sabato 9 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il nono canto dell'Inferno inizia con Dante e Virgilio chiusi fuori la città di Dite, impossibilitati a riprendere il proprio cammino a causa del rifiuto dei demoni. Nei primi versi troviamo i due impalliditi, Virgilio a causa della delusione e Dante per la paura di essere abbandonato, la guida però riprende subito il suo colore naturale perché non ha il cuore colmo di viltà. Virgilio resta in guardia ("Attento si fermò com'uom ch'ascolta"), in attesa di un intervento divino, perché consapevole che quel viaggio non possa e non debba finire lì. Sta ad ascoltare perché con gli occhi può vedere poco a causa delle tenebre e della nebbia che regnano in quel luogo. Le parole della guida di Dante tradiscono un po' di indecisione, infatti dichiara che dovranno vincere quella disputa, ma subito dopo tronca la frase come chi non è sicuro di ciò che sta dicendo ("<< Pur a noi converrà vincer la punga >>, / cominciò el, << se non... Tal ne s'offerse"). Le parole di Virgilio si concludono con un'esclamazione che chiarisce le sue speranze, egli infatti si rammarica di quanto si faccia attendere l'intervento superiore, è quindi sicuro che ci sarà. Quella frase lasciata a metà però spaventa Dante, il quale chiede se mai sia sceso laggiù qualcuno dal limbo, quindi qualche anima che sia nella stessa condizione di Virgilio ("<< In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca? >>"). Dante in realtà vuole sapere se la sua guida ha mai compiuto prima quel viaggio nelle profondità dell'Inferno, per delicatezza però pone la domanda in modo generico. Virgilio spiega di aver già percorso questo cammino poco tempo dopo la sua morte ("Di poco era di me la carne nuda") per mezzo della maga Eritone, che lo usò per riportare in vita un morto la cui anima era caduta nella Giudecca, l'ultimo cerchio dell'Inferno. Spiega a Dante che la Giudecca è il luogo più basso dell'Inferno, quindi lo rassicura dicendogli che conosce il cammino che ora stanno compiendo. La vicenda della precedente discesa di Virgilio nell'Inferno è un'opera della fantasia di Dante, usata per giustificare la sicurezza della guida e dello stesso autore. Rassicurato il suo protetto però, Virgilio gli spiega che non c'è altro modo di entrare nella città di Dite, dovranno per forza vincere quella disputa coi demoni. 
Il discorso di Virgilio continua, ma Dante smette di ascoltarlo perché attratto dalla visione delle tre furie sulla torre. Queste Furie sono figure della mitologia greca già citate da Omero ed Euripide, i nomi che Dante attribuisce loro furono però assegnati loro da Virgilio nell'Eneide: Megera, Aletto e Tisifone. Secondo alcuni critici, in questa situazione esse rappresentano i tre mali puniti all'interno della città di Dite: matta bestialità, frode e tradimento. Le Furie ovviamente hanno un aspetto mostruoso, cinte di serpenti acquatici velenosi (idre) e con i capelli fatti sempre di serpenti. Ecco come le descrive Dante: "che membra feminine avieno e atto, / e con idre verdissime eran cinte; / serpentelli e ceraste avien per crine, / onde le fiere tempie erano avvinte". Virgilio indica quelle creature mostruose e ne cita i nomi, mentre esse invocano Medusa, l'orrenda Gorgone che in questa situazione probabilmente rappresenta il terrore che immobilizza Dante. Virgilio, temendo l'arrivo della Gorgone, fa voltare Dante e gli dice di non guardarla, infatti è noto che lo sguardo del mostro riduca il malcapitato in pietra. La situazione è disperata, i poeti non possono proseguire e sono minacciati da un terribile mostro che riduce in pietra chi lo guarda, a questo punto arriva l'aiuto divino in cui Virgilio ha confidato sin dall'inizio. Dante, non dimenticando lo scopo didattico dell'opera, chiede al lettore di comprendere "la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani". Dalle acque del fiume si alza un potentissimo vento che ne scuote le due rive, poi Dante vede una creatura celeste camminare sulle acque putride senza bagnarsi i piedi, mentre le anime immerse nella melma fuggono come rane alla vista della biscia (dannati, fuggono la grazia divina). La nuova apparizione percorre le acque, intenta solo a scostarsi l'oscura nebbia dal viso. Il messo celeste si avvicina alla porta di Dite e la apre semplicemente percuotendola con una piccola verga ("Venne a la porta e con una verghetta / l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno"). Aperta la porta con facilità, la creatura celeste si rivolge ai dannati, chiedendo loro perché mai si oppongano all'immutabile volontà divina e minacciandoli ricordando loro l'episodio in cui Cerbero si oppose alla discesa di Ercole, finendo incatenato e sconfitto. Spiegato con poche parole ai demoni che non è il caso che continuino la loro ribellione, il messo celeste torna indietro senza nemmeno rivolgere la parola a Dante e Virgilio.
Le porte di Dite sono aperte e l'intervento divino infonde coraggio ai due viaggiatori che, animati da una nuova sicurezza, entrano dentro la città ("e noi movemmo i piedi inver' la terra, / sicuri appresso le parole sante"). Dentro non trovano alcuna resistenza, segno che i demoni si sono arresi di fronte alla manifestazione della volontà e della potenza di Dio. Qui Dante assiste alla punizione che scontano gli eretici, essi giacciono in sepolcri infuocati. Nel descrivere quest'immensa necropoli piena di sepolcri, il poeta fa riferimento a due famosi cimiteri dei suoi tempi: Arles e Pola. Virgilio, nello spiegare a Dante chi siano i dannati, spiega che "Simile qui con simile è sepolto", cioè gli eretici sono raggruppati in base all'eresia che predicarono o seguirono in vita.

Francesco Abate  

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