sabato 25 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto VII dell'Inferno è uno dei più enigmatici dell'intera Divina Commedia. Il verso con cui si apre, il celebre "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" pronunciato da Pluto, appare criptico ed è stato interpretato nei modi più disparati. Già riguardo la lingua con cui si esprime il demone non c'è certezza, per alcuni la frase deriva dal latino, per altri dal greco, altri ancora leggono derivazioni da termini ebraici o arabi, c'è perfino chi pensa si tratti di un miscuglio di lingue diverse. Se le opinioni riguardo la lingua usata sono molteplici e discordanti, sul significato è anche peggio: per alcuni è un'invocazione a Satana, per altri una minaccia a Virgilio e Dante, per altri ancora un'espressione di stupore. Tanti critici autorevoli nel corso dei secoli hanno dato un'interpretazione originale a quest'espressione, riportare nel dettaglio tutte le teorie richiederebbe molto tempo e quindi non posso farlo qui. Per chi fosse interessato ad approfondire la questione, c'è un'ampia pagina ad essa dedicata sul sito della Treccani. Io in breve posso dirvi che le opinioni sono tante e tutte molto ben motivate, sia riguardo la lingua usata da Pluto sia sul significato delle parole, e di certo io non ho la preparazione culturale necessaria per stabilire quali siano più plausibili e quali meno. L'unica cosa che penso, e mi permetto di farla notare, è che a queste parole Virgilio risponde ricordando che il loro viaggio è voluto nei cieli, inoltre risponde anche con una certa veemenza, questo mi porta a pensare che quella di Pluto possa essere stata una minaccia fatta loro per impedirgli di proseguire oltre il loro cammino.
Le parole di Pluto sono enigmatiche, ma anche l'identità stessa del demone ha diviso i critici. Tutti siamo portati a pensare che Pluto sia Plutone, il dio degli inferi nella mitologia romana, ma pochi sanno che nella mitologia greca esisteva anche Pluto, dio della ricchezza. Essendo posto a guardia del cerchio in cui sono puniti avari e prodighi, cioè coloro che mal amministrarono le proprie ricchezze, sarebbe plausibile che il demone sia Pluto. Eppure se oggi lo conosciamo poco è perché già in epoca romana fu oscurato dal suo più celebre semi-omonimo (Plutone) e molti ritengono che Dante stesso non conoscesse la sua esistenza, optando quindi per l'idea che il demone che qui appare è Plutone. In fondo, essendo relegato negli inferi, anche al dio Plutone nella mitologia fu associata la ricchezza, infatti regnava nel sottosuolo e i metalli pregiati derivano da miniere poste sotto terra. Anche in questo caso, entrambe le teorie sono corrette. C'è inoltre da considerare che, in quanto divinità regnante sugli inferi, la figura di Plutone avrebbe avuto più senso identificarla con Lucifero, da Dante però il signore dell'Inferno è sempre chiamato Dite. Anche in questo caso le teorie sono diverse e tutte potenzialmente valide.
Il canto si apre quindi coi due poeti al quarto cerchio, alla cui guardia c'è Pluto. Alle parole del guardiano di cui ho detto sopra, Virgilio risponde bruscamente: gli intima di tacere e gli spiega che il viaggio è voluto nell'alto dei cieli ("Non è senza cagion l'andare al cupo: / vuolsi ne l'alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo"). La risposta di Virgilio è dura sia nei toni, inizia infatti con l'imperativo "taci", sia nei modi, infatti nel citare il Paradiso ricorda al demone la vittoria dell'arcangelo Michele su Lucifero. In pratica Virgilio lo zittisce e gli fa capire che deve farsi da parte per volere di chi sconfisse lui e il suo signore. La guida di Dante poi si rivolge al guardiano chiamandolo "maledetto lupo", egli infatti è a guardia del cerchio dove è punita l'avidità, già in precedenza identificata con la lupa. Pluto è sconfitto dal discorso di Virgilio e cade a terra come le vele di una nave quando l'albero maestro si spezza.
Superata l'opposizione di Pluto, Dante vede i dannati costretti nel quarto cerchio e si abbandona ad un'amara riflessione: "Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa / nove travaglie e pene quant'io viddi? / e perché nosta colpa sì ne scipa?". Dante è sgomento di fronte alla giustizia divina che mette insieme pene e travagli, poi si chiede come possa l'essere umano cedere alle tentazioni che lo portano ad una condizione tanto miserabile. Agli occhi di Dante ci sono gli avari e i prodighi, cioè sono puniti insieme coloro che tennero per sé le ricchezze e coloro che le sperperarono. Ai dannati in questo cerchio tocca trascinare dei massi: come in vita si affaticarono a raccogliere oro, per l'eternità si affaticheranno a trascinare i massi. I dannati tanto sono numerosi che si scontrano più volte nel corso del loro tragitto lungo il cerchio, quando c'è l'urto succede che l'avaro chieda al prodigo perché abbia sprecato le ricchezze ("Perché burli?") e di rimando si senta chiedere perché le abbia tenute solo per sé ("Perché tieni?"). Vista la loro condizione, Dante chiede al suo maestro quale pena essi stiano scontando e se quelli che vede rasati siano tutti uomini di chiesa. Virgilio, per spiegargli che sono avari e prodighi, dice che essi furono ciechi che in vita non videro mai il giusto modo di spendere. Quando fa riferimento alle domande che si scambiano tra loro, la guida definisce le loro voci un abbaiare, continuando l'identificazione tra avidità e lupo, infine spiega a Dante che tra questi dannati vi sono chierici, cardinali e perfino papi. Dante a questo punto ritiene di poter riconoscere qualcuno tra queste anime, ma Virgilio gli spiega che non è possibile perché il loro peccato li fa bruni, cioè li rende irriconoscibili. 
Il discorso con cui Virgilio spiega a Dante che non può riconoscere alcun dannato in questo cerchio si conclude con un insegnamento, gli spiega che tutti i beni dovuti alla fortuna che ci sono sulla Terra non potrebbero dare un po' di risposo nemmeno ad una di queste anime stanche. Dante si aggancia a questo discorso per chiedere cosa sia questa fortuna che ha tutti i beni del mondo tra gli artigli ("tra le branche"). Virgilio spiega quindi cosa sia la fortuna: Dio creò i cieli e i Motori (le Intelligenze) che li muovono e riflettono in ogni parte di essi la luce divina, ordinò poi un'Intelligenza a cui spetta il compito di permutare i beni terreni da una persona all'altra secondo logiche poste al di sopra delle leggi e delle ragioni umane. La guida spiega poi che spesso gli umani maledicono la fortuna, ma ella non se ne cura. 
Finito di spiegare la fortuna a Dante, Virgilio lo accompagna nel quinto cerchio. Per arrivarci i poeti passano sopra una sorgente che riversa le sue acque in un fossato. Sono arrivati nella palude del fiume Stige, il secondo fiume infernale. Questo corso d'acqua forma un pantano fangoso in cui sono immerse anime nude dal volto che tradisce rabbia ("con sembiante offeso"). Sono al cospetto degli iracondi, coloro che in vita si lasciarono vincere dall'ira. La loro punizione consiste nel azzuffarsi come bestie nello Stige, non possono infatti usare le mani, quindi si colpiscono tra loro con la testa, col petto, coi piedi e addirittura azzannandosi. Virgilio spiega a Dante quale colpa stiano espiando i dannati immersi nel fiume, gli dice poi che ce ne sono altri completamente immersi, la cui presenza è rivelata solo dalla presenza delle bolle sulla superficie. I dannati immersi completamente, spiega la guida, sono coloro che furono iracondi repressi, cioè covarono dentro la rabbia e i desideri di vendetta senza mai passare all'azione. Virgilio attribuisce a queste anime le seguenti parole: "Tristi fummo / ... / portando dentro accidioso fummo". Per capire questo passaggio è necessario ricordare che san Tommaso, nel Commento all'Etica, divise gli iracondi in: acuti, che sono coloro che manifestano subito l'ira; amari, che nascondono la rabbia dentro; difficili, che coltivano pensieri di vendetta senza mai metterli in pratica. Alle ultime due categorie, gli amari e i difficili, san Tommaso accostò il carattere della tristezza, ecco perché Dante fa dire agli iracondi, che si tennero dentro l'accidioso fummo (si ricordi che l'accidia è la mancanza di azione), "Tristi fummo". L'immagine che Virgilio regala a Dante è realisticamente cruda, egli infatti riporta le parole dei dannati immersi nello Stige, ma poi dice che queste parole "si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra ", cioè gli sono rotte dall'acqua dello Stige che gli entra in gola.
Il canto si chiude coi due poeti che percorrono il cerchio guardando le acque del fiume, finché non giungono ai piedi di una torre.

Francesco Abate

Nessun commento:

Posta un commento

La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.