domenica 29 ottobre 2017

COMMENTO AL CANTO II DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il secondo canto della Divina Commedia si apre con un'invocazione di Dante alle muse ed alla propria mente affinché gli permettano di scrivere fedelmente ciò che ha visto nel suo viaggio nell'oltretomba. Questa invocazione riprende la tradizione dei poemi antichi, rispettata sia da Omero che da Virgilio, ma in Dante ha un valore meno poetico e serve già a sottolineare l'importanza che per lui deve avere il poema. Come già ho scritto nel commento al canto I (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/10/commento-al-canto-i-della-divina.html), l'opera per Dante non è fine a sé stessa. Egli scrive la Commedia con l'intento di portare l'umanità fuori dalla selva oscura, liberarla dalla confusione in cui è caduta e riportarla nella grazia di Dio. Affinché possa essere raggiunto uno scopo tanto elevato, è fondamentale che Dante riesca a riportare fedelmente ciò che ha visto (nella realtà, il frutto delle sue meditazioni), così da far percorrere ai lettori il suo stesso cammino. Per questa ragione egli implora le muse e la sua mente affinché lo aiutino a scrivere correttamente ciò che vuole, egli non vuole solo intrattenere ma sta iniziando un'opera dallo scopo elevato. La validità delle sue idee sarà decisa dall'esito della sua missione: "o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobiltate".
La sera scende e il dubbio si insinua nel cuore di Dante. Egli è un peccatore, non può quindi comprendere immediatamente l'importanza del viaggio che Virgilio, la sapienza, gli ha prospettato. Smarrito e ottenebrato dal peccato, egli chiede alla sua guida come sia possibile che a lui sia concesso un tale privilegio. Nel formulare la sua richiesta, il poeta cita due personaggi che prima di lui hanno compiuto tale viaggio: Enea e san Paolo. Nell'epica e nelle religioni tanti sono i personaggi a cui vengono attribuiti viaggi nell'oltretomba compiuti in vita, Dante cita proprio questi due per una ragione ben precisa. Enea è per tradizione considerato fondatore di Roma, è quindi progenitore di quell'impero che il poeta assurge a simbolo del potere spirituale; san Paolo invece è uno dei personaggi fondamentali del Cristianesimo e le sue lettere, contenute negli Atti degli Apostoli, sono parte fondamentale della predicazione cristiana, quindi è degno rappresentante del potere spirituale. Citando Enea e san Paolo, Dante cita i due poteri che dovrebbero guidare l'umanità sulla retta via. Sono le stesse parole con cui Dante accompagna i due esempi a palesarci la sua intenzione: riferendosi a Enea dice che Dio gli concesse il privilegio del viaggio nell'aldilà "pensando l'alto effetto / ch'uscir dovea di lui", cioè per favorire la sua opera che avrebbe portato alla nascita di Roma; san Paolo invece fu rapito e portato fino al terzo cielo "per recarne conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione", infatti egli fu convertito e attraverso di lui fu nutrita la fede di tutto il mondo. Di fronte a due esempi così grandi, Dante si sente inadeguato e si chiede chi gli conceda tale privilegio: "Io non Enea, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri 'l crede". La frase con cui il poeta chiude la richiesta di spiegazioni a Virgilio è: "Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono". Riconoscendo la propria mente oscurata dal peccato, quindi inadeguata a comprendere verità tanto elevate, egli si affida totalmente alla sapienza della guida. Tutto questo ragionare sulla sua inadeguatezza porta Dante a cedere alla paura, facendogli pensare di rinunciare al cammino propostogli da Virgilio.
Virgilio si accorge che la paura è padrona del cuore di Dante e glielo fa notare ("l'anima tua è da viltade offesa;"). Per rinfrancarlo, sceglie di spiegargli l'origine dell'idea del viaggio che gli ha proposto. Egli era nel Limbo, "tra color che son sospesi", cioè non ammesso alla beatitudine eterna perché pagano, e non punito con le eterne pene perché non macchiato di colpe gravi. Fu raggiunto da Beatrice che, scesa dal Paradiso, lo esortò a correre in soccorso di Dante che era smarrito nella selva. Beatrice gli promise di lodarlo al cospetto di Dio, lui accettò di buon grado, ma volle sapere dall'anima beata cosa l'avesse spinta a scendere fin nel luogo dell'eterna perdizione. Beatrice gli spiegò che, essendo lei un'anima eletta da Dio all'eterna beatitudine, non poteva subir alcun danno dal male dell'Inferno ("I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange, / né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale"). Infine la donna raccontò che il suo intervento era stato sollecitato da santa Lucia, a sua volta chiamata all'azione dalla Madonna stessa. Come si vede, la missione di condurre Dante, e con lui l'umanità intera, fuori dall'oscurità, discende dall'altissimo, percorre in senso discendente una scala gerarchica ed arriva fino al gradino più basso, Virgilio. La scelta delle tre protettrici non è per nulla casuale: la Madonna è colei che esaudisce le preghiere degli uomini ancor prima che queste siano fatte, è grazia preveniente; santa Lucia è una santa a cui Dante Alighieri fu devotissimo, specialmente durante la sua malattia agli occhi, ed essendo protettrice della vista è in questo caso scelta come grazia illuminante; Beatrice, la donna che Dante ha amato e che già nella Vita Nuova assurge a simbolo spirituale, qui rappresenta la grazia operante. Le tre donne rappresentano quindi tre grazie, in contrapposizione alle tre fiere che impediscono il cammino lungo la retta via.
Dopo aver raccontato a Dante il motivo della sua venuta, Virgilio lo sprona chiedendogli come possa ancora aver paura pur sapendo che tre donne benedette avevano a cuore il suo destino ed avevano deciso di aiutarlo. Sentita la storia, il poeta prende coraggio e lo spiega con un paragone bellissimo: Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca / si drizzan tutti aperti in loro stelo, / tal mi fec'io di mia virtude stanca, / e tanto buono ardire al cor mi corse. A questo punto Dante sceglie di seguire Virgilio e con le parole lo elegge a suo duca, signore e maestro.

Francesco Abate

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