Forse semila miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Il canto XXX inizia con la sparizione alla vista di Dante del coro angelico e il poeta ce la racconta ricorrendo a una similitudine: gli angeli spariscono come le stelle col procedere dell'aurora (la chiarissima ancella). Questa descrizione occupa i primi 15 versi del canto e ricorre nei primi 9 a un riferimento di tipo astronomico, infatti l'autore dice che quando da qualche parte sulla Terra è l'alba, mentre a seimila miglia di distanza è mezzogiorno, e l'ombra del pianeta giace sul piano dell'orizzonte, l'atmosfera ('l mezzo del cielo) comincia a illuminarsi e le stelle spariscono una ad una fino alla più luminosa; per spiegare il riferimento alle seimila miglia, dobbiamo ricordare che Dante stimava la circonferenza della Terra in circa ventiquattromila miglia, percorse a mille miglia all'ora dal Sole (che gira intorno al pianeta in ventiquattro ore), per questo un fuso orario di sei ore era stimato in una distanza di seimila miglia. I cori angelici che perennemente ruotano festanti intorno a Dio (il triunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse), tanto da far sembrare che essi lo racchiudono, mentre in realtà è Lui che li racchiude (parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude), spariscono a poco a poco dalla vista di Dante come le stelle quando si approssima l'alba; non vedere più niente e l'amore per Beatrice lo spingono a volgere lo sguardo verso di lei.
Il poeta la vede così trasfigurata da rinunciare a descriverla, ci dice infatti che se tutto ciò che di Beatrice si è detto fosse contenuto in una sola lode, non basterebbe a riportarne la magnificenza; è trasfigurata in un modo che non solo è incomprensibile per l'intelletto umano, ma che probabilmente può essere compresa e amata appieno solo da Dio, quindi è addirittura al di sopra delle possibilità dell'intelletto angelico. L'autore si dichiara vinto, cioè non in grado di riportare efficacemente ciò che ha visto, ancor di più di quanto uno scrittore comico o uno di cose sublimi possano essere sovrastati da una difficoltà in un punto chiave della narrazione; perché, questa è l'origine della sua incapacità, al solo ricordare il dolce sorriso di Beatrice la sua mente si indebolisce e perde di efficacia, come la vista viene annullata dalla luce del sole. Dal momento in cui la vide per la prima volta sulla Terra, dichiara ancora l'autore, fino a ora nell'Empireo, non ha mai smesso di cantare la sua bellezza (non m'è il seguire al mio cantar preciso - preciso deriva dal latino e significa <<troncato>>), ma adesso è giusto che desista dal descriverne ancora lo splendore, consapevole di aver raggiunto il proprio limite e di non poter fare meglio.
Beatrice, la cui bellezza Dante lascia che sia descritta a una voce poetica più potente della sua (la lascio a maggior bando), con la voce e il comportamento di una guida sollecita spiega che sono usciti fuori dal Primo Mobile, il cielo più esteso, per entrare nell'Empireo, che è pura luce. Spiega ancora che la luce dell'Empireo è luce intellettuale, cioè l'intuizione di Dio, piena di amore del vero bene, a sua volta pieno della letizia che supera ogni dolcezza ("luce intellettual, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore"). Gli annuncia poi che nell'Empireo Dante vedrà entrambe le milizie del Paradiso, cioè i beati e gli angeli, e una la vedrà con le sembianze che avrà il giorno del Giudizio Universale (coi corpi terreni; si riferisce ai beati).
D'improvviso una luce molto intensa avvolge Dante e lo acceca con la sua intensità, così come un lampo improvviso priva l'occhio della sua capacità di tradurre in immagini la percezione. Questa folgorazione richiama alla mente quella che san Paolo subì sulla via di Damasco e che viene narrata negli Atti degli Apostoli. Mentre è abbagliato, la voce di Beatrice gli spiega che l'amore per cui l'Empireo resta immobile accoglie sempre così, in modo da rendere l'anima disposta ad ardere di carità come una candela. Bisogna fare un'osservazione sull'immobilità dell'Empireo: per i filosofi dell'epoca, che in questo si rifacevano ad Averroè, il movimento era generato da un bisogno, da un'imperfezione, e per questo Dante trova inconcepibile che il cielo dominato dalla luce di Dio possa essere soggetto a un qualsiasi movimento.
Dante ancora non ha ancora sentito le parole di Beatrice e già si accorge di avere superato le sue facoltà naturali; la sua forza visiva si riaccende con un vigore tale da poter sostenere qualsiasi luce di qualsiasi intensità. Con questa vista accresciuta riesce a vedere la luce nella forma di un fiume (rivera) fluente di fulgore in mezzo a due rive ornate di fiori primaverili. Dal fiume escono faville ardenti che vanno a mettersi tra i fiori, sembrando rossi rubini incastonati nell'oro, e poi vanno a rituffarsi nel fiume come se fossero inebriate dal profumo, e per ognuna che si tuffa ce n'è un'altra che esce fuori ("Di tal fiumana uscian faville vive, / e d'ogne parte si mettien ne' fiori, / quasi rubin che oro circunscrive; / poi, come inebriate da li odori, / reprofondavan sé nel miro gurge, / e s'una intrava, un'altra n'uscia fori"). Beatrice gli dice che il suo desiderio di avere informazioni riguardo lo spettacolo che sta osservando le piace tanto più quanto più è intenso, ma prima che possa sapere così tanto (prima che tanta sete in te si sazi) deve dissetarsi di quest'acqua di cui si sono dissetate le anime beate (di quest' acqua conven che tu béi); aggiunge poi che il fiume e le faville (i topazi) che da esso escono, così come i fiori ('l rider de l'erbe), sono solo anticipazioni offuscate del vero, e non perché siano di per sé imperfette, bensì è la vista del poeta a non essere ancora pronta a contemplare spettacoli così potenti.
Dante, per guardare meglio (per far migliori spegli ancor de li occhi), si avvicina più velocemente di quanto il bambino svegliatosi tardi si precipita (sì subito rua) verso il latte; si china su quel fiume, che scorre per rendere migliori gli uomini, e il suo corso gli appare circolare non appena la gronda delle sue palpebre (le ciglia) ha bevuto quelle acque (ha guardato meglio). Come le persone mascherate cambiano aspetto quando tolgono le maschere, così i fiori e le faville adesso appaiono a Dante nient'altro che le due corti del Paradiso: i beati e gli angeli.
L'autore interrompe un momento la narrazione e nella terzina 97-99 invoca lo splendore di Dio, grazie al quale ha potuto vedere il trionfo del regno della perfezione, affinché gli fornisca sufficiente virtù per descrivere tutto.
Lassù (nell'Empireo) c'è una luce che permette di vedere il Creatore a quella creatura che trova la sua pace solo nel vedere Lui. La luce si estende circolarmente (la figura circolare è segno di perfezione, eternità) ed è tanto ampia da essere troppo larga qualora cingesse il sole; essa è visibile grazie a un raggio che da Dio si riflette sulla sommità del Primo Mobile e gli conferisce il moto e la virtù (vivere e potenza). Come un colle si specchia nel lago che lo bagna alle pendici e si vede adorno quando è coperto di erba e fiori, così intorno alla luce vede specchiarsi su più di mille gradini le anime che hanno fatto ritorno in Paradiso. Se il gradino più basso raccoglie in sé una luce tanto grande, osserva Dante, sarà immensa la larghezza di questa rosa nei petali estremi (i gradini più alti). La sua vista riesce a cogliere tutta l'ampiezza e l'altezza della rosa, anche la quantità e la qualità dei beati. Lontananza e vicinanza, osserva ancora, lì nell'Empireo non aggiungono e non tolgono nulla, perché dove Dio governa direttamente le leggi naturali non hanno alcun valore.
Beatrice conduce Dante, il quale tace pur volendo parlare, nel giallo della rosa eterna (cioè al centro, dove il fiore ha gli stami), la quale si dilata e s'innalza in più gradi (si dilata e digrada), e diffonde profumo di lode al sole che forma l'eterna primavera (Dio). La guida invita il poeta a guardare quanto è numerosa l'assemblea di beati ('l convento de le bianche stole), quanto è grande la loro città, e quanti pochi scanni sono rimasti vuoti (secondo la tradizione, il mondo sarebbe durato sette millenni - perché Dio l'aveva creato in sette giorni - e sei erano già passati, perciò l'Apocalisse era vicina). Indica poi il gran seggio che sta guardando e su cui è posto una corona, gli spiega che lì, prima della morte di Dante, siederà l'anima augusta di Arrigo VII conte di Lussemburgo, che verrà a raddrizzare l'Italia prima che questa sia pronta ad accoglierlo. Dopo aver nominato Arrigo VII, Beatrice afferma che la cupidigia ha reso gli uomini simili a pargoli che muoiono di fame ma scacciano via la balia; sarà capo della Chiesa un tale (Clemente V) che si comporterà ambiguamente con Arrigo VII (palese e coverto non anderà con lui per un cammino). Dio però tollererà poco Clemente V sul seggio papale, così sarà gettato dove viene scontato il peccato di simonia e farà sprofondare più giù il papa di Anagni che l'ha preceduto (Bonifacio VIII).
L'argomento del canto XXX è quasi totalmente teologico, eccezion fatta per la conclusione in cui Beatrice eleva al rango di beato Arrigo VII e si scaglia contro chi ne ha ostacolato i disegni.
Arrigo VII scese in Italia con l'intenzione di unificarla sotto un unico impero da lui guidato ed ebbe proprio in Dante uno dei principali estimatori, ma la sua missione fallì a causa degli interessi contrastanti dei regnanti presenti sulla penisola e soprattutto a causa della politica ambigua di Clemente V.
Il canto mischia teologia e politica, perché l'accusa a papa Clemente V non ha solo l'intento di evidenziarne la malvagità, ma è anche un monito contro chi ostacola i disegni di Dio e il ritorno del potere temporale nelle mani di un unico imperatore.
Francesco Abate
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