Già era 'l sole a l'orizzonte giunto,
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov' i' era, de la bella Aurora,
per troppa etate divenivan rance.
Il canto II della seconda cantica della Divina Commedia si apre con una bellissima descrizione dell'aurora, la quale ci permette di comprendere anche dove sia geograficamente situata la montagna del Purgatorio secondo la cosmologia dantesca. Il sole è giunto all'orizzonte, il suo cerchio meridiano sovrasta Gerusalemme, mentre la notte, che segue un cammino diametralmente opposto per la volta celeste, esce fuori dal fiume Gange insieme alla costellazione della Bilancia, la quale cessa di accompagnarla nell'equinozio d'autunno perché diventa più lunga della durata del giorno ("quando soverchia"). Da questi versi introduttivi è possibile concludere che quando a Gerusalemme il sole tramonta, sulla montagna del Purgatorio sorge: c'è quindi una differenza di dodici ore tra la città posta al centro dell'emisfero boreale e la montagna. L'aurora già cambia colore e passa al giallo oro. I poeti sono sulla riva del mare come i pellegrini, i quali con la mente sono in viaggio e col corpo restano fermi ad aspettare ("come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora"). D'un tratto Dante vede venire dal mare una luce rossastra simile a quella del pianeta Marte quando si trova a occidente nel momento dell'aurora. Questa luce si muove a una velocità che in volo nessun animale può raggiungere, il poeta distoglie lo sguardo un attimo per chiedere lumi a Virgilio e subito, tornato a guardarla, la vede più lucente. Man mano che la luce si avvicina, il poeta distingue solo un indefinita figura bianca. Virgilio tace e non risponde alla sua domanda finché non si distinguono nella figura bianca delle ali, a quel punto riconosce il nocchiero che guida l'imbarcazione e dice al discepolo di inginocchiarsi e assumere un atteggiamento di preghiera, infatti l'angelo "sdegna li argomenti umani", cioè li conduce in un viaggio dove la ragione degli uomini non serve, è necessaria solo la fede. L'angelo si avvicina e la sua figura si fa più chiara, anche se l'occhio può osservarlo fino a un certo punto perché troppo luminoso: giunge a riva con un'imbarcazione così leggera da non affondare minimamente nell'acqua del mare. Il nocchiero sta a poppa e sul suo viso sembrano esserci i segni che lo identificano come una creatura beata. Nella barca ci sono più di cento anime che cantano ad alta voce il salmo 113 ("In exitu Israel de Aegypto"). Questo salmo nell'antichità veniva cantato nel momento in cui si trasportava una salma nel luogo sacro, volendo simboleggiare il suo viaggio verso la Gerusalemme celeste. L'angelo fa alle anime il segno della croce, queste scendono sulla spiaggia e lui va via veloce com'è venuto. Sbarcate sulla spiaggia, le anime si guardano intorno come gli stranieri giunti in un luogo sconosciuto. La luce del giorno è ormai piena, le anime chiedono a Dante e Virgilio di indicare loro la via per la montagna, ma il poeta mantovano spiega che sono nuovi del posto come loro, che sono arrivati lì da poco per una via così difficile che farà sembrare un gioco la scalata della montagna ("... << Voi credete / forse che siamo esperti d'esto loco; / ma noi siam peregrin come voi siete. / Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, / per altra via, che fu sì aspra e forte, / che lo salire ormai ne parrà gioco >>"). Le anime intanto si accorgono che Dante è vivo perché lo vedono respirare, così impallidiscono e gli si accalcano intorno, dimenticando per un momento la meta del loro cammino.
Una delle anime esce dalla calca e abbraccia il poeta con tanto calore da spingerlo a ricambiare il gesto, ma le sue mani gli tornano al petto perché è solo un'ombra, non un corpo. Così come prima le anime si meravigliavano del respiro di Dante e del fatto che fosse lì ancora in vita, così ora lui è sorpreso nel constatare l'inconsistenza della gente che lo circonda. L'anima si rende conto della sua sorpresa e si ritrae da quell'abbraccio impossibile, ma il poeta lo segue. Nel momento in cui l'anima parla, Dante capisce di chi si tratta e lo prega di restare un po' a parlare con lui. Si tratta di Casella, musicista fiorentino o pistoiese morto poco prima del 1300, il qualche fu amico di Dante e musicò alcune sue canzoni. Casella ricorda che gli volle bene in vita e dichiara di volergli bene ancora ora, si ferma, ma chiede perché l'amico sia su quella spiaggia. Il poeta gli risponde che fa questo viaggio per tornare di nuovo a essere vivo, poi gli chiede perché sia ancora lì e gli venga sottratto del tempo utile per espiare le proprie pene. Casella gli spiega che nessun torto gli viene fatto, l'angelo decide chi può imbarcarsi e quando, ma non secondo il proprio arbitrio, bensì secondo la volontà divina che è sempre giusta. Più volte gli ha negato il passaggio, ma da tre mesi egli ha accolto sulla barca numerose anime purificate dalle indulgenze del Giubileo e tra queste c'è anche lui. Adesso l'angelo è diretto verso le rive del Tevere, dove raccoglie le anime purificate dalla chiesa di Roma, per poi tornare su quella spiaggia, perché non scende mai verso l'Acheronte, non trasportando anime dannate ("... << Nessun m'è fatto oltraggio, / se quei, che leva quando e cui gli piace, / più volte m'ha negato esto passaggio; / ché di giusto voler lo suo si face: / veramente da tre megli elli ha tolto / chi ha voluto intrar, con tutta pace. / Ond'io, ch'era ora a la marina volto / dove l'acqua di Tevero s'insala, / benignamente fu' da lui ricolto. / A questa foce ha elli or dritta l'ala, / però che sempre quivi si ricoglie / qual verso Acheronte non si cala >>"). A questo punto Dante chiede all'amico, se le leggi divine non l'hanno privato del talento che ebbe in vita, di cantargli qualcosa così da consolarlo del terribile viaggio che ha sostenuto per arrivare fin lì. Casella non si lascia pregare e intona Amor che ne la mente mi ragiona, canzone commentata nel terzo trattato del Convivio dello stesso Dante Alighieri. Tanta è la dolcezza del canto che sgombra la mente di tutti, compreso Virgilio. Le anime sembrano aver dimenticato il loro cammino, il poeta mantovano e il suo discepolo si distraggono dal viaggio che ancora hanno da compiere. L'arrivo di Catone riporta tutti con la mente ai propri doveri, egli prima li rimprovera chiamandoli "spiriti lenti" poi li incita ad andare a liberarsi di quelle colpe che non gli consentono l'accesso al Paradiso. A questo punto tutti tornano al proprio cammino e si disperdono, come i colombi che, mentre sono raccolti a cibarsi di biada o loglio, si allontanano dal pericolo perdendo il loro andamento pettoruto. Come le anime, anche Dante e Virgilio riprendono il loro cammino. ("Come quando, cogliendo biada o loglio, / li colombi adunati alla pastura, / queti, sanza mostrar l'usato orgoglio, / se cosa appare ond'elli abbian paura, / subitamente lasciano star l'esca, / perch'assaliti son da maggior cura; / così vid'io quella masnada fresca / lasciar lo canto, e gire ver la costa, / com' om che va, né sa dove riesca; / né la nostra partita fu men tosta"). Descrivendo la folla che si disperde, il poeta li indica col termine "masnada", che allora però non aveva significato dispregiativo e quindi va inteso con il significato di "famiglia" o "gruppo".
Francesco Abate
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