mercoledì 7 marzo 2018

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Il canto XIX si apre con un'invettiva contro Simon mago, personaggio la cui vicenda è narrata negli Atti degli Apostoli: battezzato da Filippo, chiese poi a Pietro e Giovanni di ricevere il dono di conferire lo Spirito Santo, offrendo in cambio un compenso in denaro. Per il Cristianesimo, Simon mago fu il primo eretico e da lui prende il nome il peccato di simonìa, cioè il commercio di cose sacre o anche di beni terreni che abbiano acquisito carattere sacro (ad esempio i benefici ecclesiastici). L'incipit del canto ci fa capire che i poeti sono arrivati nella terza bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono appunto puniti i simoniaci. Già da questi primi versi è inoltre comprensibile come tale peccato sia per l'autore particolarmente odioso, infatti inizia subito attaccando il primo che lo commise.
Dante e Virgilio sono arrivati proprio sopra la terza bolgia e Dante vede come sono puniti i simoniaci. Lo spettacolo non impressiona e non muove a pietà il poeta, come capitato in altre occasioni, semplicemente produce nel suo animo una lode alla giustizia divina: "O somma sapienza, quanta è l'arte / che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, / e quanto giusto tua virtù comparte!". Il fondo e le pareti della bolgia presentano delle buche circolari e di uguale grandezza. Per rendere l'idea di come appaiano le buche, Dante le paragona ai pozzetti che erano presenti nella Battistero di San Giovanni a Firenze e che servivano per permettere di conferire più battesimi allo stesso tempo, fungevano quindi da fonti battesimali in cui erano immersi i bambini. Nella sua descrizione, l'autore cita anche un episodio che lo riguarda, accaduto qualche anno prima della stesura della Commedia: dovette romperne uno per salvare un bambino, identificato dai critici come Antonio Baldinaccio dei Cavicciuoli, che vi stava annegando. Il riferimento al salvataggio non è motivato dalla voglia di essere lodato, il poeta infatti lo scrive per cancellare un equivoco, per smentire chi credeva che l'avesse fatto in segno di disprezzo ("e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni"). Dalle buche della bolgia escono fuori i piedi e i polpacci dei peccatori che vi sono infissi, il resto del corpo è invece all'interno e non si vede. Sui piedi arde il fuoco, a causa del dolore le gambe guizzano così forte che potrebbero spezzare funi e corde ("Fuor de la bocca a ciascun soperchiava / d'un peccator li piedi e de le gambe / infino al grosso, e l'altro dentro stava. / Le piante erano a tutti accese intrambe; / per che sì forte guizzavan le giunte, / che spezzate averien ritorte e strambe"). 
Osservando il tormento dei simoniaci, Dante nota due gambe che si agitano più di quelle degli altri peccatori, arse da un fuoco più rosso degli altri. Chiede spiegazioni a Virgilio, il quale si offre di farlo avvicinare al dannato così da poterci parlare. La guida dice che farà avvicinare Dante qualora lo voglia, il discepolo dal canto suo si affida totalmente al maestro e gli dice che lo farà solo se quest'ultimo lo ritiene necessario ("Tanto m'è bel, quanto a te piace"). I due pellegrini scendono sul fondo della bolgia e subito arrivano vicini al dannato che ha attirato il loro interesse. Dante chiede al peccatore di parlare, di raccontare la sua storia, ma anche adesso nelle sue parole non c'è pietà, sembra farsi beffe della sua condizione, evidenziando come sia infisso nel terreno come un palo e a testa in giù ("<< O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, / anima trista come pal commessa >>, / comincia' io a dir, << se puoi, fa motto. >>"). Il poeta si china per ascoltare il dannato e paragona la sua posizione a quella dei sacerdoti chiamati alla confessione in extremis di un condannato a essere sepolto vivo. Il dannato in questione è papa Niccolò III, che Dante colloca tra i simoniaci perché nell'unica elezione di cardinali da lui fatta, tre cardinali su nove furono scelti tra la sua famiglia, gli Orsini. Sentendo le parole di Dante, Niccolò III crede sia Bonifacio VIII ad essere caduto nella bolgia e si meraviglia di come ciò sia successo in anticipo rispetto a ciò che lui sapeva, papa Bonifacio VIII morì infatti nel 1303, tre anni dopo l'anno in cui si svolge il viaggio dantesco. Il dannato continua con un'invettiva nei confronti di quello che crede essere Bonifacio, accusandolo di aver preso con inganno la bella donna (la Chiesa) per poi distruggerla. Dante è confuso, non capisce e non sa cosa rispondere, Virgilio perciò lo esorta a dire di non essere chi il dannato crede. Il poeta esegue l'ordine, il dannato allora sospira (probabilmente deluso) e inizia a raccontare la sua storia. Racconta di essere stato papa ("fui vestito del gran manto"), di appartenere alla casata degli Orsini e di essere lì per aver favorito i suoi nipoti ("cupido sì per avanzar gli orsatti, / che su l'avere e qui me misi in borsa"). Rivela che sotto la sua testa vi sono i papi che prima di lui commisero il peccato di simonìa, li può vedere dalle fessure della pietra, e che presto lui scivolerà sotto perché in quella buca cadrà Bonifacio VIII. Niccolò III fa poi un'altra profezia: dopo Bonifacio VIII verrà in quella buca un altro papa ancora, un pastor sanza legge. Si riferisce a Clemente V, il papa che spostò la sede apostolica ad Avignone, quindi vendette la chiesa. Niccolò III conclude il suo discorso paragonando Clemente V al Giasone di cui è scritto nel libro dei Maccabei, che comprò il sacerdozio dal re di Siria, insinuando che il pontefice comprò la carica papale dal re di Francia. Alle parole di Niccolò III, Dante non risponde con pietà o rispetto, come ha fatto in precedenza con altri, bensì con un discorso carico di rabbia:
"Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu marte,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Dante si rivolge a Niccolò III, ma di fatto se la prende con tutta la Chiesa. Inizia ricordando che Dio non volle ricchezze da Pietro, gli chiese solo la fede, e che gli apostoli accolsero Mattia senza pretendere alcuna donazione in denaro. Dice poi al pontefice che quella punizione è giusta, con disprezzo lo invita a tenere d'occhio il denaro accumulato con le decime e usato per osteggiare le politiche di Carlo d'Angiò. L'invettiva è rabbiosa, addirittura dice che se il dannato non fosse stato capo della Chiesa in vita, userebbe parole ancor più aspre, perché l'avarizia di quei capi corrotti favorisce l'iniquità. Cita poi l'episodio dell'Apocalisse in cui Giovanni Evangelista vede la meretrice che si concede ai re, quindi la chiesa che si vende ai sovrani. Le sette teste con cui nacque la meretrice, quindi la Chiesa, rappresentano i sacramenti, mentre le dieci corna sono i dieci comandamenti. Egli accusa poi i pontefici di essere degli idolatri, con la differenza che per ogni idolo adorato dall'idolatro semplice loro ne adorano cento, si sono fatti un Dio d'oro e d'argento. L'invettiva si conclude poi con un richiamo a Costantino, il cui male non fu la conversione, ma la donazione fatta a papa Silvestro con cui gli conferì le prime ricchezze terrene (il famoso documento della "Donazione di Costantino" che poi si è rivelato un falso). Il pensiero di Dante riguardo la corruzione della Chiesa diventa chiarissimo con questa invettiva: i papi corrotti non meritano alcun perdono e hanno ridotto qualcosa di sacro a un triste scambio di favori.
Anche la descrizione del modo in cui pronuncia l'invettiva ("forte spingava con ambo le piotte") ci mostra la rabbia con cui Dante parla. Il poeta è convinto che alla sua guida piaccia il suo parlare, perché si tratta di cose vere. Virgilio comunque, come per riportare in sé il suo protetto e fargli svanire la rabbia, lo prende e lo stringe al petto. Insieme riprendono il cammino e giungono sopra la quarta bolgia.

Voglio concludere il commento con una riflessione. Considerando le critiche che spesso oggi si muovono alle istituzioni religiose, non parlo solo di quelle cristiane, appare lampante l'attualità del pensiero e dell'opera dantesca. Dante è un credente del Trecento, eppure già soffre nel vedere una Chiesa corrotta e attenta solo all'accumulo di ricchezze, gestita come un regno più che come una guida spirituale. 
Se il pensiero dantesco è attuale, una considerazione va fatta circa gli insegnamenti che esso ci può dare. Dante è un credente inquieto e, per certi versi, deluso. Non è però un credente passivo, non esita a criticare anche in termini molto aspri i pontefici. La sua però non è una critica sterile e rabbiosa, come quelle a cui siamo abituati oggi in tutti gli ambiti, egli infatti spiega cosa c'è che a suo modo di vedere non funziona e in altre sue opere ragiona anche circa il modo in cui la situazione andrebbe corretta. 
Ho voluto sottolineare questi aspetti perché credo siano un insegnamento fondamentale per noi che viviamo nell'epoca dell'urlo, dell'invettiva e dell'offesa sostituita alla critica. Dante può ancora insegnarci che ci può essere una terza via tra l'accettazione passiva della realtà e l'esplosione di rabbia, ci può essere la critica ragionata. Mi è piaciuto sottolineare questo aspetto. Questa riflessione è poi la migliore risposta che si possa dare a chi chiede quale sia l'utilità di studiare Dante o i classici in generale: certe opere immortali possono svegliarci e insegnarci di nuovo a pensare.

Francesco Abate

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