lunedì 16 luglio 2018

COMMENTO AL CANTO XXXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

<< Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira >>,
disse 'l maestro mio, << se tu 'l discerni >>.
Il XXXIV canto dell'Inferno si apre con queste parole di Virgilio. Le prime tre formano il primo verso di un inno alla Croce, chiamato appunto Vexilia Regis, che la Chiesa canta nei vespri del tempo della Passione e nelle feste dell'Invenzione e dell'Esaltazione della Croce. Il poeta mantovano alle parole dell'inno aggiunge inferni, trasformando il significato da "avanzano i vessilli del re" ad "avanzano i vessilli del re dell'Inferno". I vessilli a cui si riferisce Virgilio sono le ali di Lucifero. Alcuni commentatori nel paragone tra le ali del primo angelo ribelle e le bandiere hanno visto un intento ironico, ma ciò sembrerebbe stridere con la figura drammatica del re dell'Inferno; oggi sembra aver prevalso la convinzione che l'uso dell'espressione latina presa da un canto sacro sia servita all'autore per creare il tono solenne idoneo a introdurre una figura tanto importante. Virgilio segnala a Dante che si avvicinano le ali del re dell'Inferno e lo invita a guardare davanti se riesce, infatti le tenebre sono fitte. Come quando scende la nebbia o cala la notte, il poeta riesce appena a intravedere quello che ha davanti, gli sembra un mulino che crea vento roteando le sue pale. Il vento è forte ed è costretto a ripararsi dietro la sua guida, perché ""non li era altra grotta". In un momento dove la realtà è tanto oscura da apparire incomprensibile, all'uomo non resta altro da fare che aggrapparsi alla ragione, unico vero riparo dall'errore. Si trovano adesso dove i dannati sono completamente immersi nel ghiaccio, apparendo "come festuca in vetro", somigliano cioè a un fuscello di paglia rinchiuso nel vetro. Iniziando la descrizione di questa nuova zona del Cocito, l'autore scrive che "con paura il metto in metro": sta per descrivere qualcosa di così grande da fargli nuovamente percepire l'inadeguatezza delle sue capacità umane. Sotto il ghiaccio ogni dannato è in posizione diversa ("Altre sono a giacere; altre stanno erte, / quella col capo e quella con le piante; / altra, com' arco, il volto a' piè rinverte").
Arrivati a una distanza da cui è possibile vedere Lucifero, Virgilio si scosta da Dante e gli lascia libera la visuale, dicendogli che quello è Dite e questo è il luogo dove è necessario che raccolga a sé tutta la sua forza. Il poeta viene pervaso dal terrore, una sensazione così forte e al di là dell'umana comprensione che sarebbe impossibile da spiegare. Non muore e non resta in vita, resta come in uno stato sospeso tra le due condizioni ("Com' io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, / però ch'ogne parlar sarebbe poco. / Io non mori' e non rimasi vivo; / pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, / qual io divenni, d'uno e d'altro privo"). Il corpo di Lucifero è conficcato nel ghiaccio ed è tanto grande da non essere misurabile, le sue sole braccia sono ben più grandi dei giganti. Osservandolo, il poeta si lascia andare a una considerazione: se fu tanto bello quanto ora è brutto, e se osò addirittura sfidare Dio, allora è giusto che da lui discenda ogni male. Con grande meraviglia Dante osserva che la sua testa ha tre facce: quella centrale è rossa, quella di destra è un bianco giallastro, quella di sinistra è nera. Gli studiosi si sono soffermati molto sull'interpretazione dei colori delle facce di Lucifero: per Del Lungo sono i colori degli uomini nei tre continenti allora conosciuti (Europa, Asia e Africa), quindi rappresentano la presenza nell'Inferno di anime provenienti da tutto il mondo; per Buti invece rappresentano ira, avarizia e accidia; per altri sono una contrapposizione alla Trinità divina. Le facce si uniscono al centro della testa, dove alcuni volatili hanno la cresta, e arrivano fino alla metà di ciascuna spalla. Sotto ogni faccia escono due grandi ali di pipistrello e il loro movimento genera il vento forte e freddo che gela le acque dell'intero Cocito. Lucifero piange dai suoi sei occhi e dalle sue tre bocche cola bava insanguinata, lacrime e saliva rossa si mischiano e colano. In ogni bocca c'è un peccatore che viene dilaniato. Il dannato dilaniato nella bocca centrale viene colpito anche con graffi tanto violenti da lasciargli a volte la schiena priva di pelle.
Virgilio spiega a Dante che l'anima a cui è riservata la pena peggiore appartiene a Giuda Iscariota, il quale è l'unico ad avere la testa dentro le fauci di Lucifero e le gambe fuori; gli altri due, che pendono a testa in giù dalle bocche, sono Bruto, dilaniato dalla testa nera, e Cassio, assegnato a quella giallastra. Nell'ultima zona del Cocito, chiamata Giudecca proprio in riferimento a Giuda, sono puniti i traditori dei propri benefattori. I tre dannati che vediamo nel canto però hanno fatto qualcosa di ben peggiore, qualcosa che gli vale la pena peggiore che esiste nell'universo: essi tradirono l'Impero (Bruto e Cassio, che ordirono la congiura contro Giulio Cesare) e la Chiesa (Giuda, che tradì Gesù Cristo). Essi hanno cospirato contro i pilastri dell'umanità, potere temporale e spirituale, sono per questo puniti dalla fonte stessa di ogni male del mondo, Lucifero. 
Dopo aver detto al discepolo chi siano i peccatori dilaniati da Dite, Virgilio dice che è tempo di andar via perché tutto è stato visto dell'Inferno. Dante si avvinghia al collo del maestro, il quale aspetta il momento in cui le sei ali raggiungono la massima apertura e si arrampica lungo i fianchi di Lucifero, usando i folti peli come appiglio. Arrivati dove la coscia si unisce all'anca, essendo il centro della Terra, la discesa dei pellegrini si trasforma di colpo in una risalita e Dante crede che stiano tornando indietro. Ansando a causa della forza di gravità, che in quel punto è al massimo, il maestro dice al suo allievo di tenersi forte perché è necessario andar via dall'Inferno, poi passa attraverso uno spazio creatosi tra Lucifero e la roccia, depone Dante sull'orlo dell'apertura di una grotta, infine si stacca dai peli del demonio e lo raggiunge. A questo punto il poeta vede le gambe capovolte di Lucifero, il quale è infisso nel centro della Terra, e una vista tanto diversa dello stesso mostro visto poco prima lo confonde. La sua guida però gli mette fretta e lo esorta a mettersi di nuovo in cammino, così ripartono. L'autore ci tiene a spiegare che non è un cammino paragonabile alla passeggiata in un palazzo, il suolo è infatti dissestato e non c'è luce. Dante è però confuso e chiede una spiegazione al suo maestro, chiede dove sia il lago ghiacciato, come Lucifero possa essere piantato nel terreno sottosopra e come si possa in così poco tempo essere passati dalla notte al giorno. Il maestro gli spiega che nel momento in cui sono passati dalla discesa alla salita hanno superato il centro della Terra, adesso sono in una zona dell'altro emisfero che corrisponde come posizione alla Giudecca. In questo emisfero è giorno quando nell'altro è notte e Lucifero è fisso nel terreno così come cadde dai cieli quando fu sconfitto dagli angeli fedeli a Dio. Quando fu scagliato dal Paradiso, la terra per paura si ritirò ed emerse nell'emisfero dove sono gli esseri umani, lasciando il mare al suo posto. Virgilio e Dante si incamminano e percorrono una distanza pari a quella dell'intero Inferno, seguendo il suono di un ruscello (il Lete). La frase con cui si conclude questo cammino ci dice molte cose: "E quindi uscimmo a riveder le stelle". Quando Virgilio ha esortato Dante a riprendere il cammino, gli ha detto che "già il sole a mezza terza riede", cioè che il sole è sorto già da un'ora e mezza. Essendo mattina in quell'emisfero, è improbabile che i due pellegrini abbiano visto le stelle. L'ultimo verso ci descrive il senso di liberazione provato dall'anima del poeta, passato dalla totale oscurità mista alle più svariate facce del male alla quiete di un cielo stellato. Il verso ci racconta la liberazione di un'anima in pena, immersa nelle sofferenze, che torna in uno stato di libertà e ne prova sollievo.

La figura di Lucifero domina questo canto, è la massima espressione del peccato e della degradazione che esso produce, diventa quindi quasi una sintesi di tutto quello che l'autore ci ha raccontato in questa cantica. Dante per la sua opera riprende la tradizione della grande ribellione degli angeli, guidata appunto da Lucifero, il quale osò paragonarsi a Dio e scatenò una guerra nei cieli, finendo sconfitto dall'arcangelo Michele e scagliato fuori dal Paradiso. Ci racconta Virgilio che, una volta caduto sulla terra, il suolo stesso si ritirò per non stare a contatto con lui, formando l'emisfero delle terre emerse e l'Inferno.
Il Lucifero di Dante è la massima espressione della degradazione causata dal peccato. L'angelo più bello di tutti è ridotto a un mostro con tre facce e le ali di pipistrello, confitto nel terreno a testa in giù. Dilania nelle sue tre bocche i peggiori peccatori del mondo, ma anche quest'azione è meccanica più che voluta, lui che si ribellò a Dio è adesso uno strumento della sua giustizia. La grande superbia dell'angelo ribelle è completamente mortificata, è solo un esecutore della volontà divina. Egli comprende la sua condizione e ne soffre, infatti piange dai suoi sei occhi. 
In tutta la prima cantica Dante ci ha raccontato di uomini disumanizzati, ridotti come le bestie, imprigionati per l'eternità dal peccato che li ha condannati. Lucifero è l'espressione più alta di questa condizione, la dimostrazione più evidente delle conseguenze dell'allontanamento dalla grazia divina. 

Col canto XXXIV si chiude la prima cantica della Divina Commedia. Questa è l'unica delle tre a essere composta da trentaquattro canti, le altre due ne hanno solo trentatré. La somma dei canti dell'intera opera è cento, il primo però va inteso come un'introduzione, infatti descrive la situazione morale del poeta che porta all'inizio del suo viaggio nell'oltretomba.

Francesco Abate

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