sabato 31 dicembre 2016

FELICE ANNO NUOVO

Salve a tutti,

non starò a farvi un discorso di fine anno e non vi tedierò con un bilancio, è stato un anno normale, come tutti ho avuto alti e bassi, cosa normale nell'arco di 366 giorni.

Voglio solo augurarvi un felice 2017. Vi raccomando di leggere molto, perché solo leggendo si nutre la coscienza critica e si è pronti a comprendere ed affrontare la vita reale, chi non legge è inerme contro il mondo.

Voglio poi ringraziare tutti quelli che hanno seguito il blog, che hanno letto i miei post o il mio romanzo, Il Prezzo della Vita. Spero che abbiate trovato nelle mie parole spunti di riflessioni interessanti e mi auguro di avervi regalato qualche momento di spensierata, ma non sterile, riflessione.

Vi ricordo che Il Prezzo della Vita può essere ordinato al link http://www.csaeditrice.it/index.php?keyword=Il%20Prezzo%20della%20Vita&x=2&y=5&limitstart=0&option=com_virtuemart&view=category&lang=it, in tutte le librerie ed anche quelle online.

Potete seguire la mia attività su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese" e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e tanti auguri.

Francesco Abate

venerdì 2 dicembre 2016

RECENSIONE DE LA LUNA E I FALO' DI CESARE PAVESE


Scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950, pochi mesi prima che il suo autore si togliesse la vita, La Luna e i falò è un romanzo di grandissima importanza storico-culturale. Scritto pochi anni dopo la fine della guerra, mostra il bisogno degli italiani di tornare alla normalità dopo gli sconvolgimenti e i drammi generati dal conflitto, evidenziando la vocazione contadina propria del nostro paese.
Un elemento ricorrente nel romanzo è quello del falò. Ne vediamo nelle pagine iniziali nella loro forma propiziatoria e festiva, poi con lo scorrere della vicenda vediamo il loro volto distruttivo con l'incendio della casa del Valino e l'incenerimento del corpo di Santa.

Protagonista del romanzo è Anguilla che, dopo aver vissuto per anni prima negli Stati Uniti e poi a Genova, dopo aver quindi girato il mondo, sente il bisogno di tornare nei luoghi in cui è cresciuto, le Langhe piemontesi. Attraverso gli occhi del protagonista e i suoi dialoghi con l'amico Nuto, veniamo a conoscenza di tutto ciò che è capitato non solo ad Anguilla, ma a tutti i personaggi che animarono i luoghi in cui visse in gioventù. Conosciamo e vediamo la vicenda di Valino attraverso l'esperienza diretta di Anguilla, allo stesso tempo vengono rievocate le storie di tante persone che conobbe in gioventù. 
In questo romanzo Pavese ci mostra il peso che le radici hanno nella vita di una persona. Tale tema si evidenzia nel confronto tra Anguilla e il suo vecchio amico Nuto. Uno è fuggito da quella vita ed ha girato il mondo, l'altro è un idealista che odia l'arretratezza culturale del luogo e la vive con disagio. Anguilla finisce per tornare nei luoghi da cui è fuggito, Nuto invece non li abbandona mai. Entrambi sentono, o hanno sentito, il bisogno di andare via senza riuscire a farlo.

Pavese con La Luna e i falò rievoca lo scorrere lento della vita in campagna. Il protagonista ritorna nelle Langhe, dove è cresciuto, e si confronta con un tipo di esistenza ormai lontana e dimenticata, molto diversa da quella americana e genovese. 
Sebbene Anguilla ricordi con nostalgia i suoi trascorsi contadini, la vita in campagna non è per niente idealizzata e viene mostrata in tutta la sua drammaticità. Attraverso l'esperienza del Valino, il cui epilogo è scoperto dal protagonista grazie a Cinto, il lettore può assistere al dramma della povertà, della mancanza di prospettive e delle violenze in famiglia. 
Arriva poi la guerra a scombussolare tutto, la vita cambia radicalmente, ma i drammi non cessano, cambiano solo forma. Questo lo vediamo in particolar modo attraverso il racconto finale di Nuto, che racconta il tragico epilogo della vita di Santa, la terza figlia di colui che fu il padrone del giovane Anguilla, il sor Matteo.

Non mancano nel romanzo i contenuti politici, anche se sono fortemente limitati. Anguilla non ha una vera e propria idea politica, Nuto invece è un comunista convinto. Un evento in cui poi è reso il clima politico degli anni '50 è il funerale dei due repubblichini ritrovati morti dopo anni dalla fine della guerra: a loro il prete riconosce funerali solenni, parlando contro i partigiani e contro i comunisti in generale. 

Particolare è lo stile narrativo adottato dall'autore. Il protagonista narra i fatti in prima persona e senza una continuità temporale, salta di continuo tra il presente e il passato ed ogni capitolo può essere quasi visto come una storia a sé. Così facendo, Pavese ci porta a vivere direttamente l'esperienza del viaggiatore che torna dopo decenni nella terra natìa, con lo sguardo che si posa ovunque e non vede soltanto ciò che è adesso, ma anche ciò che fu e ciò che vi avvenne. Anche il linguaggio usato per la narrazione è funzionale a tale scopo, sono usati prevalentemente termini propri della comunicazione verbale, senza però mai ricorrere al dialetto. Leggere La Luna e i falò è in pratica come sedersi in poltrona e parlare con un uomo tornato alle Langhe dopo tanto tempo.

Francesco Abate


venerdì 18 novembre 2016

IL PREZZO DELLA VITA: NOTE DELL'AUTORE (SULL'AUTORE)

Italo Calvino e Benedetto Croce avevano una cosa in comune: entrambi credevano che di un autore contassero le opere, non la biografia. Ovviamente io non oserei mai paragonarmi a due giganti della cultura italiana e mondiale, però su questa idea sono d'accordo. 
Avevo deciso, visto che su questo blog promuovo anche le mie opere, di parlare di me, del loro autore, e in virtù dell'idea citata sopra non vi riporterò la mia biografia (che oltretutto risulterebbe molto magra, vista l'assenza di eventi eclatanti nella mia giovane vita), bensì parlerò di quello che concerne il mio rapporto con la letteratura. La mia scelta è sottolineata anche dall'immagine che ho scelto per il post, che raffigura il mio libro (ciò che ho prodotto) e non la mia figura (e non vi perdete niente!).
Un estratto molto sintetico della mia biografia lo trovate sempre sotto i post in cui parlo del mio romanzo, ma in quel caso è una necessità dovuta al fatto che ci sono diversi miei colleghi che hanno il mio stesso nome e cognome, quindi devo in qualche modo provvedere a chiarire chi io sia.

Sono un uomo come tanti, e come tanti sono unico. La mia non è un'affermazione di superiorità, semplicemente io credo che ogni persona, a meno che non ceda all'omologazione che ci impone la società, sia unica e faccio di tutto per difendere la mia unicità. Non mi ritengo perfetto, ma mi piace essere quello che sono. Adoro usare l'arma che differenzia noi umani dagli altri animali, cioè la ragione, e amo condividere con la gente le mie idee. Sono una persona che ha opinioni su tutto, ma su tutto sono pieno di dubbi. 
Quello che sono mi ha da subito costretto ad intraprendere la strada dell'arte. La persona che ama pensare ed è piena di dubbi può sopravvivere in un solo modo, cioè ordinando le proprie idee e condividendole con quante più persone possibile. Io scrivo proprio per questo. La mia letteratura non è e non sarà mai di solo intrattenimento, mi piace l'idea che un mio romanzo possa far nascere delle riflessioni nel lettore e che questo possa formare in sé stesso una sua opinione sui temi trattati, non importa se uguale o diversa dalla mia. Ovviamente a muovermi non può essere solo il bisogno di condivisione, altrimenti avrei scritto saggi. Quando invento una storia, dei personaggi e dei luoghi, dei pensieri e dei sentimenti, io elaboro quello che ho dentro, razionale o irrazionale che sia, e lo impasto fino a dargli una forma esteriore e una vita propria. Scrivere per me è come mettere al mondo un figlio. Il padre col proprio seme dona parte del proprio corredo cromosomico per formare una nuova vita, simile ma diversa da lui, lo scrittore dona parte della propria interiorità per formare un romanzo (o un'opera in generale), che non sarà identica al creatore. Quando scrivo parto da un progetto, decido cosa voglio comunicare e in base al messaggio creo personaggi e trama, ma capita sempre che al momento della scrittura le parole comincino a fluire da sé, dando ad un personaggio un lampo di vita indipendente che nemmeno lo scrittore può controllare. Ovviamente io potrei cancellare quel lampo di vita in fase di correzione, ma sacrificherei la poesia alla razionalità, sarebbe come amputare un arto ad un figlio perché non rassomigliante a quello del padre. Tanto lo scrittore è sempre lo stesso, ciò che finirà su foglio non sarà mai incoerente con quello che era il progetto iniziale.
Alla passione per la scrittura si accompagna sempre anche quella per la lettura, chi ama spiegare sé stesso deve poi saper anche ascoltare gli altri, oltretutto non si può sperare di avere un'idea decente se prima non la si è confrontata con altre mille. Nel mio caso credo di poter dire che l'amore per la lettura ha portato a quello per la scrittura. Mia madre sin da piccolo mi ha incoraggiato a leggere ed ha sempre assecondato la mia passione sostituendo ben presto i libri ai giocattoli nei regali. Da bambino un po' serbai rancore per questo, oggi ritengo invece sia stata un'ottima scelta. Da piccolo ovviamente prediligevo i romanzi d'avventura, adoravo le vicende dei cavalieri della Tavola Rotonda, oggi invece leggo tante cose diverse, prediligendo quelle opere che possono arricchirmi dentro. Leggo molto i classici, ma amo anche la letteratura del Novecento, sto scoprendo lentamente che anche quella italiana dello scorso secolo è molto valida e mi sto innamorando di Calvino e Moravia. Non mancano nella mia libreria anche romanzi dei giorni nostri, anche se spesso rimango deluso da quel che leggo e molti romanzi li concludo chiedendomi a cosa sia servito buttare giù tutte quelle parole che (almeno per me) non portano a niente. Purtroppo anche l'editoria segue le regole del commercio, si scrive tanto e si predilige quello che vende, i contenuti spesso passano in secondo piano. Per fortuna comunque non è sempre così ed anche oggi vengono pubblicati romanzi molto validi.

Come ho scritto sopra, i miei romanzi nascono dal bisogno di comunicare. Con Il Prezzo della Vita ero intenzionato ad esporre la mia teoria sul valore eccessivo che hanno i soldi nella nostra vita, per farlo pensai di costruire una storia in cui i soldi rovinassero ogni cosa. Come sempre accade però, nel romanzo è finito anche altro. Scrivendo della vita di Antonio Mestieri, ho illustrato come dal male nasca altro male, come un uomo cattivo riesca ad "infettare" altre vite, talvolta anche suo malgrado. Ovviamente poi, sempre attraverso il protagonista, mostro anche come non esista il "totalmente cattivo", nel senso che anche un essere spregevole può avere nel cuore qualche buon sentimento. Nella filmografia e nella letteratura moderna siamo troppo spesso abituati a trovare cattivi assoluti o buoni assoluti, in realtà la vita ci insegna ogni giorno che non è così. Anche l'uomo migliore può essere capace di commettere azioni spregevoli, così come anche quello peggiore può talvolta mostrare macchie di bontà. Io in generale non amo i personaggi monocolore, tutte le persone reali (fatto eccezione per quelle banali e prive di unicità) sono un mosaico fatto delle tessere più diverse, quindi costruire un personaggio assolutamente buono o assolutamente cattivo è una banalizzazione che amo evitare.

Una volta parlato di quel che ho fatto, mi tocca parlare di quel che farò. Progetti ne ho tanti e non vi ammorberò elencandoli, semplicemente scriverò tanto e tante cose diverse, perché le idee sono come le persone, non sono mai completamente uguali. Scriverò su tanti temi, inoltre mi piacerebbe anche cimentarmi in altri tipi di scrittura, come sceneggiature e canzoni. Di poesie ne scrivo già, anche se non sono mai stato pubblicato. Quel che è certo è che mi divertirò tantissimo, e fin quando mi divertirò non mi fermerò mai. Spero che anche voi vi divertirete a leggermi.

Vi ricordo che Il Prezzo della Vita può essere ordinato sul sito www.csaeditrice.it, in tutte le librerie ed anche in quelle online.

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Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Sin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con Matrimonio e Piacere. Autore anche di poesie. Il Prezzo della Vita è la sua prima pubblicazione per la CSA Editrice.

   



domenica 6 novembre 2016

ENZO BIAGI, STORIA DI GIORNALISMO E LIBERTA'

Considerato uno dei giornalisti più importanti del XX secolo, la vita di Enzo Biagi è la storia di un uomo che ha sempre fatto il suo lavoro con grande professionalità, senza mai svendersi ai potenti anche a costo di gravi perdite. Di fatto si può considerare la vita di Biagi come un esempio di integrità ed onestà intellettuale.

Nato a Pianaccio di Lizzano in Belvedere il 9 agosto 1920, Biagi manifestò subito una grande passione per la scrittura e il giornalismo. Appena maggiorenne iniziò a lavorare ne Il Resto del Carlino e a 21 anni, età minima per essere iscritti all'albo dei giornalisti, divenne professionista. Nel corso degli anni lavorò per numerose testate giornalistiche come corrispondente, editorialista ed anche direttore. Nel 1943, dopo l'armistizio, varcò il confine per non essere arruolato tra i repubblichini di Salò e divenne partigiano. 
Fu anche autore di libri, ha venduto 12 milioni di copie in tutto il mondo.
Nel 1961 avvenne il suo ingresso in RAI, da quel momento iniziò ad ideare e condurre numerose e fortunate rubriche giornalistiche, impegnandosi in dossier su argomenti delicati come la mafia e in interviste con personaggi di grande spessore come Gorbaciov e Gheddafi, quest'ultimo intervistato all'indomani della strage di Ustica. Nel 1995 iniziò la conduzione de Il Fatto, una rubrica di 5 minuti in onda subito dopo il TG, in cui Biagi analizzava personaggi ed eventi dell'Italia di quel periodo. Dovette abbandonare la trasmissione e risolvere il contratto in RAI nel 2002, a seguito del famoso editto bulgaro di Berlusconi. Tornò in tv nell'aprile 2007 con la rubrica RT - Rotocalco Televisivo, di cui realizzò sette puntate. La rubrica sarebbe dovuta tornare in onda nell'autunno successivo, ma il peggioramento delle condizioni di salute di Biagi lo impedirono. Enzo Biagi morì a Milano il 6 novembre 2007 a causa delle complicazioni dovute ad un edema polmonare acuto.

Come già detto, la biografia di Enzo Biagi è tutt'oggi un esempio di libertà ed onestà intellettuale. Oggi tutti conosciamo le vicende relative all'editto bulgaro, ma già nel 1982 il giornalista lasciò il Corriere della Sera perché dalle inchieste della magistratura stava emergendo come la testata fosse sotto il controllo della P2. In seguito lo stesso Biagi rivelò che Licio Gelli aveva chiesto all'allora direttore del quotidiano, Franco Di Bella, di rimuoverlo o spedirlo in Argentina. Biagi, non appena emersero le prime verità riguardo la P2, lasciò il Corriere e divenne editorialista de la Repubblica. Tornò al Corriere della Sera solo sei anni dopo.

La vicenda personale di Biagi toccò il massimo della drammaticità con l'editto bulgaro. Il 18 aprile 2002, nel corso di una visita a Sofia, l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi auspicò che la il nuovo Consiglio di Amministrazione RAI, che si stava eleggendo in quei giorni, evitasse un uso criminoso del servizio pubblico contro di lui. L'ordine era stato lanciato sin troppo chiaramente, era noto che Berlusconi non avesse gradito le conduzioni di Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi. A far cadere le ire dei berlusconiani su Biagi furono due interviste, fatte prima delle elezioni, fatte a Roberto Benigni ed Indro Montanelli. Il primo commentò a modo suo il Contratto con gli italiani che Berlusconi aveva firmato nello studio di Porta a Porta, il secondo invece definì il centrodestra un virus e disse chiaramente che con Berlusconi l'Italia avrebbe avuto una "dittatura morbida". 
Le due interviste prima e le parole di Berlusconi poi scatenarono una pioggia di attacchi professionali e personali contro Biagi, che la sera stessa dell'editto rispose così a Il Fatto: << Il presidente del Consiglio non trova niente di meglio che segnalare tre biechi individui: Santoro, Luttazzi e il sottoscritto. [...] Poi il presidente Berlusconi, siccome non intravede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione, lascerebbe intendere che dovrebbero togliere il disturbo. Signor presidente, dia disposizioni di procedere perché alla mia età il senso di rispetto che ho verso me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri. [...] Sono ancora convinto che perfino in questa azienda (che come giustamente ricorda è di tutti, e quindi vorrà sentire tutte le opinioni) ci sia ancora spazio per la libertà di stampa; sta scritto - dia un'occhiata - nella Costituzione. Lavoro qui in RAI dal 1961 ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto [...]. Cari telespettatori, questa potrebbe essere l'ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare a prezzo di certi patteggiamenti >>.
L'editto bulgaro portò, come Biagi aveva previsto, alla fine de Il Fatto. Il nuovo CdA RAI prima cambiò fascia oraria al programma, poi lo spostò su Rai3, infine lo cancellò. Sentendosi preso in giro, Enzo Biagi risolse il contratto con la RAI.
La grandezza di Biagi in occasione dell'editto bulgaro fu il preferire essere tagliato fuori da un'azienda per cui aveva lavorato più di trent'anni e che amava. Qualche anno prima, infatti, Biagi rifiutò la chiamata proprio di Berlusconi che lo voleva in Fininvest. Il giornalista rifiutò sia per amore della RAI, che anni dopo lo avrebbe tradito per accontentare il potente di turno, sia temendo di subire limitazioni nella tv berlusconiana.

Un personaggio indipendente non piace mai a tutti, Enzo Biagi non fece eccezione. L'allora presidente del Consiglio Craxi lo definì "moralista tanto al chilo", Berlusconi lo censurò con l'editto bulgaro, la sinistra lo definiva buonista e Giorgio Bocca lo accusava di speculare sulle tragedie. Particolarmente duro con Biagi fu, all'epoca dell'editto bulgaro, Giuliano Ferrara che lo invitò a sputarsi in faccia. 
La storia ci insegna però che tali critiche furono ingiustificate. Craxi all'epoca dei governi socialisti definiva "moralista tanto al chilo" chiunque parlasse di corruzione contro il PSI, Tangentopoli ci ha però spiegato che i moralisti avevano ragione e che lui era un corrotto.
La stessa vicenda dell'editto bulgaro ci insegna come Biagi avesse fatto bene il suo lavoro e come la sua integrità lo avesse fatto uscire vincitore dallo scontro. Nell'intervista a Montanelli infatti l'ospite disse che con Berlusconi ci sarebbe stata una dittatura morbida, lo stesso editto bulgaro diede ragione a Montanelli e la storia ci insegna come sia stato effettivamente così anzi, come da allora in Italia si siano succedute solo dittature morbide, perché il berlusconismo ha creato una politica nuova dove il cittadino è tifoso e non giudice. Biagi informò correttamente, in più mantenne la propria integrità preferendo continuare per la sua strada, alla fine riuscì anche a tornare in tv e solo la morte ha fermato definitivamente il suo lavoro.
La figura di Biagi è però una di quelle che non smettono mai di avere un effetto nel mondo, il segno che ha lasciato è indelebile. Se oggi possiamo ancora leggere i suoi libri, i suoi articoli, o vedere le sue interviste, e conoscere meglio la storia, leggendo la sua biografia possiamo imparare che si può essere quello che si ama senza chinare il capo davanti a nessuno.

Francesco Abate



mercoledì 2 novembre 2016

RECENSIONE DE "IL ROSSO E IL NERO" DI STENDHAL


Il Rosso e il Nero è il romanzo più importante di Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Bayle, uno degli scrittori francesi più importanti dell'Ottocento.
L'opera è allo stesso tempo una descrizione molto accurata della società francese della Restaurazione, mostrata in tutta la sua decadenza morale, ed un'analisi dell'animo umano tanto accurata da spingere il filosofo Nietzsche a definire Stendhal l'ultimo dei grandi psicologi francesi.

Classificabile come romanzo di formazione, Il Rosso e il Nero narra le vicende del giovane Julien Sorel, attraverso i cui occhi il lettore può vedere prima le brutture della borghesia di provincia e poi le falsità della nobiltà parigina.
La vicenda prende spunto da un fatto realmente accaduto, pubblicato sulla Gazette des Tribunaux tra il 28 e il 31 dicembre 1827. Antoine Berthet, ex seminarista figlio di un artigiano, assunto come precettore in una famiglia di ricchi borghesi, sparò alla padrona durante una funzione religiosa. Berthet era divenuto amante della donna. Per il suo crimine fu condannato a morte e ghigliottinato nella piazza di Grenoble il 23 febbraio 1828.
La storia di Berthet è lo scheletro attorno cui Stendhal costruisce il personaggio e le vicende di Julien Sorel, solo che l'autore ci mette molto del suo. Stendhal definì il protagonista dell'opera << un infelice in guerra contro l'intera società >> ed in effetti Julien questo è. Figlio di un artigiano, è di bassa estrazione sociale, ma vive leggendo il Memoriale di Sant'Elena e sognando un'ascesa sfolgorante come quella del suo idolo Napoleone Bonaparte, sognando quell'epoca passata in cui un signor nessuno in breve tempo poteva far carriera. Grazie alla sua cultura, Julien viene assunto come precettore nella casa dei de Renal, una famiglia di ricchi borghesi di provincia. Già nel passaggio dai sogni di gloria all'incarico di precettore, avviene in Julien il passaggio dal rosso al nero, cioè capisce di non poter ambire alla carriera militare (il rosso) che tanto sognava e che l'unico modo per salire nella scala sociale in quei tempi era attraverso la religione (il nero). In breve tempo Julien diventa amante di Madame de Renal e deve fuggire da quella causa per sfuggire alle prevedibili vendette del marito. Dopo un periodo in seminario, approda a Parigi come segretario del marchese de la Mole, così entra in contatto con l'aristocrazia parigina. Dopo essersi discretamente integrato, finisce per innamorarsi e sedurre l'altezzosa figlia del marchese, Mathilde. Julien deve lottare non poco per conquistarsi definitivamente l'amore della giovane nobildonna, quando finalmente l'ha conquistata però lei scopre di essere incinta. Lo scandalo che suscita la notizia costringe Julien ad una nuova fuga. Inizialmente il marchese de la Mole sembra intenzionato ad acconsentire alle nozze del giovane con sua figlia, spinto proprio dalle pressioni di quest'ultima, ma una lettera di Madame de Renal gli fa cambiare idea. La lettera spinge Julien a sparare contro la sua ex amante, fortunatamente non la uccide ma, in seguito al processo, viene condannato a morte e decapitato.

Pur non parlando mai apertamente di politica, Il Rosso e il Nero può essere definito un romanzo politico. Narrando le vicende, Stendhal ci mostra la Francia della Restaurazione come una palude fatta di intrighi, raccomandazioni e corruzione. Gli uomini di Chiesa non esitano a muoversi nell'ombra per guadagnarsi un posto da vescovo, la borghesia di provincia svende la propria dignità pur di acquisire posti di prim'ordine nell'amministrazione statale, i nobili combinano perfino i matrimoni pur di acquisire o mantenere i propri privilegi. Tutto è intrappolato nelle convenzioni, non si parla mai francamente e chiunque compie un'azione lo fa sempre con un secondo fine, mirando a conquistarsi un'amicizia o a screditare qualcuno, tutto per guadagnare posizioni di rilievo in società. Stendhal ci mostra una società corrotta e doppiogiochista, dove è impossibile emergere se non sottomettendosi a squallidi giochi di potere.

I personaggi del romanzo sono tantissimi. Alcuni in sé stessi hanno poco valore, servono semplicemente a rappresentare una categoria sociale, come sono i vari M. de Renal e M. Valenod, o il marchese de la Mole. I primi sono borghesi di provincia, tutti presi ad ostentare il loro potere e le loro ricchezze, sempre proiettati al mantenimento dei loro incarichi pubblici od all'ottenimento di incarichi ancora più importanti. Il marchese invece rappresenta l'aristocrazia parigina, un uomo tutto preso al rispetto delle etichette ed alla gestione economica dei suoi affari, nonché partecipante attivo della vita politica francese. Anche i religiosi servono a rappresentare la categoria e possono essere divisi in due categorie: quelli più attenti alla spiritualità, ma comunque pronti a sottomettersi alle convenzioni sociali; quelli totalmente proiettati sulla carriera, ambiziosi e intriganti politici che usano la tonaca per acquisire ruoli di prim'ordine in società.
I personaggi chiave del romanzo a mio parere sono tre: Julien, Madame de Renal e Mathilde de la Mole.
Julien Sorel cresce nel mito dell'ascesa fulminea di Napoleone e conduce la sua intera esistenza cercando di emularlo. Di bassa estrazione sociale, ogni sua azione è finalizzata all'acquisizione di vantaggi. Anche le sue due passioni amorose, almeno in origine, sono vissute e condotte con freddo cinismo. I suoi corteggiamenti sono un'insieme di azioni pianificate e frasi da opere antiche, per lui conquistare il cuore della donna è come conquistare il campo nemico ed ottenere una vittoria. Visto il suo atteggiamento, i suoi corteggiamenti sono grotteschi e faticano ad avere successo, solo quando finisce per farsi prendere davvero dalla passione e dimentica le sue tattiche, riesce ad avere successo. La sua anima è nobile e fiera, è in continuo contrasto con l'ordine costituito (seppur egli intenda servirsene), per questo ogni volta che si trova in un ambiente nuovo appare fuori luogo. Proprio questa sua diversità però finisce per conquistare il cuore delle due donne, egli è un'alternativa agli uomini del suo tempo. Il suo temperamento però gli è spesso dannoso, egli infatti vede tutto ciò che gli succede intorno, ma ha sempre interpretazioni alterate dai suoi stati d'animo e i suoi pregiudizi, finendo spesso per fraintendere quello che davvero sta succedendo. Nel processo finale è proprio questa sua mancanza di intuizione che probabilmente gli costa la condanna a morte. Solo nei momenti finali della sua esistenza, quando sa che la sua scalata sociale non potrà proseguire, si gode davvero l'amore che prova e capisce quale dei due per lui è quello vero.
Madame de Renal fu sposata a soli 16 anni. A causa di questo matrimonio giovane e del carattere mite, non ha mai conosciuto la vera passione amorosa. Julien sconvolge la sua vita facendola innamorare davvero. Essendo inesperta nelle questioni amorose, ha una visione del suo peccato d'adulterio e delle sue conseguenze molto tragica, arrivando prima a temere che il marito uccidesse l'amante e le facesse mangiare il suo cuore, poi che la malattia di uno dei figli fosse una punizione divina. Nonostante i timori dovuti alla sua ingenuità, ama Julien talmente tanto che finisce per rompere apertamente tutte le convenzioni sociali, facendo praticamente in modo che il loro amore fosse evidente a tutti.
Mathilde de la Mole, la figlia del marchese, vive un amore meno puro di Madame de Renal. Tra le due donne è possibile una contrapposizione, la signora rappresenta la nobiltà d'animo mentre la giovane nobildonna la nobiltà d'origine. Mathilde disprezza gli uomini della sua epoca, ritenendoli noiosi ed incapaci di grandi passioni, e vive nel ricordo di un suo avo che per amore di una donna sposata era stato decapitato molti anni prima. Si innamora di Julien proprio perché lo vede fuori dal comune, lo riconosce come capace di grandi azioni e grandi passioni, per lui accetta tutto ed anzi, più sono duri i sacrifici che deve sopportare e più lo ama. Lo ama perché non è un nobile in cerca di un buon partito, ma un uomo pieno di passione. La giovane nobildonna è però molto capricciosa, cede all'amore di Julien solo quando questo finge di non tenerla più in considerazione, finché lo crede perdutamente innamorato invece lo disprezza, trovandolo banale come tutti.

Il Rosso e il Nero è un romanzo la cui fama ha attraversato i secoli. La ragione di tanta fortuna è di sicuro la ricchezza di contenuti, come detto è un concentrato di politica e psicologia. Non va però trascurato il grande merito che ha avuto Stendhal di rendere una storia così complessa e pregna di contenuti tanto scorrevole, l'autore usa infatti un linguaggio molto essenziale, non si prolunga più di tanto in descrizioni di particolari superflui, ed anche l'intreccio è molto essenziale. Il romanzo perciò si legge in modo molto scorrevole, si tratta di certo di una lettura molto piacevole.

Francesco Abate 
  

martedì 1 novembre 2016

SCHERZA COI FANTI, MA NON SCHERZARE CON I SANTI

I santi sono di certo un elemento caratteristico della religione cattolica. Tanti sono i culti nel mondo, ma non sono molti quelli che prevedono l'adorazione di persone giudicate sante dal capo religioso della comunità, nel caso dei cattolici a scegliere è il papa.

Chiunque conosca un po' la storia, sa benissimo che i personaggi saliti nel corso dei secoli al soglio pontificio sono spesso stati discutibili, qualcuno aveva i figli, altri scomunicavano per perseguire fini politici, altri ancora vendevano indulgenze. Alla luce di questa considerazione, è fuori discussione che il papa sia tutt'altro che infallibile, quindi viene da chiedersi come egli possa decidere della santificazione di un personaggio.

Alla luce della riflessione fatta sopra, quella che propongo ora è una valutazione storica dei santi più controversi della chiesa cattolica, privilegiando ovviamente i più famosi e i più moderni.

La prima figura controversa oggi venerata come santa è quella di Giovanna D'Arco. La famosa pulzella d'Orleans sosteneva di sentire la voce di Dio e che questa l'avesse inviata ai francesi come sua messaggera. A consegnarla definitivamente alla storia fu l'effetto dirompente che ebbe la sua comparsa nella guerra dei Cent'anni, infatti l'esercito francese era stanco ed aveva collezionato numerose sconfitte, ma dopo la comparsa di Giovanna D'Arco arrivarono vittorie importanti ed insperate che capovolsero le sorti del conflitto.
Giovanna D'Arco fu bruciata dal Santo Uffizio a seguito di un processo condotto in modo discutibile e di un inganno. Il giudizio dell'Uffizio sancì solo il carcere, perché Giovanna abiurò e la condanna arrivò solo perché aveva indossato abiti maschili. I carcerieri però la privarono dei vestiti femminili e le lasciarono solo i maschili così lei, rivestendosi da uomo, compì di nuovo il peccato per cui era stata condannata, e per questo le toccò il rogo.
Al di là dei motivi politici che portarono alla sua condanna, restano grossi dubbi sulla santità attribuita alla pulzella. Lei rappresenta la speranza, i francesi la venerano da secoli per la sua opera, ma fondamentalmente lei combatté per la Francia in una guerra dinastica, uccise e fece uccidere (la guerra è guerra), la sua santificazione tiene conto solo del fatto che disse di farlo in nome di Dio. Alla luce di questa valutazione, che dovrebbe essere ovvia, si potrebbe definire la santificazione di Giovanna D'Arco come la promozione della guerra di religione, cioè della guerra fatta in nome di Dio.
La santificazione di Giovanna D'Arco arrivò nel 1920 e fu opera di Benedetto XV, probabilmente influì anche l'importanza avuta dalla Francia (di cui Giovanna D'Arco era già simbolo) nella Prima Guerra Mondiale.

Altra figura molto controversa, ma di nomina molto più recente, è quella di San Pio da Pietrelcina.
Padre Pio fu già molto venerato in vita. La sua fama si estese in tutta Italia grazie al suo carisma ed alle stimmate. E' però storia nota che il Vaticano ebbe un atteggiamento molto ostile nei confronti del frate. 
Papa Benedetto XV fu molto scettico nei confronti di Padre Pio e autorizzò subito indagini sulle sue famose stimmate. Già nel 1919 furono raccolte alcune testimonianze che gettano grossi dubbi sulla natura divina delle stimmate, infatti un farmacista dichiarò di aver venduto acido fenico ad una persona che dichiarò di acquistarlo per contro del frate, inoltre nello stesso anno il giornalista de Il Mattino Enrico Morrico sostenne di aver visto una boccetta di acido fenico commerciale nella cella del frate. Il farmacista nella sua testimonianza dichiarò che l'acido fenico può causare ferite compatibili alle stimmate presentate da Padre Pio. E' noto che il frate fosse poco propenso a farsi analizzare le mani, dovette cedere solo in tre occasioni ad altrettanti medici mandati dal Santo Uffizio. Nel 1920 padre Agostino Gemelli, medico mandato dal Santo Uffizio ad analizzare le stimmate di Padre Pio, scrisse un giudizio impietoso. Secondo padre Gemelli le ferite erano un bluff, il frate se le era procurate da sé e aggiunse che Padre Pio possedeva le caratteristiche somatiche dell'isterico e dello psicopatico, concluse insomma che il frate fosse uno psicopatico che si procurava le ferite. 
Anche papa Giovanni XXIII fu poco tenero con il frate. Il pontefice venne a conoscenza del fatto che il frate ed il suo ordine fossero in possesso di auto e grosse somme di denaro, inoltre donne si intrattenevano regolarmente nel convento. Giovanni XXIII, oggi santo, in un documento scritto definì la situazione un "disastro di anime". Padre Pio e i suoi confratelli intanto guadagnavano grosse somme con la vendita delle pezzuole che avevano coperto, per ordine del Santo Uffizio, le sue stimmate (e si scoprì erano sporche di sangue di gallina). 
La svolta per Padre Pio arrivò con Paolo VI, il quale assunse un atteggiamento molto più favorevole sia al frate che all'ordine. Proprio sotto il pontificato di Paolo VI il Vaticano ottenne di essere nominato nel testamento del frate erede universale dei beni economici accumulati dall'ordine, ciò fornirebbe una giustificazione poco mistica e più concreta al cambio di atteggiamento del Vaticano.
La santificazione di Padre Pio è stata poi opera di Giovanni Paolo II, da sempre affascinato dalla figura del frate a tal punto da non farsi condizionare nella sua scelta dai lati oscuri della storia del frate.

Parlando di papa Giovanni Paolo II, non posso esimermi dall'inserire anche lui nell'elenco di questi santi "discutibili".
Il pontefice, che sicuramente deve la sua santità al peso della sua figura nei paesi comunisti, è ancora oggi considerato una figura chiave nella fine della Guerra Fredda.
L'opera politica di Giovanni Paolo II, che la si condivida o no, è indiscutibile. I dubbi sulla sua santità arrivano dalla gestione dello scandalo pedofilia. Tante denunce arrivarono negli anni '90 in Vaticano, ma il pontefice non intervenne mai con la dovuta fermezza nemmeno quando fu evidente che la Chiesa pensava solo ad insabbiare.
Diversi anni fa vennero poi fuori documenti che dimostravano come la Santa Sede, sin dal 1948, fosse a conoscenza di denunce a carico di Marcial Marcel Degollado, sacerdote messicano fondatore dei Legionari di Cristo. Tali denunce tornarono ad arrivare alla Santa Sede negli anni '90, quando il sacerdote fu accusato di violenze sessuali nei confronti di seminaristi minorenni. Giovanni Paolo II e Ratzinger, che all'epoca era cardinale, decisero di non agire. Un'inchiesta sul conto di Degollado partì solo nel 2005, poco prima che Ratzinger venisse eletto papa.
Oggi i difensori di Giovanni Paolo II giustificano i suoi silenzi sul caso dei preti pedofili scaricando la colpa sui suoi collaboratori, che a loro dire lo tradirono, ma considerando anche il polverone mediatico che si scatenò, riesce difficile credere che il pontefice fosse all'oscuro di tutto.

L'ultima santa dai lati oscuri, quella entrata più di recente nell'Olimpo della santità, è madre Teresa di Calcutta.
Vincitrice del Nobel per la Pace nel 1979, madre Teresa è stata fondatrice di numerose case di cura per poveri ed ha operato specialmente in India.
Cattolica fervente, madre Teresa lodava apertamente la sofferenza, dichiarò che "c'è qualcosa di bello nel vedere i poveri ad accettare il loro destino, vederli soffrire la passione di Cristo. Penso che il mondo tragga molto giovamento dalla sofferenza della povera gente". Queste parole della suora furono le sue linee d'azione, infatti già molti anni fa riviste mediche come The Lancet e British Medical Journal scrissero che le case di cura altro non erano che ospizi pieni di moribondi, dove non c'erano antidolorifici e venivano garantite cure molto dozzinali, mancava l'igiene e anche il cibo era scarso. 
Le condizioni delle case di cura gestite dalla fondazione di madre Teresa erano evidentemente legate alle convinzioni della suora, ma creano ancora oggi un dubbio: i tanti soldi ricevuti in donazioni dall'ordine che fine hanno fatto? Nessuno sa di preciso quanti soldi l'ordine abbia ricevuto, c'è solo una testimonianza di molti anni fa che parlava di 50 milioni di dollari su un solo conto, ma di certo avrebbero dovuto garantire case di cura molto meglio gestite.
Oltre alle cattive condizioni delle case di cura ed agli interrogativi sulla gestione dei soldi, madre Teresa è stata più volte criticata per le sue amicizie. E' storia nota che non si fece problemi ad accettare la legione d'onore conferitale da Duvalier, dittatore di Haiti. 
In occasione dell'assegnazione del Nobel, nel suo discorso madre Teresa mostrò anche convinzioni religiose piuttosto anacronistiche definendo l'AIDS la "giusta punizione per una condotta sessuale impropria".

Voglio concludere questo post con una precisazione. Questo post non nasce con intenti anti-clericali e non voglio ergermi io a giudice delle persone di cui ho raccontato sopra. Questo post riporta solo dei fatti storici, il mio intento è solo quello di informare. L'unica critica che mi permetto di muovere a chi ha proclamato questi santi è che avrebbero dovuto prima fare pienamente luce su questi lati oscuri, poi eventualmente procedere alla canonizzazione. Purtroppo la frettolosità di alcuni processi di canonizzazione, alcuni dei quali hanno saltato i tempi e le modalità previste dal diritto canonico, non fanno altro che alimentare i legittimi sospetti.

Francesco Abate
  

mercoledì 26 ottobre 2016

L'EQUIVOCO SULL'ATEISMO DI SPINOZA

Nato ad Amesterdam nel 1632, originario però del Portogallo, Baruch d'Espinoza fu uno dei filosofi più importanti del Seicento.
Intorno alla sua figura ancora oggi esiste però un equivoco, molti infatti (in special modo nel mondo dei semplici appassionati di filosofia) ritengono erroneamente che Spinoza fosse ateo. In realtà egli credeva nell'esistenza di Dio, si allontanò però dalle religioni ufficiali finendo anche scomunicato dalla Sinagoga.

L'origine del conflitto tra le religioni e Spinoza, prima ancora che nel suo pensiero, si trova a mio parere nella sua biografia. Il filosofo nacque da una famiglia di marrani, cioè di Ebrei obbligati a convertirsi al Cristianesimo. La conversione della sua famiglia fu però solo di facciata, essi emigrarono in Olanda, dove poterono liberamente professare la religione ebraica. Col passare degli anni, poi, si delineò in Spinoza il suo pensiero e per causa di questo il filosofo fu scomunicato dalla Sinagoga. Essere scomunicato dalla Sinagoga lo portò all'isolamento e gli creò grossi problemi sul piano sociale, egli entrò così in contatto stretto con i Cristiani, ma mai aderì al loro credo.
La mancata adesione del filosofo alle religioni oggi porta molti a considerarlo erroneamente ateo, in realtà egli nel suo pensiero filosofico parla ampiamente di Dio, mentre rivaluta le religioni dando loro una funzione più utilitaristica che sacra.

In merito a Dio, Spinoza affermava: <<Per Dio intendo un ente assolutamente infinito, ossia una sostanza consistente in un'infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna e infinita>>. Spinoza nella sua filosofia riprende il concetto aristotelico secondo cui tutto ciò che è o è sostanza o affezione di essa. La filosofia antica però prevedeva molteplici sostanze, per Spinoza invece ne esiste solo una, originaria e autofondata (causa sui) che è Dio. 

Parlando della religione, invece, bisogna innanzitutto premettere che Spinoza descrisse tre gradi della conoscenza:
1) conoscenza empirica, ovvero relativa ad opinione ed immaginazione;
2) conoscenza razionale;
3) conoscenza intuitiva.
Per il filosofo, la religione appartiene solo al primo grado della conoscenza, mentre la filosofia invece al secondo e al terzo. A dimostrazione di ciò egli evidenziò come i Profeti e gli autori biblici spiccassero per immaginazione e fantasia, non per vigore dell'intelletto.
La religione mira solo all'obbedienza, infatti viene usata dai tiranni per perseguire i propri scopi, solo la filosofia mira alla verità assoluta.
Per Spinoza la religione non ha "dogmi veri", ma "dogmi pii", che inducono all'obbedienza. I dogmi religiosi non vincolano ad alcuna setta, c'è assoluta libertà di fede, ciò che conta è solo l'obbedienza a Dio intesa come amore verso il prossimo. La bontà e la cattiveria di un dogma si misurano quindi solo in funzione dell'obbedienza a Dio che esso impone.
Per Spinoza, detto in parole povere, non contava essere Ebreo o Cristiano, non importava il culto e le cerimonie religiose, contava solo l'obbedienza a Dio intesa come amore verso il prossimo.

Francesco Abate

martedì 18 ottobre 2016

LETTERATURA E CINEMA: L'EVOLUZIONE DELLA FIGURA DEL VAMPIRO

La figura del vampiro ha origini molto antiche che si fondono tra la religione e la superstizione. 
Nel corso dei secoli questo mostro ingordo di sangue umano ha incontrato grande fortuna e diffusione prima grazie al romanzo di Bram Stoker, poi grazie ai tantissimi film che ha ispirato, di cui il più famoso è ancora quello di Francis Ford Coppola del 1992. Ancora oggi non mancano romanzi e pellicole ispirate dal tema del vampirismo, come la fortunata trilogia di Twilight.  

Come detto, la superstizione ha un peso importante nella creazione del mito del vampiro.
Nel Medioevo non mancavano superstizioni secondo le quali si potesse conservare la giovinezza bevendo sangue umano. Spinta da tale folle convinzione agì la contessa ungherese Erzsébet Bàthory, la serial killer più famosa d'Europa, che nel XVI secolo torturò e uccise centinaia di ragazze solo per poter bere il loro sangue e farcisi dentro il bagno, convinta di conservare così la propria giovinezza.
Secondo gli studiosi forse fu il concetto di remissione dei peccati ottenuta bevendo il sangue di Cristo a favorire la nascita dei miti riguardo l'eterna giovinezza ottenuta bevendo sangue. Secondo la Chiesa, bevendo il sangue di Gesù si rigenera l'anima, probabilmente questa associazione tra sangue e rigenerazione fu trasferita al corpo. Non è però da escludere che semplice follia ed ignoranza abbiano generato tali folli teorie, come ancora oggi succede.

La figura del vampiro come anima maledetta che si nutre di sangue è comunque presente da secoli nel folklore rumeno.
Nell'antichità la chiesa ortodossa orientale riteneva che i morti in regime di scomunica o sotto maledizione diventassero morti viventi e che si nutrissero di carne e sangue umani. Il maledetto avrebbe trovato pace solo con l'assoluzione di un sacerdote.
Altre leggende rumene narravano che i bambini morti senza battesimo, i figli illegittimi, le streghe e i settimi figli di settimi figli, diventassero vampiri e assumessero sembianze di lupi o pipistrelli.

Il vampiro più famoso della letteratura è certamente quello di Bram Stoker. In realtà però il primo europeo che scrisse un racconto basato sulla figura del vampiro fu il medico John Polidori, intimo amico di lord Byron, che lo pubblicò nel 1819 sul New Monthly Magazine.
Il vampiro di Polidori si chiamava Lord Ruthven. Si trattava di un personaggio che fisicamente richiamava la bellezza un po' femminea di Byron. 

Il romanzo più grande sul vampiro, il primo in cui compare il conte Dracula, è quello di Bram Stoker.
Scritto nel 1897, fu di certo l'opera di maggior successo dello scrittore irlandese. 
La figura del Conte Dracula creata da Stoker probabilmente è ispirata a Vlad III l'Impalatore, un nobile signore di Valacchia che governò la regione tra il 1448 e il 1476 e si distinse per crudeltà. Vlad III era solito far impalare i suoi nemici, famosa è una stampa del XV secolo in cui lo si vede banchettare circondato da numerose persone impalate.
Il Dracula di Stoker ha caratteri più animaleschi che umani, ha denti aguzzi e peli sui palmi delle mani, come se fosse un lupo.
Nel Dracula di Stoker molti critici hanno colto anche un carattere sessuale. Forte è nel personaggio l'oralità, egli usa la bocca per soggiogare le sue vittime. Nel suo atto di vampirismo c'è un atto di sessualità deviata, non c'è l'uso di genitali, egli però seduce le sue vittime con la bocca, poi non è lui a donare i suoi fluidi, ma ruba quelli della vittima.

Se la figura del vampiro ha goduto di grande fortuna letteraria, lo stesso si può dire in campo cinematografico.
Già nel 1896 comparve nella pellicola Le manoir du Diable un enorme pipistrello che si trasforma in Mefistofele, poi sconfitto da un cavaliere che gli mostra un crocifisso.
La prima stagione d'oro del vampiro al cinema arrivò negli anni Trenta grazie all'attore ungherese Bela Lugosi. L'attore si identificò tanto con la figura di Dracula che arrivò a ritenersi una sua incarnazione e si fece costruire un letto a forma di bara.
La prima variazione importante della figura del vampiro arrivò con Christopher Lee, un attore che diede a Dracula un carattere tenebroso, ma un aspetto bello e un discreto fascino.
Negli anni '70 arrivò poi la svolta definitiva. Il vampiro smise di essere solo un malvagio, divenne un dannato che soffre la propria condizione, capace anche di sentimenti buoni. Il vampiro divenne così un cattivo che può suscitare pietà e simpatia. Il momento più alto di questo filone arrivò proprio con l'opera di Coppola.

Ancora oggi si continuano a scrivere romanzi e fare film sui vampiri. Oggi spesso le creature che un tempo furono demoniache sono presentate come buone, si innamorano e combattono contro i lupi mannari (nel romanzo di Stoker il vampiro comandava i lupi, invece). A mio parere si tratta di opere corrotte dal romanticismo a tutti i costi, dal valore estetico e culturale molto dubbio. Si tratta però solo del mio parere.

Francesco Abate


martedì 11 ottobre 2016

RECENSIONE DEL ROMANZO "IL PREZZO DELLA VITA"

Quella che segue è una recensione del romanzo Il prezzo della vita fatta dall'autore, quindi sarò io stesso a raccontarvi cosa è il mio romanzo e perché a mio parere valga la pena leggerlo.

Nonostante io l'abbia pubblicato meno di un anno fa con la CSA Editrice, scrissi Il prezzo della vita tra il 2010 e il 2011. 
Come tutto ciò che scrivo, il romanzo è fortemente permeato dalle mie esperienze personali. Lo sviluppai per veicolare i vari messaggi che esso contiene, figli delle vicende della mia vita e delle mie riflessioni, e l'intera trama così come i personaggi servono solo per dare una forma alle idee che volevo esprimere.

Come dichiarato sin dalla prefazione, il tema centrale del romanzo sono i soldi. Essi ormai hanno un peso eccessivo nell'esistenza degli uomini, spesso cessano di essere un semplice mezzo attraverso cui acquistare beni e servizi necessari per vivere e diventano armi attraverso cui comprare le persone o la felicità stessa. Se però senza soldi è quasi impossibile essere felici nella società consumistica di oggi, è pur vero che i soldi non servono ad acquistare la felicità, specie se usati in maniera impropria.
Nel romanzo osserviamo, attraverso le vicende dei protagonisti, come il potere dei soldi stia portando alla svalutazione dei valori. Sempre più persone, così come alcuni dei personaggi principali del romanzo, accettano di subire abusi o si sottomettono al ricco, svendendo la propria umanità e la propria esistenza per il benessere dato da una buona quantità di denaro. C'è chi si sottomette diventando il tirapiedi del padrone ricco, rinunciando alla propria individualità ed alla propria autodeterminazione; c'è chi vende il proprio corpo e magari un amore finto, dando via per soldi cuore e dignità. 
Un altro tema importante presente nel romanzo è quello che mi piace definire la "contagiosità del male". Quando un uomo fa del male ad un altro uomo, lo indispone e lo spinge a fare lo stesso con un terzo uomo, dando così inizio ad un circolo vizioso che potenzialmente può non avere fine. Un po' quello che ci si augura succeda quando si fa del bene. Il protagonista de Il prezzo della vita usa il potere che gli deriva dalla ricchezza per prendere tutto, facendo del male a molte persone, e così facendo rovina la vita a tanta gente che finisce per diventare arida e malvagia come lui, facendo a propria volta del male ad altri.
Nel romanzo non sono però presenti solo valori negativi, ad un certo punto compare anche del vero amore, solo che il protagonista è troppo disabituato ai veri sentimenti per riconoscerlo, finendo per rovinare tutto.

I protagonisti principali della vicenda sono quattro:
- Antonio Baldi: uomo anziano e molto ricco. Compra tutto con i soldi, cose e persone, è consapevole del fatto che nessuno provi per lui un vero affetto, ma con cinismo sfrutta la sua condizione. In realtà è ormai consapevole che la strada da lui percorsa non lo porterà mai alla vera felicità, ma non sa quale è l'alternativa da seguire, per questo si è arreso alla propria condizione accontentandosi di una ricca infelicità.
- Filomena Livriero: giovane moglie di Antonio. Di lei non posso dire molto, finirei per svelare troppe cose, dirò solo che è opportunista e pur di vivere nella ricchezza non si pone alcuno scrupolo.
- Michele Mestieri: finto miglior amico di Antonio, cerca di usarlo per trarne quanti più benefici possibile. Cattivo marito e cattivo padre, non pensa a nient'altro che alla propria felicità e non esita a tradire o ingannare le persone a cui dichiara amore.
- Jessica Mestieri: figlia di Michele, posso dirvi di lei che è l'unica ad affezionarsi davvero ad Antonio.

Con queste poche righe ho provato a spiegarvi, senza rovinarvi il piacere della lettura, il mio secondo romanzo: Il prezzo della vita.

Vi ricordo che il libro può essere ordinato sul sito www.csaeditrice.it, in tutte le librerie ed anche in quelle online.

Potete seguire la mia attività su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Sin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con Matrimonio e piacere. Autore anche di poesie. Il prezzo della vita è la sua prima pubblicazione per la CSA Editrice.

  

giovedì 29 settembre 2016

STORIA: SHIMON PERES, L'UOMO DI GUERRA PREMIATO PER LA PACE

Ieri, all'età di 93 anni, è morto Shimon Peres, ex presidente dello Stato di Israele. 
Di lui tutti ricordano il premio Nobel per la pace assegnatogli nel 1994 insieme a Yasser Arafat per gli accordi di Oslo, che nel mondo accesero la speranza di una pace nella martoriata terra di Palestina. Il ricordo del Nobel ha portato i media a dipingere Peres come uomo di pace, eppure definirlo tale è azzardato, soprattutto considerando il suo passato ed anche le sue scelte politiche successive al Nobel.

Shimon Peres nacque il 2 agosto 1923 a Vishnievo, un paesino oggi in Polonia ma allora in Bielorussia. All'età di 11 anni emigrò in Palestina, seguendo il viaggio che il padre aveva fatto qualche anno prima.
La sua carriera politica iniziò presto, dopo un po' di anni nel kibbutz Geva venne scelto nel kibbutz Alumot per organizzare il movimento laburista Hanoar Haoved. A soli 20 anni Peres divenne segretario del movimento e proprio in qualità di segretario di Hanoar Haoved partecipò nel 1946 al Congresso Mondiale Sionista dove incontrò David Ben-Gurion, il primo firmatario della Dichiarazione d'indipendenza israeliana e prima persona a ricoprire il ruolo di Primo Ministro d'Israele.
Nel 1947 venne arruolato nel nucleo che poi costituirà le Forze di Difesa Israeliane e fu nominato responsabile per il personale e per l'acquisto di armi. L'anno dopo fu capo della marina nel corso della guerra d'indipendenza israeliana. Finita la guerra, fu nominato direttore della delegazione israeliana negli USA.
Negli anni '50 ricopre il primo incarico governativo di peso, è infatti ministro della Difesa. Proprio in qualità di ministro è protagonista della crisi di Suez che si ebbe quando Israele, Francia e Gran Bretagna occuparono il Canale di Suez per contenderne la gestione all'Egitto. La crisi si risolse solo perché l'URSS (che temeva l'allargamento del conflitto) minacciò di intervenire contro gli invasori mentre gli USA non assicurarono alcun intervento e fecero appello ad una soluzione pacifica del conflitto. 
Nel 1959 fece il suo ingresso in Parlamento con il Partito Mapai. Fu però costretto ad abbandonare il partito quando risultò tra i coinvolti nello scandalo dell'affare Lavan. Ebrei egiziani erano stati arruolati per compiere attentati contro civili in Egitto e poi far ricadere la colpa sui Fratelli Mussulmani, così da spingere la Gran Bretagna a mantenere nel paese nordafricano le sue truppe di occupazione (per 51 anni Israele ha negato responsabilità, ma nel 2005 i partecipanti che erano sopravvissuti sono stati premiati proprio dal Governo).
Nel 1974 si candidò per la prima volta al ruolo di Primo Ministro, ma fu battuto dal suo compagno di partito (che nel 1968 era diventato Partito Laburista Israeliano) Yitzhak Rabin. Tre anni dopo però Rabin fu costretto a dimettersi a causa di un conto estero tenuto dalla moglie, così Peres ascese alla carica di Primo Ministro. Il successo per Peres durò poco, infatti alle elezioni successive il Partito Laburista fu sconfitto e lui perse la carica.
Dopo una parentesi come vicepresidente dell'Internazionale Socialista e una nuova sconfitta elettorale, nel 1984 Peres riuscì a riconquistare il ruolo di Primo Ministro. Per ottenere la carica però il leader laburista dovette formare una coalizione che includeva anche il Likud, il partito nazionalista di centrodestra.
Nel 1994, in qualità di ministro degli Esteri del governo Rabin (contro cui aveva perso le primarie del Partito Laburista) firmò gli accordi di Oslo con il leader palestinese Yasser Arafat. Tali accordi prevedevano il ritiro delle forze israeliane da alcune aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania più il riconoscimento di un governo palestinese, l'ANP (Autorità Nazionale Palestinese). Tali accordi valsero sia a Peres che ad Arafat il Nobel per la pace, ma si trattò sostanzialmente di un tentativo fallimentare. Come ampiamente prevedibile, il movimento estremista palestinese di Hamas non accettò l'accordo e continuò i suoi atti terroristici, infatti l'organizzazione non riconosceva il diritto a esistere di Israele che di fatto era uno Stato invasore. In un certo senso, guardando agli accordi con disillusione postuma, il tentativo di Peres fu un più tentativo di fermare la ribellione contro lo stato invasore al fine di preservarne la sopravvivenza che una reale pacificazione.
Dopo aver ottenuto il Nobel per la pace, l'11 aprile 1996 Peres, diventato Primo Ministro l'anno prima dopo l'uccisione di Rabin, autorizzò l'Operazione Grappoli d'Ira. Si trattò di un massiccio attacco terrestre, navale e aereo sul Libano contro gli Hezbollah, colpevoli di fare guerriglia contro lo Stato d'Israele. In 16 giorni Israele sganciò 35.000 bombe e il 18 aprile bombardò una base delle Nazioni Unite in cui si erano rifugiati 800 civili, uccidendo 102 persone e ferendone 120. Ufficialmente Israele dichiarò di non sapere che i civili si fossero rifugiati nella base, ma un'indagine delle Nazioni Unite li smentì. I militanti Hezbollah uccisi nei raid alla fine non furono ufficialmente nemmeno una ventina, le vittime civili furono cinque volte di più.
Dopo la salita al potere di Netanyahu, per Peres si aprì una fase di declino. Tale fase fu interrotta nel 2006 quando decise di unirsi a Sharon (quello del muro costruito nel 2002 che divide ancora oggi israeliani e palestinesi e che più volte è stato dichiarato illegale dalle Nazioni Unite) e fondare il partito centrista Kadima. Questa trasformazione gli valse, il 13 giugno 2007, l'elezione a presidente d'Israele, carica che ricoprì fino al 2014.

Simon Peres è stato senza dubbio una delle figure più importanti della politica israeliana ed internazionale. Per tutta la seconda metà del '900 è stato uno dei protagonisti delle vicende mediorientali e fino ad un paio di anni fa è stato un personaggio di primo piano nello Stato d'Israele. Il premio Nobel per la pace che ricevette nel '94 può però spingere ad una valutazione affrettata e buonista dell'operato di Peres, cosa che tra l'altro ci concediamo sempre quando si parla di un personaggio ormai passato a miglior vita. La sua storia ci parla di qualcosa di diverso dall'uomo di pace, ci parla di un politico che per rafforzare il suo paese non esitò ad organizzare attentati contro civili in un altro paese, di un uomo che con degli accordi di pace ha provato a rendere più sicura la sua nazione facendo accettare un compromesso ingiusto ad un paese invaso, di un Primo Ministro che fece bombardare un villaggio pieno di civili per colpire un pugno di nemici. C'è chi poi lo giustifica parlando di "un falco che diventò colomba", cioè un uomo di guerra che poi lottò per la pace, ma al di là della discutibile volontà pacificatrice dietro gli accordi di Oslo, non dobbiamo dimenticare che nemmeno due anni dopo aver ricevuto il Nobel fece bombardare i civili in Libano e che nel 2006, pur di ritornare sulla cresta dell'onda, si alleò con un uomo che di pace sapeva ben poco, Ariel Sharon.

Francesco Abate

venerdì 23 settembre 2016

LETTERATURA: RECENSIONE DE "IL CAVALIERE INESISTENTE" DI ITALO CALVINO

Pubblicato nel 1959, Il cavaliere inesistente fa parte della trilogia "I nostri Antenati" insieme a Il barone rampante e Il visconte dimezzato
Il romanzo è ambientato nella Francia medievale, al tempo di Carlo Magno e del suo scontro con i mori. 

Personaggio principale dell'opera è Agilulfo, un cavaliere perfetto in ogni pensiero e azione, con un solo difetto: non c'è. Egli è solo un'armatura vuota, sa di esserci ma non c'è, è solo coscienza di sé ma è incorporeo. Questo non non essere persona, ma solo un'insieme di idee e codici cavallereschi, lo rende un cavaliere perfetto, così come perfetta e priva di qualsiasi difetto è la sua armatura. La sua perfezione viene però messa in dubbio quando viene insinuato che egli non ha diritto ai suoi titoli dato che la fanciulla che salvò non era vergine (per il salvataggio di una non-vergine non gli sarebbe spettata la nomina a cavaliere). Agilulfo affronta un lungo viaggio per provare di essere degno dei titoli che egli possiede, anche perché lui è solo quei titoli e perdendoli perderebbe sé stesso. Nel finale un grave equivoco lo convince di non essere in diritto di essere cavaliere, portandolo all'estrema decisione di sparire per sempre.
Scudiero di Agilulfo è Gurdulù. Si tratta di un pazzo, a differenza di Agilulfo c'è ma non ne è cosciente, tanto che a volte crede di essere un animale, altre volte l'aria, ma mai è consapevole di essere sé stesso. I Franchi lo incontrano mentre crede d'essere prima un'anatra, poi una rana, e Carlo Magno per dispetto lo nomina scudiero dell'impeccabile Agilulfo che, ligio al dovere, non disobbedisce all'ordine del sovrano e lo tiene con sé.
C'è poi Bradamante, la bellissima fanciulla-cavaliere. Compare nel romanzo quando salva il giovane Rambaldo da un'imboscata. Ama Agilulfo nonostante egli non ci sia, di lui infatti ama la perfezione, in lui vede il perfetto cavaliere libero dai vizi e dal disordine degli altri guerrieri. Perso Agilulfo, trova però l'amore di Rambaldo.
Rambaldo è un giovane che si unisce all'esercito di Carlo Magno per vendicare il padre, che fu ucciso dall'argalif Isoarre. La sua vendetta si consuma in modo un po' grottesco, infatti l'argalif è ucciso da una lancia, ma Rambaldo si sente appagato perché gli ha impedito di indossare gli occhiali da vista, impedendogli di schivare l'attacco. Caduto in un'imboscata, è salvato da Bradamante e subito se ne innamora, ma non riesce a far breccia nel suo cuore se non dopo essersi congiunto carnalmente a lei grazie ad un equivoco. Ammira Agilulfo e si rivolge a lui per diventare un perfetto cavaliere, da lui non viene mai davvero amato, però quando il cavaliere inesistente sparisce lascia a lui la sua armatura, riconoscendo in un certo senso che il cavaliere più vicino ai nobili ideali cavallereschi è proprio lui. Rambaldo, forte dell'investitura ricevuta da Agilulfo, diventa un cavaliere coraggioso ed eroico.
Torrismondo è in un certo senso l'antagonista di Agilulfo. Vittima di un equivoco, solleva dubbi sulla validità del titolo di cavaliere di quest'ultimo, spingendolo ad un avventuroso viaggio ed alla scelta finale di sparire. Solo dopo la scomparsa di Agilulfo scopre la verità sul suo passato, quindi anche di aver messo in dubbio ingiustamente il titolo dell'eroe, ma non può rimediare. Convinto di essere figlio di un cavaliere del Santo Gral, che violò la madre, egli prova un'ammirazione verso quell'ordine di uomini pii, salvo poi scoprire che si tratta di persone avide che uccidono innocenti giustificandosi con la volontà del Gral e finire a combattere contro di loro per salvare un villaggio. Alla fine verrà nominato conte del villaggio che ha salvato, ma la gente del posto, ormai indipendente e capace di difendersi, lo accetta lì solo a patto che sia un loro pari. Vivrà in pace con quella gente, sposo della donna che per anni aveva creduto sua madre.

Il cavaliere inesistente è un romanzo il cui tema centrale è l'essere. Agilulfo non è, non esiste come persona, è solo un insieme di ideali e di codici, non ha vizi e non ha debolezze. Questo suo non essere, che sembra essere la sua arma vincente perché lo rende invincibile, è in realtà anche il suo tallone d'Achille perché quando crolla ciò che egli rappresenta, egli si dissolve. Anche Gurdulù non è, a differenza di Agilulfo però c'è, solo che si immedesima in tutto ed è come se si fondesse nel mondo circostante, perdendo la propria individualità.

L'opera è ambientata nel Sacro Romano Impero all'epoca dello scontro tra Carlo Magno e i mori. Nel campo dell'esercito di Carlo Magno incontriamo alcuni degli eroi descritti dall'Ariosto ne L'Orlando Furioso (opera particolarmente amata da Calvino, a cui dedicò anche una sua personale riscrittura), solo che qui sono privi dell'epica poesia che li veste nel poema e sono grotteschi, tendono a dire fandonie per coprirsi di gloria e preferiscono i banchetti e le taverne alle battaglie ed all'eroismo. La stessa Bradamante, la bellissima fanciulla-cavaliere, è presentata da Calvino in modo molto originale, infatti compare nell'opera salvando Rambaldo da un'imboscata, subito dopo però il giovane la segue e incantato la osserva orinare in un fiume, oltretutto nel romanzo viene detto senza mezzi termini che ha amato molti uomini (e per questo i compagni d'arme la prendono in giro). 
Ci sono poi i cavalieri del Gral, considerati da tutti molto pii, si rivelano in realtà come un gruppo di personaggi strambi che non esitano a saccheggiare un villaggio inerme che non era stato in grado di rifocillarli con i soliti tributi in cibo e bevande. Attraverso la descrizione di questi cavalieri, che vengono visti attraverso gli occhi di Torrismondo, Calvino evidenzia ancor di più il distacco netto tra la reputazione di cui godevano i cavalieri e la loro reale essenza, conosciuti come pii e senza macchia, non erano altro che uomini preda di avidità e vizi. 

Nonostante l'importanza dei temi trattati, il romanzo è scritto in un linguaggio molto semplice. Nonostante Calvino tenda ogni tanto ad impreziosire il linguaggio con espressioni che richiamano all'epoca cavalleresca, tanto per rendere l'atmosfera in cui si svolge la vicenda, la storia è scorrevole ed a tratti strappa anche un sorriso.

Francesco Abate

martedì 20 settembre 2016

FILOSOFIA: L'ARTE DI OTTENERE RAGIONE DI SCHOPENAUER

L'Arte di ottenere ragione è uno scritto del filosofo tedesco Arthur Schopenauer, pubblicato solo dopo la sua morte.

In quest'opera il filosofo esprime innanzitutto il suo concetto di dialettica, che per lui è "l'arte di disputare", cioè l'arte di avere ragione di fronte ad un pubblico con ogni mezzo, lecito od illecito. Nella dialettica non c'è spazio per la ricerca della verità, chi ha effettivamente ragione e chi effettivamente torto non possiamo saperlo durante la disputa, unico scopo e mostrare di avere ragione. La dialettica per Schopenauer ha origine dalla nostra vanità e dalla nostra prepotenza. Scrive il filosofo: "Dunque la dialettica non deve avventurarsi nella verità: alla stessa stregua del maestro di scherma, che non considera chi abbia effettivamente ragione nella contesa che ha dato origine al duello: colpire e parare, questo è quello che conta".
La dialettica sta nel mezzo tra logica e sofistica. In quanto arte è riconducibile ad un sistema di regole e tecniche, in quanto disposizione naturale è una tendenza originaria che si può rafforzare con l'esercizio.
Nonostante il significato puramente battagliero che ha per il filosofo la dialettica, egli conclude il trattato dicendo che quando lo scontro avviene tra due individui dello stesso intelletto essa può servire anche a sviluppare nuovi punti di vista ed a rettificare i loro pensieri. 

Nel trattato Schopenauer, oltre a definire la dialettica, presenta una serie di tecniche utili ad ottenere ragione nel momento in cui l'interlocutore ci abbia invece dimostrato che abbiamo torto. 
Innanzitutto ci sono due modi per confutare la tesi dell'avversario:
1) ad rem, cioè mostrando che la tesi non concorda con la natura delle cose;
2) ad hominem, cioè individuando discordanze tra la tesi espressa dall'avversario e altre sue affermazioni.
Le vie per confutare sono due:
1) confutazione diretta: attaccare le tesi e distruggerne o i fondamenti o le conseguenze;
2) confutazione indiretta: attaccare la conclusione a cui giunge l'avversario o dimostrandone la falsità o evidenziando casi contrari.
Dopo i modi e le vie di confutazione, Schopenauer elenca 38 stratagemmi utili per l'ottenimento della ragione. Come detto prima, la verità o la falsità delle tesi non contano nulla, quindi gli stratagemmi possono essere tanto piccole furbizie quanto vere e proprie slealtà. Si va dal dare all'affermazione dell'avversario significati forzati all'attacco dell'avversario stesso con offese personali.

Francesco Abate

mercoledì 14 settembre 2016

STORIA: LA PRIMAVERA DI PRAGA E LA REPRESSIONE SOVIETICA

Viene chiamata Primavera di Praga la rivoluzione politico-culturale che avvenne in Cecoslovacchia tra il 1967 e il 1969. 
Tutto nacque dagli elementi in opposizione al capo di Stato Novotny, uomo della vecchia nomenklatura comunista già nel 1967. L'evoluzione della mentalità della gente infatti aveva generato un'avversione nei confronti dei metodi di governo dei paesi posti sotto l'influenza sovietica, tale evoluzione fu raccolta da una parte del PCC (Partito Comunista Cecoslovacco) che iniziò a concepire un socialismo diverso.
I principi che portarono alla Primavera di Praga non contrastavano il socialismo e nemmeno mettevano in discussione i rapporti tra Cecoslovacchia e URSS, semplicemente si voleva realizzare un socialismo dal volto umano, cioè al centro della politica non ci dovevano essere né l'accumulo di capitale né il Partito, ma semplicemente l'uomo. Gli atti più concreti in cui si concretizzò questa nuova concezione politica una volta insediatosi Dubcek al governo furono il riconoscimento della possibilità che si formassero altri partiti e la rinuncia ad un controllo rigido della società.
L'URSS ovviamente osteggiò da subito l'opera del nuovo governo cecoslovacco, temendo che la situazione si estendesse ad altri paesi del Patto di Varsavia limitando la sua influenza. Subito i sovietici iniziarono con pesanti ingerenze nella politica interna cecoslovacca, ordinando a Dubcek di "normalizzare" la situazione. 
L'azione politica sovietica provocò la reazione del popolo cecoslovacco. Il 27 giugno 1968 fu pubblicato nell'ambito dell'Accademia delle Scienze il "Manifesto delle Duemila parole", un documento finalizzato a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle ingerenze sovietiche nella politica interna cecoslovacca.
Il 20 agosto 1968 però l'URSS decise di passare ai fatti. A differenza che in Ungheria nel 1956, stavolta i sovietici non cercarono nemmeno di crearsi un pretesto, poco prima di mezzanotte invasero il paese con i carri armati. L'azione sovietica avvenne durante una riunione del PCC, prese completamente di sopresa Dubcek che anni dopo ha ammesso di aver sottovalutato il pericolo sovietico e ha dichiarato: "le esperienze drastiche dei giorni e dei mesi che seguirono mi fecero capire che avevo a che fare con dei gangster". Fatta l'invasione, l'URSS si preoccupò di cambiare i quadri di potere. Dubcek fu prima nominato ambasciatore in Turchia, venendo così allontanato dal paese, poi cacciato dal partito ed escluso per sempre dalla politica. Al guido del paese fu insediato un nuovo governo formato da uomini di fiducia del Cremlino. Ovviamente l'URSS, mentre si impadroniva politicamente della Cecoslovacchia, si impegnò anche in un'intensa azione di polizia e di spionaggio al fine di frenare qualsiasi resistenza. Ai firmatari del "Manifesto delle Duemila parole" fu imposta una scelta: ritrattare la propria firma o rinunciare alla propria carriera. Molti si arresero e ritrattarono, ma non mancarono casi di eroismo come quello dell'atleta Vera Caslavska, atleta di grande talento (11 medaglie olimpiche in 11 anni, 10 medaglie ai campionati mondiali e 13 a quelli europei) che preferì vivere come donna delle pulizie piuttosto che ritrattare la propria firma. La stessa Caslavska, in una delle sue apparizioni olimpiche post-invasione sovietica, al suono dell'inno sovietico si voltò di spalle incurante del rischio di squalifica.
Il popolo cecoslovacco, vedendosi derubato della sovranità proprio mentre stava gustando una rivoluzione culturale senza precedenti, mostrò tutta la propria disperazione. Vi furono atti eclatanti, alcuni giovani si riunirono nella piazza principale di Praga e si diedero fuoco.

La Primavera di Praga è forse ancora oggi l'esempio più fulgido del contrasto tra le evoluzioni del pensiero ed i regimi politici totalitari. Un popolo nel 1968 lavorava per portare nella politica quei cambiamenti che ormai erano avvenuti nella mentalità delle persone, ma tale rinnovamento era inconcepibile per il vecchio e prepotente regime sovietico che represse tutto con la forza, non potendo controbattere con la forza del pensiero e dell'esempio politico.

Francesco Abate



giovedì 8 settembre 2016

ESTRATTO N°6 DE "IL PREZZO DELLA VITA"

Antonio era a casa. Dormiva accanto alla moglie, con cui da poco aveva finito di fare sesso, aiutato dalla sensazione di potenza che gli aveva dato il discorso fatto a colui che gli voleva rubare la donna. Ora Filomena dormiva, lui invece giaceva a pancia in su e fissava il vuoto, pensando all'incontro con Jessica. Quella ragazza era bella e lui aveva voglia di farci sesso, nonostante fosse minorenne; ciò non lo stupiva, non sarebbe stata la prima volta. Era sconvolto dalla facilità con cui lei si era aperta, involontariamente lui era stato capace di trovare la chiave per abbattere le sue fragili difese, ma ciò che lo sconvolgeva di più era come lei, senza dirgli nulla, avesse saputo scardinare le sue difese, quelle che teneva alte contro il mondo. Forse per la prima volta in vita sua aveva confessato di non aver mai trovato un vero amico, e dal tono della voce, che questa volta non aveva saputo tenere freddo e distaccato, aveva anche mostrato la ferita che tale mancanza aveva lasciato nel suo cuore. Sentiva quasi il bisogno di tenersi vicino Jessica; c'era qualcosa in lei che non solo la rendeva attraente fisicamente, ma che lo attirava e gli faceva venire voglia di aprire il suo cuore.

Francesco Abate - Il Prezzo della Vita - CSA Editrice

Il libro può essere ordinato sul sito www.csaeditrice.it, il sito della casa editrice, in tutte le librerie ed anche in quelle online.

Potete seguire l'attività dell'autore su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese" e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Sin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con "Matrimonio e Piacere". Autore anche di poesie. Il Prezzo della Vita è la sua prima pubblicazione per la CSA Editrice.

sabato 3 settembre 2016

LETTERATURA: RECENSIONE DE "L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE" DI MILAN KUNDERA

L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere è di certa l'opera più famosa dello scrittore cecoslovacco Milan Kundera.

Si tratta essenzialmente di un romanzo filosofico. Sono molto presenti l'elemento storico e quello amoroso, hanno però la funzione di condurre l'autore ad una riflessione su politica, esistenza e sentimenti, rendendo così centrale la riflessione filosofica. L'intera vicenda narrata nel romanzo è solo un pretesto per una serie di riflessioni, tanto che spesso queste ultime prendono il sopravvento e le peripezie dei protagonisti vengono trascurate per diverse pagine. Proprio per approfondire queste riflessioni, che spesso nascono dai personaggi per poi prendere una strada indipendente, l'autore interviene più volte ed in maniera molto pesante sul romanzo.

Un'altra particolarità dell'opera è l'intreccio molto forte. Già a metà romanzo sappiamo come andrà a finire la vicenda principale, cioè l'amore tra Tomas e Tereza. Per le finalità dell'opera infatti la trama è assolutamente secondaria, le vicende dei personaggi servono solo per offrire uno spunto di riflessione, sono esempi attraverso cui Kundera cerca di rendere più chiari i concetti che esprime. 

Le vicende narrate si svolgono principalmente in Boemia, nel periodo dell'invasione sovietica immediatamente successiva alla repressione della Primavera di Praga. Ovviamente Kundera nel romanzo non manca di evidenziare lo stato d'animo delle persone costrette a vivere in un immenso lager, continuamente spiate e con la polizia sovietica sempre alle costole, e il dramma di chi era continuamente costretto a scegliere tra il quieto vivere del traditore o la vita d'inferno del dissidente.
La storia, che come detto nel romanzo ha valore assolutamente secondario, narra dell'amore tormentato di Tomas e Tereza. Si amano, ma lui la tradisce continuamente e lei ne soffre. Lui perde la professione (è uno stimatissimo chirurgo) a causa di una lettera inviata ad un giornale anti-sovietico (e dal giornale stessa completamente modificata) e dopo aver lavorato da lavavetri si trasferisce in campagna con Tereza, che lì pensa sarà felice e non più tradita dal marito.

I personaggi principali del romanzo sono quattro:
1) Tomas = chirurgo famosissimo e molto stimato. Vive da libertino, poi ha un incontro assolutamente fortuito con Tereza e se ne innamora. Nonostante ami davvero Tereza e viva con lei, la tradisce di continuo e non pone mai fine alle sue scappatelle. Egli infatti nei rapporti con le amanti non cerca né amore né piacere, cose che trova in Tereza, ma vuole cogliere l'unicità delle varie partner, cioè vuole vivere quel momento di intimità in cui esse si mostrano davvero per quel che sono, mostrano ciò che le differenzia da tutti gli altri esseri umani. Non è particolarmente attratto dalla politica e nemmeno sente il desiderio di vivere da dissidente del regime sovietico. Emigra a Ginevra con Tereza, poi proprio per amore della donna torna a Praga. Si trova a subire la repressione dell'invasore a causa di una vecchia lettera inviata ad un giornale. I sovietici gli propongono anche di ritrattare ciò che scrisse, ma si rifiuta di farlo. 
2) Tereza = incontra per caso Tomas e proprio quella serie di casualità le fa capire che è il vero amore. Il suo amore è anche una fuga dalla madre che, vedendola come il frutto di un amore infelice, la mortifica di continuo. Ama Tomas, soffre i suoi continui tradimenti però soffre anche nel farlo sentire in colpa e nel limitarlo. Non dubita dell'amore di Tomas, però i tradimenti le fanno male perché vede il suo corpo equiparato a quello di centinaia di altre donne, subendo perciò una mortificazione che è continuazione di quelle che le riservava la madre. Anche nell'invasione sovietica vede un'estensione delle sofferenze fattele patire dalla madre, infatti la sua Boemia è diventata un grande lager. Va a Ginevra con Tomas, poi torna a Praga e lui la segue, così si sente in colpa anche per aver involontariamente ostacolato la carriera del suo compagno. Alla fine si convince che troverà la felicità in campagna e ci va con Tomas, che ormai ha perso il lavoro.
3) Karenin = il cane di Tomas e Tereza. Nonostante gli siano dedicate poche pagine, Kundera lo usa per la sua riflessione sull'amore. Addirittura ad un certo punto della storia Tereza arriva a pensare che il vero amore sia quello che prova per il cane e non quello che sente per Tomas.
4) Sabina = un'artista, una delle amanti di Tomas, ha un ruolo importante perché la sua vicenda porta l'autore a formulare la sua teoria del Kitsch. Lei da piccola ha subito il padre molto puritano, per reazione ha sviluppato un amore per il tradimento. Tradisce di continuo, è amante di Franz ma quando questo vuole "ufficializzare" la loro unione lei lo abbandona. Non arde per un ideale o per un sentimento, lei semplicemente li tradisce appena li vede concretizzarsi nella sua vita.
5) Franz = amante di Sabina, è l'idealista del romanzo. Fisicamente molto forte, moralmente è assai debole. Ha una moglie che non ama, però si costringe a stare con lei perché in lei vede l'incarnazione della madre. Decide poi di lasciare la moglie e rivelarle di Sabina, quando lo fa scopre che la prima non è quella che lui pensava e viene lasciato da Sabina, verso cui continua a provare una sorta di venerazione. Trascinato dai suoi ideali, si trova faccia a faccia con tutta la loro falsità.

Diverse sono le riflessioni presentate dall'autore in questo romanzo.
Temi centrali sono l'amore e l'esistenza umana. Tomas ama Tereza che per lui è una catena di casualità, Tereza invece vede in Tomas come un prescelto visto che il giorno del primo incontro capta una serie di segni che ritiene inequivocabili. Sabina l'amore lo tradisce, ritenendolo sbagliato in quanto sentimento. Franz ha una moglie che non ama ma rispetta, poi finisce per stare con una ragazza molto più giovane. L'amore è perciò mostrato da diverse inquadrature, stimolando così la riflessione del lettore.
Molto interessante è la teoria del Kitsch, che l'autore "ruba" a Sabina. Lei infatti tradisce perché vede del brutto (il Kitsch, appunto) in tutto ciò che nega dubbio e conflitto. Per lei è Kitsch la realtà gioiosa e priva di scontri presentata dai film sovietici, è Kitsch anche il regime che impone una dottrina e nega che i dogmi siano messi in discussione. Il brutto è in tutto ciò che non nasce dalla riflessione individuale, dalla discussione di qualcosa che può sembrare giusto, dal conflitto e magari anche dallo scontro. Perciò lei prova repulsione sia per gli ideali (che nascono dalla cieca fiducia in qualcosa) che per i sentimenti.
Attraverso gli occhi dei personaggi è possibile anche riflettere sui turbamenti che causa il totalitarismo sulle persone. Nella Boemia occupata dai sovietici infatti le persone sono continuamente costrette a scegliere se rovinarsi per difendere la libertà del proprio paese o se tenere il quieto vivere e piegarsi all'invasore. In entrambi i casi, però, vivono con la consapevolezza di essere continuamente spiati, intercettati, c'è chi reagisce comportandosi come fosse a teatro perché in fondo avere un pubblico intorno gli piace, ma c'è chi ne soffre e si sente soffocato. Tereza è accusata da un agente sovietico in borghese di essere una prostituta, incastrata forse da un finto amante, invece Tomas perde il lavoro che aveva sempre sentito come la sua missione. C'è poi anche la riflessione sull'efficacia e l'opportunità degli atti contro un regime, quando a Tomas viene proposto di firmare una richiesta di amnistia per gli intellettuali cecoslovacchi arrestati si chiede che senso abbia visto che si sa che non servirà a niente, salvo poi concludere che serve per mostrare che una resistenza c'è.
Un altro spunto di riflessione si può avere riguardo il rapporto tra Tomas e la professione di chirurgo. Egli sente l'essere chirurgo come una missione, soffre molto quando gli viene impedito di esercitare, alla fine però capisce che proprio l'essersi liberato della missione lo ha portato alla felicità.

L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere non è un romanzo facile da leggere, tratta di temi molto complessi e l'autore cerca di trattarli nella loro interezza. Vale però la pena leggerlo, sia perché è scritto molto bene sia perché lascia qualcosa dentro, spinge a farsi tante domande e quindi causa una crescita interiore.

Francesco Abate