mercoledì 9 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Il canto XVI si apre con un'invettiva di Dante contro la sua città, Firenze. Lo scorso canto si è chiuso con la scoperta da parte del poeta dell'identità dei ladri alla cui trasformazione aveva assistito, questo comincia con la rabbia dovuta alla consapevolezza che i cinque dannati fossero suoi concittadini. L'ira del poeta si rivolge contro la città perché i ladri che ha conosciuto non furono in vita persone prive di mezzi, costrette a rubare per sopravvivere, bensì appartennero a famiglie note e onorate nella città. Il canto inizia con una marcata nota sarcastica, Dante infatti invita Firenze a godere del fatto che la sua fama, oltre a estendersi per tutto il mondo, riempie anche tutto l'Inferno. L'invettiva continua con l'autore che predice la volontà della vicina Prato di scrollarsi di dosso il dominio fiorentino, attribuendola al bisogno di staccarsi da una realtà tanto corrotta. Per il poeta quando la ribellione avverrà, sarà già troppo tardi. La seconda parte dell'invettiva inizia col verso "Ma se presso al mattin del ver si sogna", il quale riprende l'idea antica che i sogni fatti di primo mattino fossero premonitori, Dante quindi attribuisce la sua conoscenza dell'imminente ribellione di Prato a un sogno premonitore.
Il poeta e la sua guida riprendono il cammino, risalgono lungo la parete della bolgia e si recano in quella successiva, l'ottava. Prima di descriverci quello che vede nell'ottava bolgia, l'autore si abbandona a una breve riflessione. Quando vide lo spettacolo dei dannati che sta per descriverci, provò dolore, così come ne prova adesso che lo riporta in versi. Il poeta deve però tenere a freno l'intelligenza e riconoscere i limiti dell'umano innanzi alla giustizia divina, così da non abusare del dono divino della grazia e non rischiare che questo gli venga tolto. Dante vive il contrasto tra i suoi sentimenti umani e la giustizia superiore, infatti la perfezione di quest'ultima non si può discutere e dev'essere solo apprezzata, eppure in lui quello spettacolo provocò dolore. Egli deve quindi porre un freno al suo intelletto, più di quanto sia solito fare, e accettare la bontà di quel che vide.
Fatta questa riflessione, il poeta ci descrive quel che vide: tante fiamme risplendevano sul fondo dell'ottava bolgia, somigliando alle lucciole che il contadino osserva nelle sere d'estate. Ogni fiamma avvolge un peccatore e si muove lungo il fondo della bolgia, richiamando alla mente di Dante l'immagine di Eliseo, il quale vide Elia portato in cielo su un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, i cui occhi poterono però vedere la scena solo come l'accentuarsi e l'attenuarsi della luce emessa dai fuochi. Concentrato a guardare lo spettacolo, Dante dimentica di trovarsi in alto e rischia di cadere nel fondo della bolgia. Virgilio spiega al discepolo che dentro i fuochi vi sono i dannati. Lui spiega di averlo già capito, poi chiede a chi appartenga la fiamma che si divide in due parti, come il fuoco della pira funebre di Eteocle e Polinice. I due personaggi citati a esempio da Dante furono, secondo la mitologia, figli di Edipo e si uccisero per contendersi il possesso della città di Tebe. Posti sulla medesima pira, le fiamme si divisero, quasi ad attestare l'odio profondo provato l'uno per l'altro. Virgilio gli spiega che in quella fiamma sono uniti nella loro pena Ulisse e Diomede, i due celebri eroi omerici, che sono puniti tra i consiglieri fraudolenti per l'inganno del cavallo di Troia e per aver portato Achille in guerra, causando il lutto di Deidamia, figlia di Licomede e amante del Pelide. A questo punto Dante prega la sua guida affinché lo lasci parlare con loro. A differenza delle altre volte, la preghiera del poeta è insistente e priva di freno, a testimoniare la sua grande voglia di confrontarsi con due grandi eroi del mondo classico. Virgilio acconsente, ma mitiga il desiderio del discepolo dicendogli di non parlare, sarà lui stesso a chiedere ciò che Dante vuole sapere, teme infatti che i greci potrebbero essere restii a parlare con qualcuno che si esprime in una lingua tanto diversa. L'immagine di Virgilio come mediatore tra Dante e i due dannati si presta a diverse e interessanti interpretazioni. L'eccessivo entusiasmo del suo discepolo può indurci a vedere in Virgilio la ragione che tiene a freno l'intemperanza e trae il giusto insegnamento dai miti classici. Un'altra interpretazione, molto meno filosofica, ci presenta invece l'immagine del poeta mantovano come ponte tra i miti omerici e la letteratura moderna. Secondo Torquato Tasso invece la guida di Dante non fa altro che ingannare i due dannati per invogliarli a parlare, facendo credere loro di essere Omero. Virgilio si rivolge alla fiamma e chiede che uno dei due dannati racconti come morì, per invitarli a rispondere fa leva sul suo valore come poeta ("<< O voi che siete due dentro ad un foco, / s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, / s'io meritai di voi assai o poco / quando nel mondo li alti versi scrissi, / non vi movete; ma l'un di voi dica / dove, per lui, perduto a morir gissi >>"). A rispondere è Ulisse, le cui parole riporto integralmente perché fanno parte dei versi più celebri dell'intera opera. Man mano che l'eroe di Itaca parla, la fiamma più alta si muove quasi come fosse la sua lingua.
... << Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercole segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
de la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
parigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza".
Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al camino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e, volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quando veduta non avea alcuna.
Noi ci allagrammo, e tosto torn in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso >>.
La storia narrata da Ulisse, che si discosta completamente dalla narrazione omerica contenuta ne L'Odissea ed è opera solo della mente di Dante, narra di un uomo dotato di grande ingegno che prova a superare i confini del mondo conosciuto per diventare conoscitore di ogni cosa, anche del bene e del male, ma deve soccombere davanti all'immensità e all'imperscrutabilità del mistero divino. Ritorna in termini diversi il discorso dell'intelletto umano che deve fermarsi di fronte al metafisico, lasciandosi guidare dalla fede e dalla grazia divina. Ulisse racconta che quando scappò dall'isola di Circe, l'amore per la famiglia lontana non riuscì a mitigare in lui la voglia di conoscere il mondo, di diventare profondo conoscitore del bene e del male. Con una sola nave e i pochi uomini rimasti, si spinse in mare aperto e, ormai diventato vecchio, arrivò alle colonne d'Ercole (lo Stretto di Gibilterra). Superate Siviglia e Ceuta (Sibilla e Setta), tenne il suo celebre discorso all'equipaggio, invitandolo a spingersi con lui al di là del mondo conosciuto, spronandoli dicendo che non nacquero per essere come bruti, ma per inseguire virtù e conoscenza. Il discorso ottenne l'effetto sperato, l'equipaggio affrontò con entusiasmo l'avventura e con la forza dei remi superarono le colonne d'Ercole. Arrivarono nell'altro emisfero, in cielo si vedevano nuove stelle e quelle vecchie non si alzavano al di sopra del mare. Trascorsero cinque mesi nel mare del nuovo emisfero, quando finalmente videro una montagna tanto alta da non poter essere paragonata a nessun altra sulla Terra (si tratta della montagna del Purgatorio). Ulisse e i compagni si rallegrarono, convinti di aver scoperto un nuovo continente, ma la gioia si mutò subito in disperazione quando dalla montagna si levò un turbine che percosse la prua della nave, fece girare l'imbarcazione con tutte le acque per tre volte, poi la fece inabissare con la prua in basso e la poppa in altro. Così Ulisse annegò insieme al proprio equipaggio.

In questo canto possiamo leggere un ritorno alla drammaticità e al dolore per i dannati dopo una lunga serie di canti contraddistinti da rabbia o da toni addirittura grotteschi. Nei versi di Dante non leggiamo il disprezzo, visto ad esempio per i barattieri, non ci sono vicende quasi comiche come quelle riguardanti i Malebranche. Torna un tono tragico, torna la partecipazione dolorosa dell'autore. Ce ne accorgiamo già nei versi 19-24, quando il poeta introduce i consiglieri fraudolenti e la loro pena parlandoci del dolore che provò allora quando li vide e che prova adesso quando ci ripensa. Torna il dissidio interiore tra la ragione umana, che rende penosa la vista di tutta quella sofferenza, e la giustizia divina, che è giusta e incontestabile. I dannati presentati in questo canto sono due eroi, patiscono una pena dolorosa, ma non subiscono disgustose trasformazioni come i ladri. L'atteggiamento del poeta nei confronti dei consiglieri fraudolenti è di certo più morbido, eppure li colloca più in basso nell'Inferno, quindi considera il loro peccato più grave del furto e della baratteria. Probabilmente il diverso atteggiamento del poeta è ancora una volta influenzato dalle vicende personali (ricordiamo che di baratteria fu accusato lui stesso), o semplicemente si pone in modo diverso perché in questo canto non c'è nessun fiorentino tra i dannati, quindi non ha motivi personali di astio.

Francesco Abate 
  

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