il segnale con un grido. Sopra le porte compaiono un numero indefinito ("più di mille") di demoni che iniziano ad urlare: "<< Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente? >>". Virgilio fa loro segno di volergli parlare da solo e loro, sfidando la volontà divina una seconda volta (perché furono angeli ribelli, compagni di Lucifero), gli comandano perentoriamente di venire da solo in qualità di prigioniero, colpevole di aver condotto un vivente fin lì, e di lasciare che Dante torni senza guida tra i vivi seguendo la strada percorsa, sicuri che non possa farcela ("<< Vien tu solo, e quei sen vada / che sì ardito intrò per questo regno. / Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, / che li ha' iscorta sì buia contrada >>"). Dante, sentite queste parole, è terrorizzato dall'idea di restare solo a vagare per i cerchi infernali e chiede alla sua guida di non abbandonarlo. Virgilio lo rassicura, gli ricorda che nessuno può fermare il loro cammino voluto da Dio, lo invita a non perdere la speranza e ad aspettarlo lì. Il poeta rimane in attesa mentre la sua guida va a parlare con i demoni. Il dialogo non dura molto, ma non porta i frutti sperati, infatti i demoni corrono dentro le mura e chiudono le porte, mostrandosi intenzionati ad impedire loro il cammino. Virgilio torna da Dante corrucciato, deluso ed arrabbiato per via della resistenza opposta dai demoni, ma rassicura il suo discepolo dicendogli che non è la prima volta che essi si dimostrano tanto temerari. Tentarono di opporsi anche alla discesa di Cristo nell'Inferno, quando trasse dal Limbo le anime pie (episodio citato nel canto IV dell'Inferno) per portarle con sé. I demoni cercarono di impedire l'ingresso di Cristo attraverso la porta dell'atrio infernale, la porta "la qual senza serrame ancor si trova" (non ha serrature, non può essere chiusa) e su cui Dante lesse "la scritta morta", ma fallirono. In pratica non è una novità la ribellione dei demoni alla volontà di Dio, alla fine però essi escono sconfitti, perciò Virgilio è sicuro che il cammino non sarà interrotto.

Francesco Abate