domenica 29 ottobre 2017

COMMENTO AL CANTO II DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il secondo canto della Divina Commedia si apre con un'invocazione di Dante alle muse ed alla propria mente affinché gli permettano di scrivere fedelmente ciò che ha visto nel suo viaggio nell'oltretomba. Questa invocazione riprende la tradizione dei poemi antichi, rispettata sia da Omero che da Virgilio, ma in Dante ha un valore meno poetico e serve già a sottolineare l'importanza che per lui deve avere il poema. Come già ho scritto nel commento al canto I (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/10/commento-al-canto-i-della-divina.html), l'opera per Dante non è fine a sé stessa. Egli scrive la Commedia con l'intento di portare l'umanità fuori dalla selva oscura, liberarla dalla confusione in cui è caduta e riportarla nella grazia di Dio. Affinché possa essere raggiunto uno scopo tanto elevato, è fondamentale che Dante riesca a riportare fedelmente ciò che ha visto (nella realtà, il frutto delle sue meditazioni), così da far percorrere ai lettori il suo stesso cammino. Per questa ragione egli implora le muse e la sua mente affinché lo aiutino a scrivere correttamente ciò che vuole, egli non vuole solo intrattenere ma sta iniziando un'opera dallo scopo elevato. La validità delle sue idee sarà decisa dall'esito della sua missione: "o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobiltate".
La sera scende e il dubbio si insinua nel cuore di Dante. Egli è un peccatore, non può quindi comprendere immediatamente l'importanza del viaggio che Virgilio, la sapienza, gli ha prospettato. Smarrito e ottenebrato dal peccato, egli chiede alla sua guida come sia possibile che a lui sia concesso un tale privilegio. Nel formulare la sua richiesta, il poeta cita due personaggi che prima di lui hanno compiuto tale viaggio: Enea e san Paolo. Nell'epica e nelle religioni tanti sono i personaggi a cui vengono attribuiti viaggi nell'oltretomba compiuti in vita, Dante cita proprio questi due per una ragione ben precisa. Enea è per tradizione considerato fondatore di Roma, è quindi progenitore di quell'impero che il poeta assurge a simbolo del potere spirituale; san Paolo invece è uno dei personaggi fondamentali del Cristianesimo e le sue lettere, contenute negli Atti degli Apostoli, sono parte fondamentale della predicazione cristiana, quindi è degno rappresentante del potere spirituale. Citando Enea e san Paolo, Dante cita i due poteri che dovrebbero guidare l'umanità sulla retta via. Sono le stesse parole con cui Dante accompagna i due esempi a palesarci la sua intenzione: riferendosi a Enea dice che Dio gli concesse il privilegio del viaggio nell'aldilà "pensando l'alto effetto / ch'uscir dovea di lui", cioè per favorire la sua opera che avrebbe portato alla nascita di Roma; san Paolo invece fu rapito e portato fino al terzo cielo "per recarne conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione", infatti egli fu convertito e attraverso di lui fu nutrita la fede di tutto il mondo. Di fronte a due esempi così grandi, Dante si sente inadeguato e si chiede chi gli conceda tale privilegio: "Io non Enea, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri 'l crede". La frase con cui il poeta chiude la richiesta di spiegazioni a Virgilio è: "Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono". Riconoscendo la propria mente oscurata dal peccato, quindi inadeguata a comprendere verità tanto elevate, egli si affida totalmente alla sapienza della guida. Tutto questo ragionare sulla sua inadeguatezza porta Dante a cedere alla paura, facendogli pensare di rinunciare al cammino propostogli da Virgilio.
Virgilio si accorge che la paura è padrona del cuore di Dante e glielo fa notare ("l'anima tua è da viltade offesa;"). Per rinfrancarlo, sceglie di spiegargli l'origine dell'idea del viaggio che gli ha proposto. Egli era nel Limbo, "tra color che son sospesi", cioè non ammesso alla beatitudine eterna perché pagano, e non punito con le eterne pene perché non macchiato di colpe gravi. Fu raggiunto da Beatrice che, scesa dal Paradiso, lo esortò a correre in soccorso di Dante che era smarrito nella selva. Beatrice gli promise di lodarlo al cospetto di Dio, lui accettò di buon grado, ma volle sapere dall'anima beata cosa l'avesse spinta a scendere fin nel luogo dell'eterna perdizione. Beatrice gli spiegò che, essendo lei un'anima eletta da Dio all'eterna beatitudine, non poteva subir alcun danno dal male dell'Inferno ("I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange, / né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale"). Infine la donna raccontò che il suo intervento era stato sollecitato da santa Lucia, a sua volta chiamata all'azione dalla Madonna stessa. Come si vede, la missione di condurre Dante, e con lui l'umanità intera, fuori dall'oscurità, discende dall'altissimo, percorre in senso discendente una scala gerarchica ed arriva fino al gradino più basso, Virgilio. La scelta delle tre protettrici non è per nulla casuale: la Madonna è colei che esaudisce le preghiere degli uomini ancor prima che queste siano fatte, è grazia preveniente; santa Lucia è una santa a cui Dante Alighieri fu devotissimo, specialmente durante la sua malattia agli occhi, ed essendo protettrice della vista è in questo caso scelta come grazia illuminante; Beatrice, la donna che Dante ha amato e che già nella Vita Nuova assurge a simbolo spirituale, qui rappresenta la grazia operante. Le tre donne rappresentano quindi tre grazie, in contrapposizione alle tre fiere che impediscono il cammino lungo la retta via.
Dopo aver raccontato a Dante il motivo della sua venuta, Virgilio lo sprona chiedendogli come possa ancora aver paura pur sapendo che tre donne benedette avevano a cuore il suo destino ed avevano deciso di aiutarlo. Sentita la storia, il poeta prende coraggio e lo spiega con un paragone bellissimo: Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca / si drizzan tutti aperti in loro stelo, / tal mi fec'io di mia virtude stanca, / e tanto buono ardire al cor mi corse. A questo punto Dante sceglie di seguire Virgilio e con le parole lo elegge a suo duca, signore e maestro.

Francesco Abate

venerdì 27 ottobre 2017

COMMENTO AL CANTO I DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Con questi versi si apre la Divina Commedia di Dante Alighieri. L'opera inizia con il poeta smarrito in una selva selvaggia, aspra e forte, che il solo ricordare gli incute paura. La selva rappresenta l'oscurità, la lontananza dalla grazia di Dio. Lo smarrimento del poeta in questa selva può rappresentare contemporaneamente l'allontanamento di Dante dalla grazia di Dio, il suo smarrimento nelle cose umane, ed anche lo smarrimento dell'intera umanità, che priva della guida sicura e retta del papato e dell'impero vaga smarrita fuori da ogni virtù. Nei versi successivi il poeta ci dice che questa selva Tant'è amara che poco è più morte, essa infatti può essere considerata un lento procedere verso la morte dell'anima, quindi è poco meno terribile della morte stessa.
Dante non riesce a dirci come possa essere giunto ad una condizione tanto misera, questo perché la sua mente era oscurata dal sonno nel momento in cui abbandonò la "verace via", cioè la via della verità. Nella Bibbia spesso l'offuscamento dell'intelletto dovuto al peccato è definito come un sonno, qui Dante riprende questa tradizione e ci spiega che la sua mente era tanto oscurata dal peccato che è finito fuori dalla grazia di Dio senza nemmeno rendersene conto. Per alcuni critici l'abbandono della retta via coincide con un momento storico preciso, l'anno 1290, che fu l'anno della morte di Beatrice. Tale ipotesi appare verosimile se si considera il ruolo che il poeta dà alla donna che tanto ha amato. Beatrice non è una semplice musa, è una guida verso la grazia di Dio, colei che indica al poeta il sentiero da seguire per liberarsi dalla propria miseria e raggiungere la beatitudine. Nei prossimi canti vedremo come la stessa Beatrice ha deciso di far intraprendere a Dante il viaggio nell'oltretomba, così da salvare non solo l'anima del suo protetto, ma l'intera umanità attraverso la sua testimonianza. Nelle intenzioni di Dante infatti, questo sarà più chiaro nei prossimi canti, la Divina Commedia non è un poema fine a sé stesso. I versi che raccontano il suo viaggio nell'oltretomba hanno il valore di una completa e approfondita opera teologica attraverso la quale l'autore cerca di scacciare l'oscurità dalla mente dei lettori. Beatrice quindi non è solo la guida e la salvatrice di Dante, per il poeta diventa guida e salvatrice dell'umanità intera.
Dante, resosi conto della sua misera condizione, reagisce ed esce dalla selva, trovandosi ai piedi di un colle. Nei versi 77-78, Virgilio definisce questo colle "il dilettoso monte / ch'è principio e cagion di tutta gioia. Il colle è il cammino che conduce al sole che, a sua volta, è la guida dell'umanità. La definizione del sole come guida ha una funzione bivalente, infatti il pianeta (Dante lo indica così perché al suo tempo vigeva ancora il sistema tolemaico, quindi era considerato un pianeta che, come gli altri, percorreva un'orbita intorno alla Terra) è da sempre la guida per i viaggiatori, che lo usano per trovare i punti cardinali, ma allo stesso tempo in questi versi assume il ruolo di guida verso la luce, seguendo i suoi raggi si può uscire dall'oscurità del peccato.
Visto il colle con il sole alle spalle, Dante è rinfrancato e inizia a salire, lasciandosi la selva alle spalle. A questo punto si trova davanti tre fiere: una lonza, un leone e una lupa. La lonza, un felino simile ad una pantera, rappresenta la lussuria e col suo manto maculato mostra il gioco mutevole delle lusinghe. Il leone invece rappresenta la superbia. La lupa è la più temibile, rappresenta l'avidità. La vista delle tre fiere spaventa il poeta e lo costringe ad indietreggiare verso la selva, questi tre peccati impediscono quindi all'uomo di percorrere il retto cammino e lo spingono in una condizione di perdizione.
Nel momento in cui il rinsavimento di Dante sembra vanificato, in cui egli sta inesorabilmente cadendo di nuovo nella disperazione, giunge Virgilio. Dante inizialmente non lo riconosce, quindi Virgilio si presenta prima spiegando l'epoca storica in cui nacque e visse, nel tempo de li dèi falsi e bugiardi, cioè nell'antica Roma in cui vigeva il paganesimo, poi parlando dell'opera che lo rese celebre nei secoli, l'Eneide. "cantai di quel giusto / figliuol d'Anchise che venne di Troia, / poi che 'l superbo Iliòn fu combusto", nella sua opera Virgilio scrisse di Enea, che fuggì dalla rocca di Troia quando questa fu bruciata dagli achei. Dante in Virgilio riconosce il suo maestro, colui che ha ispirato le sue opere, e gli chiede aiuto affinché possa salvarsi dalla lupa, cioè dall'avidità che gli impedisce di camminare verso la beatitudine. In questa invocazione, secondo me possiamo anche leggere l'appello di un letterato che chiama a raccolta tutta la cultura e il sapere affinché lo aiutino a liberarsi dalla condizione di miseria morale, egli cerca nella conoscenza l'appiglio utile per migliorarsi nello spirito.
Dopo l'invocazione di Dante, arriva quello che secondo me è il momento più bello di tutto il canto. Virgilio spiega alla povera anima smarrita che è impossibile superare la lupa, insaziabile e inarrestabile. Il mondo è in balìa dell'avidità e questa cresce di continuo, tanto che è impossibile salvarsi da essa affidandosi semplicemente alla ragione umana. Bellissima è la descrizione che Virgilio fa della lupa: "ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo 'l pasto ha più fame che pria. / Molti son li animali a cui s'ammoglia,". L'avidità è insaziabile, cresce sempre di più, infatti l'avido si ritrova a volere sempre più di quel che ha, inoltre è un vizio che si accompagna a tanti altri, infatti essa è causa di guerre (violenza), intrighi (lussuria) e altre cose deprecabili. Questa meravigliosa descrizione dell'avidità ci introduce poi ad un altro magnifico passaggio, una delle profezie più oscure di tutta l'opera, quella del veltro. "infin che 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. / Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro." con queste parole Virgilio annuncia l'arrivo di questo veltro che distruggerà l'avidità. Il veltro è un veloce cane da caccia, è ovvia quindi la metafora del cane che stana e uccide la lupa. Virgilio predice poi che questo veltro non avrà né sete di potere né di denaro (il peltro è un'antica lega metallica usata nell'antichità cristiana per la produzione di strumenti di culto), si occuperà solo delle cose divine (sapienza, amore e virtù). Ciò che rende oscura la profezia è la provenienza del veltro, indicata nell'ultimo verso. Molte sono le interpretazioni date all'espressione "tra feltro e feltro": 
1) per alcuni critici come feltro si indica un rozzo panno di lana non tessuta, quindi Virgilio vorrebbe dire che sarà di origini umili;
2) per altri il feltro invece indica un panno di pregio usato per tappeti e cuscini, quindi significherebbe che sarà di origini nobili;
3) molti critici vedono invece un'indicazione geografica, per loro il poeta vorrebbe indicare che questo veltro nascerà tra Feltro e Montefeltro in Romagna;
4) altri vedono un'indicazione astrologica, i Dioscuri (Castore e Polluce) usavano infatti un berretto frigio di feltro, quindi l'espressione indicherebbe la costellazione loro dedicata nella volta celeste, quindi il veltro nascerà sotto la costellazione dei Gemelli.
Dopo la profezia, Virgilio spiega a Dante che per uscire dalla selva dovrà percorrere un cammino diverso. Gli annuncia che lo guiderà attraverso l'Inferno, dove sentirà i lamenti delle anime dannate per l'eternità, e il Purgatorio, dove troverà le anime che scontano la pena felici perché consapevoli che giungeranno al Paradiso. Gli spiega poi che sarà guidato in Paradiso da Beatrice, perché lui fu pagano e Dio non vuole consentirgli l'accesso nel regno dell'eterna beatitudine.
Dante segue Virgilio e inizia il suo viaggio.

Francesco Abate

venerdì 20 ottobre 2017

VI RACCONTO LA MIA POESIA "IL GIORNO IN CUI IL CUORE MI FU STRAPPATO"

Il giorno in cui il cuore mi fu strappato parla della fine di una lunga e profonda amicizia. 
Quando un rapporto sentimentale si chiude, sia che avvenga in modo traumatico o in modo più dolce, ci si aspetta di vivere una piccola morte. Si perde un pezzo di sé, una persona che è stata fondamentale per tanti anni di colpo sparisce. La poesia però racconta la sorpresa che io provai nel vivere una realtà ben diversa.
Il giorno in cui il cuore mi fu strappato
non il dolore della morte provai
ma la paura dell'albero giovane
sorpreso dal cambio di stagione.
Il giorno in cui si concretizzò la definitiva separazione tra me e la persona di cui parlo, al contrario di quel che mi sarei atteso, non provai angoscia. Ricordo ancora che mi sentivo spaesato, come chi inizia una nuova fase della propria vita, ma non c'era in me la profonda tristezza che mi sarei aspettato di provare.
non il freddo dell'Ade sentii addosso
ma la sorpresa del piccolo scoglio
che scopre di saper arginare il mare.
Tralasciando la citazione musicale contenuta nel pezzo trascritto sopra, qui esprimo la sorpresa che allora provai nell'accorgermi di riuscire ad affrontare il trauma della definitiva separazione senza cadere preda di un invincibile dolore. Quella forza il cui pensiero mi aveva sempre messo tanta paura, di colpo si rivelò alla mia portata.
La poesia si conclude con una riflessione, di fatto spiego come mai la fine di qualcosa che avrei voluto fosse eterno mi abbia fatto così poco male.
Piangiamo quando un corpo si raffredda
e venti funesti scuotono la nostra vita
ma quando la terra già copre tutto
il nostro calore ci riporta verso l'alto.
La fine di un rapporto può distruggerci, ma col tempo troviamo la forza di andare avanti e tornare alla normalità. Quella che appena subita sembra una ferita mortale, nel tempo si trasforma in una semplice cicatrice. Il tempo quindi è la chiave di tutto. Non soffrii tanto quanto avrei creduto perché il rapporto non morì in quel momento, era già morto da mesi ed avevo già avuto il tempo di metabolizzare il dolore. Quel giorno non finì la mia amicizia, fu solo ufficializzata una fine già avvenuta da tempo.
il giorno in cui il cuore mi fu strappato
scoprii che già non batteva più.

Qualora fosse interessati a leggere la poesia Il giorno in cui il cuore mi fu strappato, potete trovarla al link http://spillwords.com/il-giorno-in-cui-il-cuore-mi-fu-strappato/.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

venerdì 13 ottobre 2017

RECENSIONE DELLA "DIVINA COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI

Tanti anni dopo la fine del liceo, ho deciso di leggere per intero la Divina Commedia di Dante Alighieri. Come per tutti gli altri libri, mi divertirò adesso a lasciare un commento. Non mi impegnerò in una descrizione dell'opera e dei suoi contenuti, operazione in cui si sono cimentati e si cimentano personaggi decisamente più preparati e capaci, il mio intento è quello di rendervi partecipi delle impressioni che questa lettura ha suscitato in me.

La Divina Commedia non è solo la prima grande opera scritta in volgare, caratteristica che già da sola la veste di un'importanza immensa, ma è un grande classico del pensiero. Leggendo questo poema mi sono immerso nelle idee che una grande mente ha prodotto meditando sulla filosofia, sulla teologia e sulla politica del suo tempo. La Divina Commedia non è una semplice opera letteraria, racchiude al suo interno tutto ciò che riguarda le scienze umane. Viaggiando con Dante attraverso l'oltretomba, il lettore conosce lentamente i fatti storici degli anni in cui il poema fu scritto, le travagliate vicissitudini politiche, il pensiero filosofico e teologico ed anche i cruenti fatti di sangue. L'opera principale di Dante non va letta solo da chi vuole conoscerla, può essere un buon punto di partenza per approfondire un periodo storico molto turbolento e gli sconvolgimenti socio-politici causati dallo scontro tra il papato e l'impero. Per me è stato impossibile leggere questo poema senza approfondire lo scontro tra i guelfi e i ghibellini, giusto per fare un esempio. Dopo averla letta, credo che la Commedia nell'intenzione di Dante dovesse essere una fotografia di tutto ciò che riguardava l'umanità ai suoi tempi: il pensiero, la cosmologia, le vicende storiche, i sentimenti, i giudizi e la religione. Ovviamente in quest'opera la religione assume un ruolo di primo piano, nonostante io non sia credente ho però trovato anche quest'aspetto molto interessante. Dante ha una visione religiosa tutt'altro che banale, fonda la sua fede sul pensiero di importanti filosofi e non è per niente tenero con la chiesa che si dimostra corrotta e concentrata solo sull'accumulo di ricchezze. Nonostante fosse un credente convinto, sono sicuro che il giudizio del poeta sulla chiesa sia condiviso da tutti quelli che la religione l'hanno abbandonata proprio a causa dei continui scandali creati dal clero. Non solo il pensiero religioso è però al centro del viaggio dantesco, anche un sentimento molto più umano come l'amore svolge un ruolo di primo piano, basti ricordare che tutto il viaggio nasce dall'amore di Beatrice che si muove per tirare fuori dalla selva oscura il povero Dante.
Per i motivi che ho scritto sopra, credo che oggi sia fondamentale far leggere questo poema agli studenti. Trattandosi di un'opera ricca di contenuti, essa può servire a stimolare nei ragazzi di oggi, spesso troppo superficiali nei giudizi, delle riflessioni profonde su temi importanti. Leggere la Divina Commedia sarebbe il primo passo per ribellarsi alla società utilitaristica, che vuole convincerci dell'inutilità di tutto ciò che non sia finalizzato alla produzione, così da trasformarci in gusci vuoti adatti solo a fungere da ingranaggi nella grande catena di montaggio. 
La lettura della Divina Commedia non è comunque motivata solo dalla profondità dei contenuti. Si tratta pur sempre di un poema scritto da uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, quindi anche il risultato estetico è ottimo. I versi sono più aspri, a volte addirittura conditi da qualche parolaccia, nell'Inferno, poi nel Purgatorio e nel Paradiso diventano sempre più raffinati man mano che il poeta si avvicina a l'amor che move il sole e l'altre stelle. Con la sua abilità nel costruire i versi, il poeta ci mostra l'animo umano travolto dalle passioni e la sua piccolezza di fronte all'immensità del cosmo.

Nel paragrafo precedente ho spiegato perché ho gustato con piacere la lettura della Divina Commedia, adesso vorrei invece capire come mai gli studenti spesso non riescano ad amarla.
Come tutte le opere dense di contenuti, il poema di Dante non si presta ad una lettura disattenta e superficiale e ciò nella nostra società, sempre più frenetica e frettolosa, viene percepito come un grosso difetto. Lo studente dovrebbe studiare il canto o il poema, però vuole passare il tempo facendo altro e di certo non può cogliere la grandezza dei versi che ha davanti leggendoli di corsa o copiando un commento da internet. Purtroppo il primo sforzo deve arrivare dallo studente stesso, senza la voglia di prendere qualcosa dalla lettura non si può apprezzare un capolavoro.
Se gli studenti hanno le loro colpe, non del tutto innocenti sono molti docenti. Come capita per molte opere letterarie spiegate a scuola, spesso il professore è del tutto incapace di comunicare la grandezza dell'opera, riducendosi così a recitare le solite nozioni che da generazioni impariamo a scuola. Forse i professori dovrebbero prima di tutto spiegare perché un'opera del genere andrebbe letta, poi dovrebbero spingere gli studenti a pensare, facendo prima leggere e commentare loro il canto, poi spiegandogli cosa vede lì la critica. In questo modo una semplice lezione può diventare un momento di confronto che può diventare gratificante e appassionare sia studenti che docenti.

Da ragazzo amai l'Inferno e invece odiai il Purgatorio e il Paradiso, oggi invece posso dire di averli amati tutti e tre. Le ragioni di questo cambiamento le vedo nella mia maturazione. Da ragazzo ero più impulsivo e nutrivo un'ostilità accesa nei confronti di tutto quello che è spirituale, quindi amai l'Inferno in cui il poeta si concentra molto sull'umanità e le sue distorsioni, sui vizi e sui desideri di vendetta, sui sentimenti per niente puri. Per un giovane completamente avverso alla spiritualità era impossibile amare il Purgatorio, dove diventa più forte l'argomento teologico, e il Paradiso, dove questo è dominante. Adesso le cose sono cambiate. Pur non avendo fede, amo ragionare su tutto ed a nulla sono ostile a priori, quindi ho accettato di buon grado anche la lettura delle idee riguardo la fede del poeta. Devo riconoscere che in molti casi ho dovuto ricorrere all'aiuto del commento perché la mia cultura filosofica non è particolarmente vasta, ma ho provato piacere nel confrontarmi con un modo diverso di vedere riguardo un argomento così profondo pur non condividendolo. Forse questa può essere un'altra ragione per cui dovremmo far leggere la Divina Commedia ai ragazzi: imparare a comprendere un punto di vista diverso, e magari avverso, al nostro. Io non sono d'accordo con la visione filosofica sostenuta da Dante, è stato però bello per me conoscerla e adesso mi sento molto più ricco. Questa è la differenza tra un buon libro e un capolavoro: il primo intrattiene e basta, il secondo arricchisce in modi che il lettore neanche immagina a inizio lettura.

Ho tanto gradito la lettura della Divina Commedia e tanto mi piacerebbe promuoverne la lettura che nelle prossime settimane commenterò, uno ad uno, tutti i canti del poema. Ovviamente non mi è possibile garantire una regolarità nei tempi delle varie pubblicazioni a causa di impegni diversi, ma lentamente li commenterò tutti. Lo farò non con la pretesa di insegnare qualcosa, anche perché ben poco so e mi limiterò a dare quelle poche nozioni che ho appreso, ma sperando di invogliare qualcuno a leggere il poema e ragionarci su.

Francesco Abate


martedì 3 ottobre 2017

"IL PREZZO DELLA VITA" E IL GENERE LETTERARIO

Quando un autore presenta il proprio romanzo ad una o più persone, che si tratti di un'occasione ufficiale oppure di una chiacchierata tra amici, la prima domanda che si sente fare è: "che genere è?". Quella riguardo al genere è una domanda fatta molto comunemente e con grande leggerezza, ma spesso non è di facile risposta.
Vi sono moltissimi romanzi che senza problemi possono essere raggruppati in un'unica categoria, ma non sempre tale operazione è semplice. Quando si parla di un romanzo che nasce con lo scopo di sviluppare un concetto, di stimolare una riflessione nel lettore su uno o più temi, diventa molto complicato stabilirne il genere e spesso chi ha fatto la domanda che ho detto sopra, si sente semplicemente rispondere "un romanzo".
Uso come esempio Il Prezzo della Vita. Nel romanzo sono mostrate le vicende del ricco Antonio Baldi e dei personaggi che ruotano intorno alla sua vita. Man mano che la storia si svolge, mi sono preoccupato di mostrare le riflessioni dei personaggi e le ripercussioni psicologiche delle cose che fanno o che gli capitano. Considerando ciò, potrei dire che si tratti di un romanzo psicologico, infatti luoghi e tempi della vicenda passano in secondo piano mentre tutta l'attenzione è focalizzata sull'interiorità dei personaggi. Nonostante sia una conclusione esatta, io la trovo insoddisfacente. Quando parliamo di romanzi psicologici, ci vengono alla mente dei libri (grandissimi) dove la trama stessa è spesso debole perché non importa la vicenda, ma il vissuto dei protagonisti. Ne Il Prezzo della Vita però non è così, la trama c'è ed è avvincente, sia perché sono convinto che attirando l'attenzione del lettore sia più semplice fargli assimilare il messaggio del libro, sia perché la vicenda stessa contiene un insegnamento. La psicologia dei personaggi nel romanzo ha un ruolo fondamentale, ma non è l'unica vera protagonista. In questo romanzo c'è anche una tenera storia d'amore, cosa che non ne fa però un romanzo rosa, ed è un'opera che descrive un malessere sociale e che per certi versi potrebbe anche essere definita romanzo sociale.
Il ragionamento che ho fatto sopra ha uno scopo ben preciso. Io generalmente sono contrario all'attribuzione di etichette alle opere artistiche. Quando sento parlare di generi letterari o generi musicali, mi viene l'orticaria. Ovviamente riuscire a raggruppare le opere artistiche può aiutare il potenziale fruitore nella scelta, per esempio io che non amo le storie sdolcinate rifuggo i romanzi rosa, nonostante abbia adorato Anna Karenina che per lunghi tratti sembrerebbe esserlo, ma non può e non deve essere il motivo dominante della scelta. Un'opera artistica seria (escludo quindi libri, quadri o canzoni fatti per vendere, cioè figli di calcoli commerciali) non può essere di un solo genere, essa è infatti specchio dell'animo dell'autore e non può essere monotematica. Quando io devo scegliere quale libro acquistare, non mi soffermo a capire di quale genere sia, cerco di capire attraverso la lettura del quarto di copertina di cosa parla. Quando devo scegliere quale disco acquistare, cerco di informarmi di cosa parla quello che sto valutando e magari ascolto una o due canzoni. Il contenuto è ciò che conta, non l'etichetta che appiccichiamo addosso l'opera.

Ho voluto condividere con voi questa riflessione semplicemente per rendervi partecipi di una mia idea riguardo l'arte e la letteratura a cui tengo molto, infatti da sempre sostengo che l'eccessiva attenzione per la classificazioni in generi stia uccidendo l'arte. Non si può racchiudere qualcosa di complesso e potente in una definizione di due parole. Leggendo questo articolo inoltre capirete perché, quando qualcuno mi chiede il genere del mio romanzo, io sorrido e dico: "romanzo".

Vi ricordo che Il Prezzo della Vita può essere ordinato al link http://www.csaeditrice.it/index.php?keyword=Il%20Prezzo%20della%20Vita&x=8&y=16&limitstart=0&option=com_virtuemart&view=category&lang=it, in tutte le librerie ed anche in quelle online. Attualmente può essere acquistato con lo sconto del 15% sul sito de La Feltrinelli e del 10% su Mondadori Store. 
Potete seguire la mia attività su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese" (https://www.facebook.com/FrancescoAbatescrittore/?fref=ts) e su Twitter seguendo l'account "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Fin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con Matrimonio e Piacere. Il Prezzo della Vita è il primo romanzo pubblicato per CSA Editrice. Pubblica anche poesie sul sito Spillwords.com. Si dedica anche alla sceneggiatura e alla regia di cortometraggi.