Buio d'inferno e di notte privata
d'ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant'esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo,
come quel fummo ch'ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l'occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s'accostò e l'omero m'offerse.
Il canto XV era terminato coi poeti avvolti nel denso fumo nella cornice degli iracondi. Questo canto inizia con due similitudini che ci permettono di avere un'idea precisa di questo fumo. Dante usa due tipi di similitudini, una ultraterrena e l'altra terrena: il buio dell'Inferno (che lui ha vissuto in prima persona) e quello di una notte priva di stelle non sono tanto oscuri quanto il fumo che li avvolge. Tanto è denso che l'occhio non riesce a restare aperto. Virgilio, la guida esperta e fidata, si rende conto della difficoltà patita dal suo protetto e gli offre la spalla a cui poggiarsi. L'autore procede come un cieco, appoggiato alla guida che gli raccomanda di non lasciarlo. Torna l'immagine dell'uomo cieco e della guida che lo accompagna attraverso le insidie; vediamo di nuovo l'importanza della ragione che, attraverso le virtù cardinali, porta l'uomo fuori dall'oscurità ("Sì come cieco va dietro a sua guida / per non smarrirsi e per non dar di cozzo / in cosa che 'l molesti, o forse ancida, / m'andava io per l'aere amaro e sozzo, / ascoltando il mio duca che diceva / pur: << Guarda che da me tu non sia mozzo >>"). Il poeta non vede, ma sente delle voci, ciascuna delle quali prega l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Gesù Cristo) affinché doni loro pace e misericordia. Non è un caso che le anime preghino per pace e misericordia, che si possono considerare due virtù opposte all'ira, che in sé racchiude violenza e condanna. Le voci intonano la formula dell'Agnus Dei ("Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo...") e sono così coordinate da dire ciascuna la stessa parola, tanto da sembrare che si fossero accordate tra loro.
Dante chiede a Virgilio se le voci sono delle anime e questi gli risponde che sono gli spiriti che scontano lì il peccato d'ira. Il loro colloquio è interrotto da un'anima la quale chiede al poeta chi sia, esprimendo poi la sua sorpresa nel vederlo rompere il fumo con la sua presenza, nel sentirlo rivolgersi alle anime della cornice come se non ne facesse parte e come se misurasse il tempo ancora in mesi, cioè come se fosse ancora vivo. La guida esorta Dante a rispondere e chiedere se da quella parte si sale su alla prossima cornice. Il discepolo segue l'indicazione e invita l'anima, che sconta la sua pena per tornare pura al cospetto di Dio ("che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece"), a seguirlo così da udire cose meravigliose. Lo spirito risponde che lo seguirà fin quanto gli sarà lecito, non possono vedersi ma la voce permetterà loro di restare vicini. Dante spiega di essere ancora vivo, in possesso del corpo che la morte dissolverà ("quella fascia che la morte dissolve"), di essere arrivato lì passando per l'Inferno; data la spiegazione, invita l'interlocutore a presentarsi e a dirgli se è sulla strada giusta per salire, in nome del Dio che tanto amore prova per lui da concedergli di accedere al Paradiso in modo così insolito. L'anima dice di chiamarsi Marco e di essere stato Lombardo, ebbe profonda esperienza delle cose umane e amò le virtù che adesso nessuno più coltiva ("del mondo seppi, e quel valore amai / al quale ha or ciascun disteso l'arco"). Una volta presentatosi, Marco dice al poeta che continuando per quella strada arriverà alla cornice superiore, infine gli chiede di pregare per lui una volta che sarà in Paradiso. Sull'identità di Marco Lombardo non si hanno notizie certe. Per alcuni commentatori fu un uomo di corte originario della Lombardia, per altri Lombardo fu il cognome ed ebbe origini venete. Sulle origini vi sono notizie contrastanti, ma in tutte le storie antiche in cui compariva un Marco Lombardo o un "Marco lombardo", questi era uomo di corte. Per alcuni critici fu anche alla corte del conte Ugolino della Gherardesca a Pisa. Se sulle origini vi sono informazioni contrastanti, per tutti egli fu esempio di valore e saggezza.
Sentite le parole di Marco Lombardo, Dante si impegna con un giuramento a pregare per lui, poi gli manifesta un dubbio che già aveva e che ora, dopo averlo ascoltato, è raddoppiato ("Prima era scempio, e ora è fatto doppio / ne la sentenza tua..."): il mondo dei vivi è così privo di virtù e pieno di malizia, alcuni credono che a causare ciò siano i corpi celesti, altri la volontà umana, lui vorrebbe sapere dallo spirito che l'accompagna quale sia la verità. Marco Lombardo emette un profondo sospiro che a causa del dolore diventa un lamento ("Alto sospir, che duolo strinse in << uhi! >>"); soffre nell'affrontare la causa della sparizione delle virtù da lui tanto ammirate, ma non rifiuta di esprimere il suo giudizio. Prima di tutto afferma che il mondo è cieco così come il poeta: gli uomini vedono negli astri la causa di ogni cosa, ma se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio e non si potrebbe giudicare un uomo per il bene o il male commesso. Dai cieli proviene solo l'impulso primo alle azioni umane, e non a tutte le azioni, ma se anche gli astri influenzassero ogni azione umana, l'uomo ha comunque la ragione che permette di discernere il bene dal male e il libero volere di scegliere tra questi; la battaglia per scegliere il bene è dura all'inizio, ma se intelletto e arbitrio sono ben nutriti si finisce per vincerla. L'uomo è libero schiavo della forza di Dio, schiavo perché non può liberarsene e libero perché tale forza non impone nulla, ma dona l'anima che permette di sfuggire all'influsso degli astri quando questo conduce al male. Se il mondo ha imboccato la strada della perdizione non è colpa dei corpi celesti, ma degli uomini. Marco Lombardo continua la spiegazione per passaggi logici, ma stavolta abbandona la rigidità schematica della prima parte e si lascia andare a un linguaggio più poetico ed evocativo. L'anima esce dalle mani di Dio priva di esperienza, semplice e incline a piegarsi a ciò che le procura piacere, si fa attrarre dalle lusinghe dei beni materiali e dietro questi corre senza la guida di una legge positiva e di un'autorità ("Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore"). Per guidare l'anima è perciò necessario avere una legge e un re che, se non capace di riconoscere Dio, può almeno riconoscerne la giustizia ("convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre"). Le leggi ci sono, afferma, ma non c'è l'imperatore e per questo manca chi possa farle rispettare; il papa può fungere da guida spirituale, ma non è in grado di distinguere il bene dal male nelle leggi terrene. Riferito al papa, Lombardo dice che "'l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l'unghie fesse". In questa metafora il pastore è ovviamente il pontefice, meno immediato è il riferimento alle unghie "fesse". Nel Deuteronomio e nel Levitico è riferita la prescrizione mosaica di poter mangiare solo quei ruminanti che hanno l'unghia del piede divisa in due lobi da una fenditura (ecco spiegato il termine "fesse"), alcune interpretazioni di questa legge vedono nei due lobi tra loro divisi una rappresentazione della divisione che c'è tra bene e male. San Tommaso vedeva nei due lobi la distinzione dei due Testamenti della Bibbia, la distinzione delle due nature di Cristo e la capacità di discernere il bene e il male, mentre nel ruminare vedeva la capacità di meditare sulle Scritture e comprenderle. Molto probabilmente Dante fa riferimento proprio alla concezione di San Tommaso, quindi attraverso Marco Lombardo ci dice che Bonifacio VIII era sì in grado di comprendere la legge divina (ruminare), ma non di distinguere il bene dal male (manca delle unghie fesse). La gente, continua a spiegare l'anima, vede la sua guida spirituale inseguire i beni materiali e di essi si sazia senza curarsi d'altro. Lombardo a questo punto usa come esempio Roma, la quale creò una civiltà giuridicamente unificata e in pace ("Soleva Roma, che 'l buon mondo feo") dove erano due soli: uno illuminava la strada della felicità terrena, l'altra quella della felicità spirituale. Il papa ha però spento la guida terrena, combattendo l'impero e cercando di tenere per sé tutto il potere, impossessandosi dell'autorità civile oltre che di quella religiosa ("L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale"), e da qui nasce la confusione che regna nel mondo. Per rafforzare il concetto espresso, l'anima indica un esempio della corruzione e sceglie la Lombardia e la Marca Trevigiana ("In sul paese ch'Adice e Po riga"), dove regnavano valore e cortesia prima che iniziassero le lotte tra Federico II e il papato, e dove ora vi sono solo birbanti che si vergognano di ragionare con le persone buone. In quelle terre restano solo tre vecchi in cui regna ancora la vecchia virtù, essi sperano di morire a breve tanta è la vergogna provata per la situazione attuale. Questi tre sono: Corrado da Palazzo (capitano di parte guelfa a Firenze prima, poi podestà di Piacenza, fu uomo politico molto apprezzato), Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso) e Guido da Castello (ghibellino cacciato dalla sua città, Reggio Emilia, che trovò rifugio a Verona). Guido da Castello è conosciuto dai francesi come "semplice Lombardo", dove "semplice" è l'equivalente di simple, che significa "modesto, leale". Marco Lombardo conclude dicendo che la chiesa, accentrando in sé entrambi i poteri, si getta nel fango e disonora sé stessa e il potere imperiale.
Dante apprezza la spiegazione dell'anima e dice di capire adesso perché i discendenti di Levi, destinati dalla missione sacerdotale, furono esclusi dall'eredità delle terre di Canaan (gli furono preclusi i beni materiali). Detto ciò, gli chiede maggiori informazioni su Gherardo da Camino, indicato dall'anima come esempio di virtù ancora in vita. Marco Lombardo si meraviglia della richiesta perché sente l'accento toscano di Dante e immagina che egli abbia notizie di Gherardo, visto che era in rapporto con il fiorentino Corso Donati, dice che di lui sa solo che ha una figlia di nome Gaia. Il colloquio si conclude con l'anima che saluta il poeta dicendo "Dio sia con voi" e si congeda perché il fumo inizia a diradarsi e si vede biancheggiare l'alba; lui deve allontanarsi prima che l'angelo lo veda.
Anche questo canto ha argomento prettamente politico. Dante usa la figura di Marco Lombardo per esporre la teoria dei "due soli", secondo la quale potere temporale e spirituale devono essere divisi, e per cui papato e impero devono avere pari dignità. La teoria si contrappone a quella teocratica che vuole tutto il potere nelle mani del papa, con un imperatore investito dal pontefice e sottomesso alla sua autorità.
Secondo Dante la corruzione politica e morale del tempo nasceva proprio dall'accentramento dei due poteri nelle mani del pontefice, mancava la guida temporale che si occupasse del rispetto delle leggi, mentre la figura del papa, impegnato nell'acquisizione di beni materiali, ne usciva moralmente insudiciata.
Sentite le parole di Marco Lombardo, Dante si impegna con un giuramento a pregare per lui, poi gli manifesta un dubbio che già aveva e che ora, dopo averlo ascoltato, è raddoppiato ("Prima era scempio, e ora è fatto doppio / ne la sentenza tua..."): il mondo dei vivi è così privo di virtù e pieno di malizia, alcuni credono che a causare ciò siano i corpi celesti, altri la volontà umana, lui vorrebbe sapere dallo spirito che l'accompagna quale sia la verità. Marco Lombardo emette un profondo sospiro che a causa del dolore diventa un lamento ("Alto sospir, che duolo strinse in << uhi! >>"); soffre nell'affrontare la causa della sparizione delle virtù da lui tanto ammirate, ma non rifiuta di esprimere il suo giudizio. Prima di tutto afferma che il mondo è cieco così come il poeta: gli uomini vedono negli astri la causa di ogni cosa, ma se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio e non si potrebbe giudicare un uomo per il bene o il male commesso. Dai cieli proviene solo l'impulso primo alle azioni umane, e non a tutte le azioni, ma se anche gli astri influenzassero ogni azione umana, l'uomo ha comunque la ragione che permette di discernere il bene dal male e il libero volere di scegliere tra questi; la battaglia per scegliere il bene è dura all'inizio, ma se intelletto e arbitrio sono ben nutriti si finisce per vincerla. L'uomo è libero schiavo della forza di Dio, schiavo perché non può liberarsene e libero perché tale forza non impone nulla, ma dona l'anima che permette di sfuggire all'influsso degli astri quando questo conduce al male. Se il mondo ha imboccato la strada della perdizione non è colpa dei corpi celesti, ma degli uomini. Marco Lombardo continua la spiegazione per passaggi logici, ma stavolta abbandona la rigidità schematica della prima parte e si lascia andare a un linguaggio più poetico ed evocativo. L'anima esce dalle mani di Dio priva di esperienza, semplice e incline a piegarsi a ciò che le procura piacere, si fa attrarre dalle lusinghe dei beni materiali e dietro questi corre senza la guida di una legge positiva e di un'autorità ("Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore"). Per guidare l'anima è perciò necessario avere una legge e un re che, se non capace di riconoscere Dio, può almeno riconoscerne la giustizia ("convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre"). Le leggi ci sono, afferma, ma non c'è l'imperatore e per questo manca chi possa farle rispettare; il papa può fungere da guida spirituale, ma non è in grado di distinguere il bene dal male nelle leggi terrene. Riferito al papa, Lombardo dice che "'l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l'unghie fesse". In questa metafora il pastore è ovviamente il pontefice, meno immediato è il riferimento alle unghie "fesse". Nel Deuteronomio e nel Levitico è riferita la prescrizione mosaica di poter mangiare solo quei ruminanti che hanno l'unghia del piede divisa in due lobi da una fenditura (ecco spiegato il termine "fesse"), alcune interpretazioni di questa legge vedono nei due lobi tra loro divisi una rappresentazione della divisione che c'è tra bene e male. San Tommaso vedeva nei due lobi la distinzione dei due Testamenti della Bibbia, la distinzione delle due nature di Cristo e la capacità di discernere il bene e il male, mentre nel ruminare vedeva la capacità di meditare sulle Scritture e comprenderle. Molto probabilmente Dante fa riferimento proprio alla concezione di San Tommaso, quindi attraverso Marco Lombardo ci dice che Bonifacio VIII era sì in grado di comprendere la legge divina (ruminare), ma non di distinguere il bene dal male (manca delle unghie fesse). La gente, continua a spiegare l'anima, vede la sua guida spirituale inseguire i beni materiali e di essi si sazia senza curarsi d'altro. Lombardo a questo punto usa come esempio Roma, la quale creò una civiltà giuridicamente unificata e in pace ("Soleva Roma, che 'l buon mondo feo") dove erano due soli: uno illuminava la strada della felicità terrena, l'altra quella della felicità spirituale. Il papa ha però spento la guida terrena, combattendo l'impero e cercando di tenere per sé tutto il potere, impossessandosi dell'autorità civile oltre che di quella religiosa ("L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale"), e da qui nasce la confusione che regna nel mondo. Per rafforzare il concetto espresso, l'anima indica un esempio della corruzione e sceglie la Lombardia e la Marca Trevigiana ("In sul paese ch'Adice e Po riga"), dove regnavano valore e cortesia prima che iniziassero le lotte tra Federico II e il papato, e dove ora vi sono solo birbanti che si vergognano di ragionare con le persone buone. In quelle terre restano solo tre vecchi in cui regna ancora la vecchia virtù, essi sperano di morire a breve tanta è la vergogna provata per la situazione attuale. Questi tre sono: Corrado da Palazzo (capitano di parte guelfa a Firenze prima, poi podestà di Piacenza, fu uomo politico molto apprezzato), Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso) e Guido da Castello (ghibellino cacciato dalla sua città, Reggio Emilia, che trovò rifugio a Verona). Guido da Castello è conosciuto dai francesi come "semplice Lombardo", dove "semplice" è l'equivalente di simple, che significa "modesto, leale". Marco Lombardo conclude dicendo che la chiesa, accentrando in sé entrambi i poteri, si getta nel fango e disonora sé stessa e il potere imperiale.
Dante apprezza la spiegazione dell'anima e dice di capire adesso perché i discendenti di Levi, destinati dalla missione sacerdotale, furono esclusi dall'eredità delle terre di Canaan (gli furono preclusi i beni materiali). Detto ciò, gli chiede maggiori informazioni su Gherardo da Camino, indicato dall'anima come esempio di virtù ancora in vita. Marco Lombardo si meraviglia della richiesta perché sente l'accento toscano di Dante e immagina che egli abbia notizie di Gherardo, visto che era in rapporto con il fiorentino Corso Donati, dice che di lui sa solo che ha una figlia di nome Gaia. Il colloquio si conclude con l'anima che saluta il poeta dicendo "Dio sia con voi" e si congeda perché il fumo inizia a diradarsi e si vede biancheggiare l'alba; lui deve allontanarsi prima che l'angelo lo veda.
Anche questo canto ha argomento prettamente politico. Dante usa la figura di Marco Lombardo per esporre la teoria dei "due soli", secondo la quale potere temporale e spirituale devono essere divisi, e per cui papato e impero devono avere pari dignità. La teoria si contrappone a quella teocratica che vuole tutto il potere nelle mani del papa, con un imperatore investito dal pontefice e sottomesso alla sua autorità.
Secondo Dante la corruzione politica e morale del tempo nasceva proprio dall'accentramento dei due poteri nelle mani del pontefice, mancava la guida temporale che si occupasse del rispetto delle leggi, mentre la figura del papa, impegnato nell'acquisizione di beni materiali, ne usciva moralmente insudiciata.
Francesco Abate
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