domenica 17 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
Il canto X inizia con Virgilio che, seguito dal suo protetto, percorre una via posta tra il muro di Dite e i sepolcri infuocati degli eretici. Dante si rivolge alla sua guida ("O virtù somma, che per li empi giri / mi volvi") e chiede se sia possibile vedere coloro che abitano quei sepolcri, infatti pensa sia semplice soddisfare questa curiosità visto che sono aperti e nessun demonio è nei pressi a far la guardia. Tanto sono profondi i sepolcri infatti che per il poeta è impossibile vedere chi c'è dentro nonostante i coperchi siano sollevati. Virgilio non si limita solo ad acconsentire, con la sua risposta spiega a Dante quale sarà il destino degli eretici e a quale eresia appartennero quelli che patiscono la loro pena nella zona che adesso i due poeti stanno percorrendo. La guida spiega che nel giorno del giudizio gli eretici verranno rinchiusi con i loro corpi nei sepolcri, adesso aperti, e lì sconteranno la pena per l'eternità. "Tutti saran serrati / quando di Iosafàt qui torneranno / coi corpi che là su hanno lasciati", dice Virgilio, citando il termine "Iosafàt", che il profeta Gioele usò per indicare la valle dove Dio emetterà il giudizio sull'operato degli uomini. Dopo aver illuminato Dante sul destino degli eretici, gli spiega che in quella zona giacciono gli Epicurei, coloro "che l'anima col corpo morta fanno". Il filosofo Epicuro, che Dante conobbe per mezzo degli scritti di Cicerone, riteneva infatti che l'anima fosse una sostanza materiale diffusa per tutto l'organismo e fosse mortale. Alla fine del suo discorso Virgilio rassicura Dante dicendogli che a breve saranno soddisfatte sia la curiosità che ha manifestato, sia quella che ha celato ("Però a la dimanda che mi faci / quinc'entro satisfatto sarà tosto, / e al disio ancor che tu mi taci"). Il poeta a questo punto si giustifica spiegando che certe domande evita di farle non per mancanza di fiducia nei confronti della guida, ma per "dicer poco" così come gli è stato più volte chiesto di fare.
Il dialogo tra Dante e Virgilio è bruscamente interrotto dalle parole di Farinata degli Uberti, di cui Dante aveva già chiesto notizia a Ciacco (canto VI, verso 79). Farinata, il cui vero nome fu Manente, fu capo politico e militare dei ghibellini fiorentini e nel 1248 cacciò i guelfi dalla città. Quando tre anni dopo i guelfi ritornarono, furono i ghibellini e lo stesso Farinata ed essere esiliati. Nel settembre del 1260 sconfisse a Montaperti i guelfi e rientrò a Firenze da conquistatore, opponendosi però a chi voleva distruggere la città. Morì nel 1264, circa un anno prima della nascita di Dante. Dopo la morte, Farinata e i suoi uomini furono giudicati eretici, per questo Dante lo colloca in questo cerchio. Farinata si erge dal suo sepolcro quando sente Dante esprimersi nella lingua della sua città, infatti lo chiama: "O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto, / piacciati di restare in questo loco. / La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natìo, / a la qual forse fui troppo molesto". Dante inizialmente si spaventa e si accosta a Virgilio, quest'ultimo lo esorta a voltarsi e guardare Farinata che s'è alzato ed è visibile in tutta la parte superiore del corpo. Il poeta finalmente volge lo sguardo verso il dannato. Davanti stavolta non si trova un personaggio devastato o umiliato, bensì ad una figura eretta che manifesta tutta la propria forza, per Dante è come se "avesse l'inferno a gran dispitto". Già da questo particolare, cioè dalla posizione del corpo di Farinata, possiamo capire come il poeta lo stimasse nonostante fosse uno dei principali esponenti della parte politica avversa. Farinata non è dilaniato dagli altri dannati, non è trasfigurato come una bestia e non ha il visto stravolto dal dolore: affronta l'Inferno con la stessa forza e determinazione con cui in vita affrontò le battaglie contro i guelfi. Anche nel porre all'uomo che ha di fronte una domanda, cioè quali furono i suoi antenati, non piange né implora, addirittura appare sdegnoso. Dante gli cita i suoi antenati e Farinata constata come essi furono suoi nemici e lui due volte li cacciò dalla città. Anche nel ricordare le sue vittorie in battaglia contro i guelfi, il dannato dimostra un orgoglio non piegato dalla pena che sta subendo: il ricordo della gloria passata sembra attenuargli la pena. Dante ribatte però che i guelfi, cacciati dalla città, seppero rientrarvi entrambe le volte, cosa che i ghibellini non sono stati in grado di fare. 
Il dialogo tra Dante e Farinata è interrotto dall'apparizione di una figura molto diversa da quella del dannato orgoglioso, quella di Cavalcante dei Cavalcanti. Cavalcante fu padre del poeta Guido, grande amico di Dante. Egli non si erge sprezzante come Farinata, rimane in ginocchio e di lui Dante vede solo la testa. Cavalcante si preoccupa di sapere come mai, se Dante è giunto fin lì grazie all'altezza del suo ingegno, non è con lui Guido. Questa domanda la fa piangendo, ha già il sospetto che suo figlio sia morto. Nel rispondergli che quel viaggio non dipende da lui, ma da un Bene superiore che forse non ritiene Guido Cavalcanti degno, Dante commette l'errore di usare il tempo passato ("per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno"), così Cavalcante si convince che suo figlio sia morto e ne chiede conferma. Dante non risponde a questa nuova domanda, facendo cadere il dannato nella disperazione al punto da lasciarsi cadere supino nel sepolcro infuocato. La mancata risposta del poeta non è però determinata dalla pietà, infatti Guido Cavalcanti è ancora vivo, ma da un dubbio che di colpo lo assale: fino a quel momento i dannati sono stati capaci di predire il futuro, non si spiega perciò come possa Cavalcante ignorare il destino del figlio. 
Caduto Cavalcante nel sepolcro, torna in scena Farinata. Quest'ultimo non mostra alcun interesse né alcuna pietà per il suo compagno di sventura, nemmeno gira la testa per vedere meglio ciò che accade. Farinata riprende il dialogo interrotto dall'apparizione di Cavalcante rispondendo all'ultima affermazione di Dante e lo fa con una profezia, accentuando la contrapposizione con l'altro dannato, che è incapace di vedere nel futuro del figlio. Farinata dichiara che l'incapacità dei ghibellini di rientrare a Firenze gli pesa più della pena che sta scontando ("S'elli han quell'arte ... male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto"), ma predice a Dante che sperimenterà in prima persona la difficoltà dell'impresa prima che siano passati cinquanta mesi ("Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge"). Fatta la predizione, Farinata chiede a Dante perché a Firenze siano così ingiusti nel fare leggi contro la sua famiglia (dalla pace del 1280 in poi, diversi furono i decreti con cui si riammettevano famiglie ghibelline a Firenze, ma gli Uberti furono sempre esclusi). Dante motiva l'accanimento dei fiorentini contro gli Uberti con il sangue che questi fecero scorrere nella battaglia di Montaperti. L'ultima risposta di Dante genera un cambiamento nell'atteggiamento di Farinata, adesso sospira e muove il capo, perdendo un po' della sua alterigia e forse prendendo atto della colpa che gli viene addebitata, infine si giustifica prima ricordando che non fu lui solo a far scorrere quel sangue e non lo fece senza ragione, poi ricordando che fu l'unico a opporsi a coloro che avrebbero voluto distruggere la città. L'argomento del dialogo viene bruscamente cambiato da Dante, il quale chiede all'interlocutore come mai riescano a vedere nel futuro ma non nel presente. Farinata gli spiega che i dannati vedono il futuro lontano come chi ha una cattiva vista, questo non per loro capacità ma per volere di Dio, invece il futuro prossimo e il presente sfugge alla loro conoscenza e non ne sanno nulla. Ovviamente questa conoscenza del futuro la perderanno dopo il giudizio universale perché non ci sarà più il tempo, ma solo l'eternità. Dante, compresa questa verità, gli chiede di dire a Cavalcante che suo figlio Guido è ancora vivo (lo sarà per pochi mesi ancora, per questo il padre non sa più nulla di lui) e non gli ha risposto solo perché in preda al dubbio che ora Farinata gli ha tolto. Virgilio inizia a richiamare Dante, ma questo chiede ancora a Farinata di dirgli quali altri anime stiano scontando la pena lì. Farinata gli dice che sono tantissime ("Qui con più di mille giaccio") e gli cita solo Federico II e il Cardinale diacono Ottaviano degli Ubaldi. Farinata si ritira nel suo sepolcro infuocato e Dante torna da Virgilio.
Virgilio si accorge che Dante è turbato a causa della profezia avversa avuta da Farinata, per tranquillizzarlo gli dice che quando sarà al cospetto di Beatrice, che in quanto rappresentante della scienza teologica può chiarirgli ogni dubbio, verrà messo a conoscenza di tutto il suo futuro. I due poeti riprendono il cammino lungo un sentiero che conduce al settimo cerchio, dal quale si alza uno spiacevole odore.

Francesco Abate  
  

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