domenica 20 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone  per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
Il canto XXVIII inizia con versi che ci introducono a uno spettacolo particolarmente crudo. L'autore si chiede chi possa descrivere in prosa ("con parole sciolte") le mutilazioni e il sangue che lui vide. Evidentemente lo spettacolo che ci attende è così cruento da non poter essere reso efficacemente senza il ritmo della poesia, infatti il nostro linguaggio non può descrivere uno spettacolo del genere così come il nostro intelletto non è pronto a comprenderlo. Affidandosi ai versi, Dante prova a descrivere ciò che vide nella nona bolgia paragonandola a cruenti conflitti svoltisi nel sud Italia. Se si mettessero insieme tutti i morti delle guerre fatte dai Romani tra la Campania e la Puglia (contro Apuli, Lucani e Bruzii), tutti coloro che caddero nella seconda guerra punica, tutti coloro che morirono per fermare l'invasione di Roberto il Guiscardo e tutti gli uomini che perirono nelle battaglie di Ceprano e Tagliacozzo (guerra tra Angioini e Svevi), non si vedrebbero comunque tante ferite e mutilazioni quante Dante ne vede sul fondo della bolgia. 
Il poeta vede un uomo squarciato dal mento fino al bacino, aperto come non si aprirebbe una botte nel caso in cui perdesse una doga, con le viscere che gli pendono tra le gambe ("Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com'io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia"). Il dannato si accorge di essere osservato, quindi si apre il petto e mostra a Dante a che punto il suo corpo sia scempiato, presentandosi poi come Maometto. Il profeta dell'Islam con le sue parole mostra ancora di sentirsi un personaggio importante, infatti dicendo "vedi come storpiato è Maometto!" sembra quasi protestare per il trattamento irriguardoso che gli viene riservato. Il profeta dice poi che davanti a lui c'è il cugino Alì (autore del primo scisma dell'Islam), cui il volto è ferito dal mento ai capelli. Spiega poi che nella bolgia sono puniti i seminatori di discordia e gli scismatici, i cui corpi sono tagliati a colpi di spada da un demonio che se ne sta nascosto. I tagli poi si rimarginano man mano che il dannato procede nel suo giro lungo la bolgia, finché non arriva un nuovo fendente a procurare una nuova ferita. Terminata questa spiegazione, il profeta chiede a Dante chi sia, ipotizzando che si tratti di un dannato piovuto nella bolgia, che tarda a scendere sul fondo a causa della paura. Virgilio risponde prontamente, spiega che né la morte né il peccato conducono lì il poeta, ma è opportuno che visiti tutti i settori dell'Inferno per avere una piena conoscenza delle cose. Sentite le parole di Virgilio, un gran numero di dannati si ferma a guardare il poeta con meraviglia, dimenticando per un attimo la propria pena ("<< Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena >>, / rispuose 'l mio maestro, << a tormentarlo; / ma per dar lui esperienza piena, / a me, che morto son, convien menarlo / per lo 'nferno qua giù di giro in giro; / e quest'è ver così com'io ti parlo >>"). Sentito che Dante è vivo, Maometto ne approfitta per chiedergli di dire a fra Dolcino che si armi e si rifornisca di vettovaglie nella sua fortezza, onde evitare di essere sconfitto e finire subito a scontare la sua pena nella nona bolgia. Detto ciò, va via. 
Un altro dannato, che ha un buco in gola e il naso mozzato, inizia a parlare, emettendo il suono delle parole direttamente dalla gola zampillante sangue. Questi si presenta come Pier da Medicina e gli chiede di informare i due migliori di Fano, cioè Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, che saranno chiusi in un sacco con una grossa pietra e gettati in mare ("gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati") presso Cattolica a causa del tradimento di un tiranno vigliacco. Il dannato commenta che Nettuno, dio del mare, non vide mai un tradimento così grave né da parte dei pirati né da parte dei greci. Il traditore guercio (chiaro riferimento a Malatestino Malatesta), il quale governa quella terra che l'altro dannato lì vicino non vorrebbe mai aver visto, cioè Rimini, li chiamerà a discutere di qualcosa e farà sì che non arrivino a pregare perché non vi siano tempeste a Focara (monte tra Pesaro e Cattolica). Pier da Medicina fu un membro della famiglia dei Cattani di Medicina, fu tra i signori dell'antico castello feudale e fomentò le discordie tra il contado e la città di Bologna.
Dante chiede chi sia il dannato che vorrebbe non aver mai visto Rimini. Pier da Medicina con la mano apre la mascella del compagno e spiega al poeta che non può parlare, poi racconta che spinse Giulio Cesare a non temporeggiare dopo l'emissione del decreto senatoriale che lo dichiarava nemico della Repubblica. Il poeta guarda sbigottito questo povero dannato a cui manca la lingua in bocca. Siamo in presenza di Caio Curione, tribuno romano del 50 a.C. che si avvicinò a Cesare dopo aver ricevuto un pagamento in denaro. All'indomani dell'emissione del decreto senatoriale citato sopra, Curione spronò Cesare a non temporeggiare, dicendogli che indugiare nuoce a chi ha i mezzi. Dante lo colloca nella nona bolgia perché col suo consiglio fomentò lo scoppio della guerra civile. Il tribuno in vita fu lodato da Cesare per la sua oratoria all'esercito, per questo Dante scrive: "Oh quanto mi pareva sbigottito / con la lingua tagliata ne la strozza / Curio, ch'a dir fu così ardito!".
Si avvicina un dannato con le mani mozzate, che tende i moncherini in alto e si sporca di sangue il viso. Questi urla a Dante di ricordare tra i vivi anche il Mosca, il quale disse in vita che quando una cosa è fatta, è finita. Il personaggio è Mosca dei Lamberti, il quale disse che era stato un bene uccidere Buondelmonte Buondelmonti, non preoccupandosi delle conseguenze. Secondo la tradizione fiorentina, da questo omicidio, avvenuto il giorno di Pasqua del 1215 e motivato da una promessa di nozze violata dalla vittima, scaturì la divisione di Firenze in guelfi e ghibellini. Dante risponde con un aspro rimprovero alle parole di Mosca, ricordandogli come quell'episodio diede inizio alla fine della sua stessa famiglia. Mosca accusa il colpo e sente su di sé la responsabilità dei tanti mali causati alla città da quell'episodio, così va via tristemente ("... << Ricordera'ti anche del Mosca, / che disse, lasso!, " Capo ha cosa fatta", / che fu mal seme per la gente tosca >>. / E io li aggiunsi: << E morte di tua schiatta >>; / per ch'elli, accumulando duol con duolo, / sen gio come persona trista e matta").  
Dante rimane a guardare la processione di dannati e assiste a uno spettacolo tanto terribile che, se non fosse appoggiato dalla sua coscienza pura, avrebbe paura di riferire senza prove. In pratica è qualcosa di difficile da credere. Il poeta vede camminare un dannato decapitato che tiene la testa per la chioma e cammina portandola come una lanterna. Quest'uomo arriva ai piedi della salita dove sono i poeti e si rivolge a Dante, dicendogli di vedere se esiste pena grande quanto la sua e chiedendogli di portare sue notizie nel mondo dei vivi. Si presenta come Bertrando dal Bornio, il quale aizzò il giovane erede al trono Enrico contro il padre, il re d'Inghilterra Enrico II. Bertrando paragona la sua opera a quella di Achinofel, personaggio biblico che tradì re David e si schierò a favore del figlio Absalom, e spiega la sua pena: in vita osò separare due uomini uniti da un legame di sangue, così adesso la sua testa è divisa dal corpo.
   
Sulla collocazione di Maometto tra gli scismatici c'è da ragionare. Egli fondò una nuova religione, ma di fatto non operò alcuno scisma nella chiesa Cristiana perché mai ne fece parte. Probabilmente l'autore lo giudicò colpevole di aver diviso parte del popolo di Dio dalla rivelazione cristiana. Il giudizio di Dante nei confronti di Maometto fu molto duro, nel descriverne le mutilazioni infatti usò un linguaggio quasi scurrile e per nulla poetico, dicendo che era diviso ""infin dove si trulla" (un po' come dire "fino al buco del culo") e indicando i suoi intestini come "'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia". Il Maometto dantesco è un personaggio convinto della propria importanza, ma privo della fierezza che è propria per esempio a Farinata degli Uberti. Dai versi di Dante emerge un Maometto quasi ridicolo, per niente rispettabile.
In questo canto compare anche la figura di fra Dolcino. Non si tratta di un frate, bensì di un eretico. Visse tra il 1250 e il 1307 e predicò intorno al 1300. Successe a Gerardo Segarelli come capo laico della setta degli apostolici. Sostenne l'assoluta comunanza dei beni e delle mogli. Contro di lui fu bandita una vera e propria crociata. Si ritirò in una fortezza sui monti del Biellese con i suoi adepti e venne preso dopo un lungo assedio, quando dovette arrendersi a causa della mancanza di viveri. Fu bruciato sul rogo nel giugno del 1307, subito dopo aver assistito all'esecuzione della sua compagna Margherita. Di fra Dolcino e dei dolciniani (così vennero chiamati i suoi adepti) si discute ampiamente nel romanzo Il Nome della Rosa di Umberto Eco (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/06/commento-de-il-nome-della-rosa-di.html).

Francesco Abate

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