lunedì 6 aprile 2020

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
L'ultimo canto della Divina Commedia inizia con la preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine Maria, affinché consenta a Dante di vedere Dio; alla preghiera sono dedicati i primi 39 versi. 
I primi 12 versi compongono un inno di lode e sottolineano il dogma della verginità e quello della maternità di Maria. San Bernardo la chiama appunto Vergine Madre, figlia e madre di Dio (figlia del tuo figlio), donna allo stesso tempo umile e più alta di tutte le altre creature, punto fisso della volontà di Dio perché centro della salvezza e della storia; le dice che ha nobilitato così tanto la natura umana, la quale era stata degradata dal peccato originale, che Dio non ha disdegnato di reincarnarsi attraverso lei. Nel ventre di Maria, continua il santo, si è riacceso l'amore tra Dio e le sue creature, quell'amore la cui conoscenza ha permesso agli uomini di diventare beati, facendo germogliare la Candida Rosa. La Vergine è per i beati una fiaccola che arde di carità con la stessa intensità del sole di mezzogiorno (se' a noi meridiana face di caritate), mentre giù tra i mortali è una viva fonte di speranza.
San Bernardo nei versi dal 12 al 39 passa alla richiesta della grazia. Si rivolge alla Vergine chiamandola Donna (che significa Signora, perché deriva dal latino domina) e dice che tanta è la sua grandezza da permettergli di paragonare a una persona che vuole volare senza ali colui che vuole una grazia e non ricorre a lei. Tanto è benigna che non si limita a soccorrere chi chiede il suo aiuto, ma spesso anticipa la preghiera. In lei si riuniscono misericordia, pietà, magnificenza, e tutta la bontà che può esserci in una creatura. Spiega che adesso Dante (Or questi) la supplica di concedergli la virtù sufficiente per osservare Dio (l'ultima salute), questo dopo aver viaggiato dall'Inferno (l'infima lacuna) fin lì e aver visto la condizione delle anime (le vite spirituali) dopo la morte. San Bernardo desidera che Dante veda Dio più di quanto abbia mai desiderato vederlo lui stesso, la prega perciò, e spera che le sue preghiere siano sufficienti, affinché Maria con la sua intercessione liberi gli occhi del poeta dai limiti dovuti alla sua condizione di mortale (ogne nube... di sua mortalità), così che possa godere del sommo bene (sommo piacer). Il santo chiede poi alla regina, la quale può ciò che vuole, che Dante dopo la visione conservi i suoi sentimenti (affetti) immuni dal male (sani); non è importante solo che il poeta s'immerga nella somma visione, ma la Vergine deve aiutarlo anche a perseverare nella grazia che ha ottenuto dal viaggio nell'aldilà una volta che questo sarà finito. San Bernardo conclude la preghiera con l'auspicio che la protezione di Maria possa vincere le tentazioni che insidiano l'uomo, infine dà forza alla sua richiesta dicendole che anche Beatrice e gli altri beati stanno pregando con lui ("Vinca la tua guardia i movimenti umani: / vedi Beatrice con quanti beati / per li miei preghi ti chiudon le mani!").
Lo sguardo di Maria fisso negli occhi di san Bernardo dimostra che la sua preghiera le è gradita; una volta che il santo ha finito di parlare (indi), lei fissa lo sguardo nella luce di Dio, dove non si deve credere che un'altra creatura possa far entrare lo sguardo tanto dentro quanto può lei ("indi a l'eterno lume si drizzaro, / nel qual non si dèe creder che s'invii / per creatura l'occhio tanto chiaro"). 
Dante sente avvicinarsi il momento finale del viaggio e, così come si conviene, porta l'ardore del suo desiderio al più alto grado d'intensità. Alcuni critici interpretano il verso 48 (l'ardor del desiderio in me finii) in modo diverso, ritenendo che il poeta, sentendosi vicino al traguardo, smetta di desiderare; altri invece leggono finii come portai a compimento, e io sono d'accordo con questa seconda interpretazione. 
San Bernardo, intuendo che la sua preghiera è stata accolta, sorride e fa cenno al poeta di guardare in alto, ma lui lo sta già facendo e la sua vista, che diventa più limpida, penetra sempre di più nel raggio della luce di Dio (l'alta luce che da sé è vera). Da questo momento la vista del poeta è superiore (maggio) a quello che la parola può esprimere: ciò che vede non può essere descritto a parole e nemmeno ricordato (cede la memoria a tanto oltraggio). Il poeta si paragona a colui che vede delle cose in sogno, poi quando si sveglia non ricorda le immagini, ma nell'animo gli restano le impressioni; il suo viaggio nell'oltretomba è quasi finito, ma ancora nel cuore conserva la dolcezza nata da ciò che ha visto. Il ricordo delle immagini si perde come si scioglie la neve al sole, e come si disperdevano nel vento i responsi della Sibilla cumana scritti sulle foglie (l'episodio è descritto nell'Eneide). L'autore si rivolge perciò alla somma luce di Dio, che tanto si innalza al di sopra delle facoltà dei mortali: le chiede di restituire alla sua memoria un po' di quello che gli ha fatto vedere e di dare abbastanza forza alla sua capacità di scrivere, così che possa lasciare ai posteri un poco (una favilla) della sua gloria, in modo che sia più comprensibile il trionfo di Dio. Tanto è intenso il raggio di luce da convincere l'autore che si sarebbe smarrito nella sua ascesa se avesse distolto lo sguardo da esso. Dante è più coraggioso nel sostenere la vista di quella luce così intensa, tanto da riuscire a congiungersi con Dio (valore infinito). A questo punto l'autore loda l'abbondante grazia che gli ha dato l'ardire di guardare la luce di Dio e gli ha permesso di farlo senza perdere la vista. 
All'interno della luce di Dio vede unito in un unico volume tenuto insieme dall'amore quello che normalmente vediamo disperso per l'universo (ciò che per l'universo si squaderna): sostanze (ciò che esiste in ragione di sé stesso) e accidenti (la qualità delle sostanze), e le loro relazioni (lor costume), quasi fusi insieme in modo da rendere le sue parole solo un modesto accenno (secondo la metafisica aristotelica-tomistica, ogni individuo ha la sua sostanza, che è sempre divisa dagli accidenti). Crede di vedere la forma universale di questa unità (nodo), perché mentre ne parla sente crescere la gioia. L'attimo della visione porta il poeta a dimenticare più di quanto i venticinque secoli trascorsi abbiano fatto dimenticare l'impresa degli Argonauti ("Un punto solo m'è maggior letargo / che venticinque secoli a la 'mpresa, / che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo"). Come Nettuno ammirò la nave Argo che solcava i mari, così la mente di Dante resta assorta e ammira fissa, immobile e attenta. Guardando quella luce diventa impossibile volgere lo sguardo altrove, perché il bene, che è l'obiettivo della volontà, è tutto concentrato in essa e fuori di essa ciò che è perfetto diventa difettoso. 
Ormai, confessa l'autore, le sue parole saranno più brevi, anche per quel che ricorda, e saranno inadeguate come il balbettio di un bambino che ancora succhia il latte dal seno materno. Non è che nella luce di Dio vi sia più d'una immagine, perché essa è fissa e immutabile, ma è lui che cambia e la sua vista acquista potenza, così quell'unico aspetto si trasforma ai suoi occhi. Nella sostanza eterna luminosa e profonda della luce gli appaiono tre cerchi di diversi colori e uguale dimensione (d'una contenenza); sembra un arcobaleno riflesso da un altro arcobaleno, e il terzo sembra un fuoco emesso dai due arcobaleni (l'allegoria rappresenta il Figlio riflesso del Padre e lo Spirito Santo che spira da entrambi). L'autore si lamenta dell'insufficienza del suo linguaggio per esprimere quella visione; è tanto quel che ha visto da non rendere ciò che ha riportato adatto nemmeno a essere definito "poco" ("Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch' i' vidi, / è tanto, che non basta a dicer <<poco>>"). Si produce il poeta in una nuova invocazione, così da renderci partecipi dell'emozione suscitata in lui dalla visione; si rivolge alla luce eterna, la sola che in sé stessa riposa (sidi, dal latino sidere), la sola che intende la propria essenza e nell'intendersi si ama e si arride. Quel cerchio, che sembra generato (concetta) dal primo come una luce riflessa, guardato tutto intorno dal poeta, gli sembra contenere una figura umana (nostra effige) dello stesso colore della luce (questo cerchio rappresenta il Figlio, quindi siamo in presenza di un riferimento alla sua duplice natura umana e divina); il suo sguardo è completamente rivolto a questo secondo cerchio, perché è con l'Incarnazione che all'uomo è stato consentito di comprendere il valore delle cose create. 
Di fronte a quella nuova visione, Dante fa come lo studioso di geometria che cerca di risolvere il problema della quadratura del cerchio e pensa senza riuscire a trovare quell'elemento di cui ha bisogno (indige), e si cimenta invano nell'impresa di capire come l'immagine umana si fosse collocata all'interno del secondo cerchio (in pratica vuole capire come sia riuscito Dio a farsi uomo pur rimanendo Dio); le sue ali non sono adatte a questo volo (l'uomo non può trovare una spiegazione razionale), ma la grazia gli rende nota la verità con una folgorazione. A questo punto mancano le forze alla sua immaginazione, ma il suo desiderio e le sue azioni sono mossi insieme, come una ruota che gira uniformemente, dall'amore che muove il sole e le altre stelle, cioè dalla volontà di Dio.
I versi conclusivi dell'opera, essendo l'intera sintesi di tutto il poema, meritano di essere riportati:
Qual è 'l geometra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa:
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Dal primo all'ultimo verso, in questo canto assistiamo a un crescendo continuo. Abbiamo cominciato con la preghiera alla Vergine Maria, poi Dante ha contemplato nella luce divina prima la struttura dell'universo, poi è andato più in là e ha visto la Trinità, ne ha compreso il sovrumano mistero con una folgorazione, infine è diventato un tutt'uno con la volontà di Dio.

Francesco Abate

6 commenti:

  1. E finalmente ci siamo, il Canto ultimo chiude in modo sublime la Commedia.
    La tua analisi è fantastica, si vede che Dante ti ha fatto innamorare.
    Buona Pasqua!

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    1. Ti confesso che, terminata l'analisi dell'ultimo canto, mi sono sentito come chi si allontana da un amico. Cominciai questi commenti perché avevo riscoperto e apprezzato la Commedia, poi man mano che l'ho commentata ne ho capito ancora di più la grandezza.
      Grazie per i complimenti.
      Buona Pasqua anche a te.

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  2. Penso che Dante abbia trovato il modo perfetto per chiudere la sua opera magna, lasciando alla fantasia del lettore l'ultimo pezzo della storia, il più importante.
    Adesso cosa farai, magari Milton?
    Un abbraccio!

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    1. Sarebbe stato impossibile immaginare e descrivere in modo convincente qualcosa di sublime come Dio, quindi Dante ha scelto di far formare nel lettore la Sua immagine e per farlo lo ha lasciato sulla soglia della piena visione.
      Non so ancora che farò, ci sto pensando. Prima di abbandonare la Commedia, scriverò un ultimo post di carattere generale. Dopo la Commedia, non so cosa farò; per il momento ho pensato a Leopardi o al commento di poesie sparse, ma anche Milton non sarebbe una cattiva idea perché si allaccia a Dante.
      Ti auguro una buona Pasqua.

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  3. L'ho fatto l'anno scorso questo canto, ma perché non ti ho scoperto prima che potevo usare le tue analisi come bignami?
    Un saluto (anche da parte di Penny),
    Luigi

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    1. Beh, di sicuro i miei commenti ti sarebbero stati di aiuto, ma non ci trovi nulla che non si trova scritto meglio e meglio approfondito sui libri dedicati all'argomento.
      Tanti saluti a te e a Penny. Passate una buona Pasquetta.

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