mercoledì 22 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Al risveglio dallo svenimento causatogli dalla triste condizione di Paolo e Francesca, Dante si rende conto di essere circondato da "novi tormenti e novi tormentati" e non vede altro ovunque si volti. Il poeta si trova nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. I dannati destinati al terzo cerchio, avendo dedicato la loro vita al buon bere ed al buon mangiare senza misura, sono tormentati da una eterna pioggia lurida e sono essi stessi pasto della bestia Cerbero. Loro che amarono i buoni sapori, sono immersi in una pozza nauseabonda e puzzolente, inoltre amarono mangiare e per questo sono mangiati. Cerbero è una creatura che la mitologia greca e romana ponevano a guardia della porta infernale, è citato anche nel mito di Orfeo (che lo addormenta col suono della sua lira) e in quello di Ercole (che lo uccide). Anche Virgilio lo inserì nell'Eneide, allorquando Enea scende negli Inferi e viene aiutato a superare la bestia dall'intervento della Sibilla. Dante ci descrive il terribile Cerbero come una bestia dalle tre teste, "Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani", che scuoia e squarta i poveri dannati che gli capitano a tiro. Il poeta ci descrive il dramma dei golosi: urlano come cani, perdendo completamente la loro umanità; cercano di farsi scudo con altre anime, per evitare la pioggia lurida e i colpi di Cerbero; si voltano ora da un lato ora dall'altro in cerca di un momentaneo conforto che non arriverà mai. 
Non appena Cerbero nota la presenza di Dante e Virgilio, inizia a ringhiare e ad agitarsi: "le bocche aperse e mostrocci le sanne; / non avea membro che tenesse fermo". Virgilio prende della terra sudicia dal suolo e la getta tra le sue fauci, la bestia con immensa avidità si preoccupa solo di divorare il suo pasto e Dante ci rende questa scena con un paragone: "Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, / e si raqqueta poi che 'l pasto morde, / ché solo a divorarlo intende e pugna, / cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona / l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde".
Dante e Virgilio camminano passando sopra le anime abbattute dalla pioggia lurida. D'improvviso una di loro chiede al poeta di riconoscerlo. L'anima in questione è quella di Ciacco, un concittadino del poeta, il quale crede di poter essere riconosciuto perché morì che Dante era già adulto, infatti gli dice: "riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto". Dante però non lo riconosce, si scusa con lui attribuendo questa sua incapacità al fatto che i lineamenti del suo viso sono alterati dalla sofferenza, e gli chiede di dirgli chi sia e perché sconti quella condanna. Ciacco si presenta subito con un'invettiva contro Firenze ("La tua città, ch'è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco"), poi indica il suo soprannome e spiega che gli fu affibbiato proprio per la golosità che l'ha condannato all'eternità. L'identità effettiva di Ciacco non è nota, nell'opera compare solo col soprannome che come sostantivo nella Firenze antica voleva dire "porco", anche se nel canto Dante non lo usa mai in senso dispregiativo e per questo molti critici lo intendono come nome proprio effettivo. Dante, saputo che Ciacco è un suo concittadino, gli chiede informazioni riguardo il futuro di Firenze. In questo canto abbiamo quindi le prime predizioni del futuro (ricordiamo che Dante ambienta la Divina Commedia in un periodo antecedente l'anno in cui la scrisse, quindi le predizioni narrano fatti che già erano storia) e arrivano per bocca di Ciacco. Le lunghe tensioni tra guelfi Bianchi e Neri scaturiranno in un fatto di sangue (presumibilmente uno scontro tra le due fazioni in piazza S.Trinità la sera del calendimaggio del 1300), la parte Bianca ("la parte selvaggia", perché capitanata dalla famiglia dei Cerchi, che provenivano dal contado) vincerà e nel giugno del 1301 i Neri verranno privati degli uffici civili ed espulsi dalla città, subendo anche delle ammende pecuniarie. I Neri però tireranno dalla loro parte Bonifacio VIII, già interessato alla conquista di Firenze, e il suo intervento li porterà di nuovo al governo della città, con la conseguente cacciata dei Bianchi. Ciacco poi allude al lungo periodo in cui governeranno i Neri e all'esilio che toccherà ai Bianchi: "Alte terrà lungo tempo le fronti, / tenendo l'altra sotto gravi pesi, / come che di ciò pianga o che n'aonti". Il suo discorso Ciacco lo conclude con un'amara sentenza, dice che "Giusti son due" e che i cuori sono accesi da superbia, invidia e avarizia. Sull'espressione "Giusti son due" ci sono due diverse interpretazioni: per alcuni indica che la giustizia è nel diritto naturale e in quello legale, in contrapposizione ai mali che invece governano la disputa, altri invece ritengono sia semplicemente un modo per far capire che di persone davvero giuste ce ne fossero pochissime. Sentita la predizione, Dante gli chiede notizia di alcuni personaggi politici noti, Ciacco gli spiega che sono più giù nell'Inferno perché colpevoli di peccati più gravi. Il dialogo si conclude con una preghiera, Ciacco infatti prega Dante di fare in modo che i fiorentini lo ricordino, infine gli dice di non chiedere più nulla perché più a niente risponderà.
Finito il dialogo, Virgilio spiega a Dante che le anime resteranno lì finché non vi sarà la venuta di Cristo, dopo la quale riprenderanno il loro corpo e la figura mortale e con essi ascolteranno il Giudizio Universale ("quel ch'in etterno rimbomba"). Dante a questo punto chiede se i loro tormenti, dopo il giudizio ultimo, cresceranno o diminuiranno. Virgilio richiama alla mente di Dante la filosofia aristotelica ("Ritorna a tua scienza") secondo cui più una cosa è perfetta, più sente il bene e il male. L'unità corpo e anima porta perfezione, quindi una volta che si saranno congiunti al loro corpo, i dannati patiranno ancor di più ciò che già stanno patendo. Finito questo discorso, i poeti scendono al quarto cerchio.

Per concludere il commento, voglio rapidamente spiegare come possano le anime provare dolore, pur non abitando più un corpo. La questione verrà trattata da Dante stesso nel canto XXV del Purgatorio, ma essendo che qui già vediamo anime soffrire per la pioggia e le zampate di Cerbero, è giusto fare chiarezza. Per Dante, quando una persona muore, la potenza sensitiva dell'anima rientra nella virtù informativa, in quella vita che aveva potenzialmente nel seme dell'uomo. La virtù informativa forma quindi una sorta di immagine visibile dell'anima capace di provare le stesse sensazioni che il corpo provava in vita. Se ci pensate, questa teoria permetterebbe anche di spiegare l'esistenza dei fantasmi, ma questo non c'entra niente con la Divina Commedia.

Francesco Abate         

Nessun commento:

Posta un commento

La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.