Italo ardito, a che giammai non posi
di svegliar dalle tombe
i nostri padri? ed a parlar gli meni
a questo secol morto, al quale incombe
tanta nebbia di tedio?
Il canto Ad Angelo Mai quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica fu composto da Leopardi a Recanati nel gennaio del 1820.
A ispirarne la composizione fu la notizia del ritrovamento di un frammento del De re publica di Cicerone da parte del cardinale Angelo Mai, col quale Leopardi era in frequente contatto epistolare. Se la notizia del ritrovamento entusiasmò particolarmente il poeta, lo stesso non accadde con la lettura del testo: in una lettera sconsigliò a suo padre Monaldo di acquistarlo perché era stampato su carta di infima qualità e non aggiungeva nulla a quello che Cicerone aveva scritto in altri trattati.
La celebrazione della scoperta è comunque per Leopardi solo un pretesto che viene esaurito nelle prime quattro strofe di quello che in realtà è un canto patriottico e intriso del pessimismo leopardiano.
Il canto è composto da dodici strofe di quindici versi. A differenza dei due precedenti, qui tutte le strofe hanno la stessa struttura e lo stesso schema delle rime.
Nelle prime quattro strofe Leopardi si dedica alla celebrazione del ritrovamento. Si rivolge ad Angelo Mai chiamandolo "Italo ardito".
Il poeta in questo ritrovamento e in altri simili vede l'opera divina, la quale fa riecheggiare il potente grido degli avi ogni volta che gli italiani sembrano dimenticare sé stessi e il loro glorioso passato.
L'autore si meraviglia che i gloriosi eroi del passato ancora si interessino dell'Italia; ciò vuol dire che per essa nutrono ancora delle speranze, mentre lui ormai sente di non averne più. Segnala inoltre come i grandi del passato siano stati succeduti da "immonda plebe".
La seconda parte, cioè le ultime otto strofe, abbandonano le considerazioni circa gli interventi degli avi e cominciano a passare in rassegna i più grandi uomini italiani del passato, sviluppando attraverso ognuno di loro un tema caro al poeta.
Nella V strofa si rivolge a Dante e Petrarca. Del primo piange la sfortuna (lo definisce "non domito nemico della fortuna") e constata come ebbe più amico l'Inferno che la Terra; del secondo invece invidia il dolore, perché lo liberò dall'oppressione della noia e del nulla ("... O te beato, / a cui fu vita il pianto! A noi le fasce / cinse il fastidio; a noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla").
Nella VI e VII strofa elogia Cristoforo Colombo e le sue grandi scoperte, segnalando però come queste abbiano rimpicciolito il mondo invece di ingrandirlo. Per Leopardi l'immaginazione è la prima fonte di felicità; conoscendo completamente il mondo si perde la possibilità di fantasticare sull'ignoto, quindi si diventa più lontani dalla felicità ("... Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / l'etra sonante e l'alma terra e il mare / al fanciullin, che non al saggio, appare").
A dare nuovo impulso all'immaginazione venne Ludovico Ariosto ("cantor vago dell'arme e degli amori" - riferimento all'incipit de L'Orlando furioso), a cui si rivolge nell'VIII strofa, ma adesso le sue leggende e il loro fascino sono perdute.
Nella IX e X strofa si tocca forse il momento più toccante del canto. Leopardi si rivolge a Tasso, nel cui stato d'animo identifica il proprio. Piange il misero destino del poeta sorrentino, osteggiato da cortigiani invidiosi e innamorato della sorella del duca d'Este (l'amore in realtà fu una leggenda che si diffuse dopo la sua incarcerazione, le cospirazioni dei cortigiani contro di lui probabilmente solo frutto della sua immaginazione); per lui la morte fu una liberazione, anche se gli negò di conoscere la gloria che giustamente gli avrebbero procurata i suoi versi, ma "Morte domanda chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda". Gli ultimi due versi della IX strofa mostrano chiaramente come Leopardi identifichi il suo male in quello di Tasso. I versi dedicati al poeta sorrentino sono molto sentiti perché nel periodo in cui li scrive Leopardi sente molto intensamente il proprio malessere psicologico: in una lettera del 6 marzo 1820 si definisce "stecchito e inaridito come una canna secca" e segnala come "nessuna passione trova più l'entrata di questa povera anima".
Le strofe XI e XII si rivolgono a Vittorio Alfieri, che nei suoi trattati contro la tirannia celebrò la libertà e la lotta contro gli oppressori, e fino alla fine dei suoi giorni fu sicuro della resurrezione dell'Italia divisa e martoriata; Leopardi afferma come la morte fu per lui una salvezza, gli impedì infatti di vedere come la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata.
Nella parte conclusiva della XII strofa, il canto torna a riferirsi ad Angelo Mei, a cui il poeta chiede di proseguire nella sua opera, a risvegliare i morti poiché dormono i vivi, così da spingere i contemporanei a compiere atti illustri o a vergognarsi ("... O scopritor famoso, segui; risveglia i morti, / poi che dormono i vivi; arma le spente / lingue de' prischi eroi; tanto che in fine / questo secol di fango o vita agogni / e sorga ad atti illustri, o si vergogni").
Francesco Abate
Ciao Francesco, mi hai raccontato un aneddoto su Leopardi e la letteratura che non conoscevo e che ho apprezzato molto.
RispondiEliminaNon so quanto sarebbe fiero Leopardi dello schifo che è diventato il nostro paese, un letamaio lontano anni luce dal concetto di unità e democrazia.
Ti abbraccio.
Ciao, nel commento delle poesie di Leopardi mi piace quando posso inserire aneddoti che ne descrivono il carattere complesso, così da non cadere nella trappola di presentarlo solo come un poeta malinconico e pessimista.
EliminaCredo che Leopardi odierebbe l'Italia di oggi come quella di allora, perché la sua descrizione dei difetti italiani d'allora non è tanto lontana da quella che potremmo fare oggi. Anche ai giorni nostri c'è bisogno dei morti "poi che dormono i vivi".
Baci.