domenica 18 marzo 2018

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Di nova pena mi convien far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.
Arrivato alla quarta bolgia dell'ottavo cerchio, Dante con questi tre versi sembra quasi volersi fare coraggio. Mentre il canto XIX era iniziato con un'invettiva contro Simon mago, un'aspra critica che apriva un canto nel quale il poeta si è poi mostrato molto duro nei confronti dei simoniaci, questo si apre con un'introduzione che sembra quasi fatta per prendere tempo, come chi si accinge a raccontare qualcosa di raccapricciante. Così come nel canto XIX i versi aspri ci introducevano alla visione di un Dante arrabbiato, nel XX questo apparente temporeggiamento ci introduce alla contemplazione di uno spettacolo che colpisce molto il poeta e lo induce a provare pietà. Guardando in basso, Dante vede camminare una schiera di peccatori sul fondo bagnato dalle proprie lacrime. I dannati si muovono con lo stesso passo delle persone in processione per la remissione dei peccati. Il poeta rimane sconvolto quando si accorge che le anime hanno la testa torta all'indietro, con il volto dalla parte della schiena e l'occipite dal lato della pancia. Vista la posizione del loro volto, sono costretti a camminare all'indietro, davanti infatti non possono vedere. Dante ipotizza che essi non parlino perché impossibilitati a causa della posizione della testa, ma non ne è sicuro e lui stesso esclude questa ipotesi. Il poeta si rivolge poi al lettore:
"Se Dio ti lasci, lettore, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra immagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso".
L'autore chiede al lettore di comprendere la tristezza che nasce in lui nel vedere quelle immagini umane così stravolte, modificate al punto da bagnarsi le natiche con le lacrime che cadono dai loro occhi. La richiesta di comprensione è motivata dal fatto che tutto quello che vede nell'Inferno è frutto della giustizia divina, quindi i dannati non meriterebbero compassione, eppure quell'immagine così deturpata del corpo umano scuote la sensibilità del poeta. A questo punto interviene la sapienza, Virgilio, a rimproverare Dante e a spiegargli quanto sia giusto ciò che vede. L'intervento della guida è molto duro ("Ancor se' tu de li altri sciocchi?"), dice che l'unico modo per avere pietà di quelle anime è non averne ("Qui vive la pietà quand'è ben morta") e che nessuno è più scellerato di chi soffre guardando gli effetti della giustizia divina. La ragione ricorda quindi a Dante che, essendo quella punizione un'emanazione della volontà divina, va apprezzata e non sofferta. Per far comprendere meglio al suo protetto quanto quei dannati meritino la pena che stanno patendo, Virgilio inizia a elencare alcuni di loro e a narrarne le gesta. Il primo che indica è Anfiarao, uno dei sette re partecipanti all'assedio di Tebe, con fama di indovino, il quale fu inghiottito dalla terra mentre combatteva sotto le mura della città e finì all'Inferno. Indicando il primo peccatore, la guida ci fa capire che nella quarta bolgia sono puniti gli indovini, e spiega anche il motivo per cui sono condannati a tenere la testa ritorta all'indietro: vollero guardare troppo avanti in vita, cercando di vedere il futuro o la volontà superiore, così ora gli è concesso di guardare solo all'indietro ("Mira ch'a fatto petto de le spalle; / perché volse veder troppo davante, / di retro guarda e fa retroso calle"). Il secondo dannato che Virgilio indica è Tiresia, indovino di Tebe, il quale fu mutato in donna quando impedì a due serpenti di unirsi e ritornò uomo solo quando riuscì a far unire gli stessi due serpenti. Subito dietro Tiresia ("quel ch'al ventre li s'atterga") c'è Aronta, indovino carrarese chiamato a interpretare gli auspici del cielo subito dopo che Cesare ebbe varcato il Rubicone. C'è infine Manto, la figlia di Tiresia, che fuggì da Tebe per non essere colpita dal tiranno Creonte. 
La visione di Manto dà a Virgilio l'occasione di parlare a Dante delle origini di Mantova. Nei canti precedenti ci è stata già presentata l'origine di Firenze, adesso il mantovano Virgilio narra della nascita della sua città. Il discorso della guida è molto ricco di riferimenti geografici e storici. Dopo la morte di Tiresia e con la caduta di Tebe sotto Creonte, Manto fuggì e iniziò a girare per il mondo. Per descrivere il luogo in cui Manto si stabilì, Virgilio ricorre a una lunga descrizione che parte dal lago di Garda, passa per i fiumi Mencio e Po, finisce in una "lama" di terra paludosa che è il luogo dove oggi sorge Mantova. In questa palude si rifugiò Manto, con l'intenzione di stare lontana dalla gente, e trascorse la sua vita tra gli spiriti maligni e i sortilegi. Nel luogo dove lei visse e morì si trasferì poi della gente, senza nessun fine se non quello di avere un posto sicuro in cui vivere, e nacque la città che dall'indovina prese solo il nome. Il racconto la guida lo conclude citando un fatto storico, cioè la cacciata di Pinamonte de' Bonacolsi, signore della città. Virgilio infine invita il suo allievo a diffidare delle altre storie che circolano circa la fondazione di Mantova (una leggenda la voleva fondata da un figlio di Manto, un'altra dalla stessa indovina). Dante rassicura il maestro, gli dice che dopo aver ascoltato la sua versione quelle degli altri per lui possono essere solo "carboni spenti", gli chiede poi di indicargli altri dannati perché la sua mente gli ripropone sempre quel pensiero. Virgilio gli indica Euripilo, indovino dell'antica Grecia che, insieme a Calcante, indicò alle navi il momento opportuno per salpare. Dalle parole di Virgilio si evince che Dante conoscesse Euripilo grazie all'Eneide, infatti la guida dice: "Euripilo ebbe nome, e così 'l canta / l'alta mia tragedia in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta". Degli indovini che Virgilio mostra, Euripilo è l'ultimo della mitologia antica. La guida passa a mostrare quelli più recenti, perché astrologi e indovini erano molto in voga anche all'epoca di Dante (lo sono tutt'ora, a dire il vero). Passa Michele Scotto, medico e astrologo scozzese, il quale servì alla corte di Federico II; c'è poi Guido Bonatti, astrologo di Forlì, il quale servì diversi signori e il sovrano Federico II; poi arriva Asdente, soprannome dato in vita a un maestro calzolaio parmense di nome Benvenuto, che divenne però famoso come indovino. Indicando l'Asdente, Virgilio si lascia andare a un commento del tutto privo di pietà, ribadendo quanto un sentimento del genere non sia adatto a quelle anime: "vedi Asdente, / ch'avere intesto al cuoio e a lo spago / ora vorrebbe, ma tardi si pente". Indicando le donne che in vita furono dedite alle arti divinatorie, Virgilio commenta così: "Vedi le triste che lasciaron l'ago, / la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; / fecer malie con erbe e con imago". Alla fine la guida incita Dante a continuare il cammino, perché la Luna è già sull'orizzonte. Nell'indicare la Luna, fa riferimento alla leggenda che ravvisava nelle macchie lunari l'immagine di Caino, condannato a portare un fascio di spine sulle spalle per l'eternità ("Ma vienne ormai, ché già tiene 'l confine / d'amenue li emisperi e tocca l'onda / sotto Sobilia Caino e le spine"). Il riferimento alla Luna conferisce all'ambiente un tocco di magia che ben si abbina ai maghi e agli indovini ospitati nella bolgia. Dante, come molti uomini della sua epoca, subisce il fascino mitologico degli indovini e degli astrologi. Vediamo da un lato la durezza della ragione, rappresentata dall'intransigente Virgilio, dall'altro il magico fascino della Luna, che non abbandona il poeta nemmeno nel suo viaggio infernale.

Francesco Abate   

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