domenica 13 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Già era dritta in su la fiamma e queta,
per non di più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand'un'altra. che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia.
Ulisse ha smesso di parlare e il fuoco che l'avvolge adesso è ferma, con il permesso di Virgilio va via. Nemmeno fa in tempo ad allontanarsi l'eroe omerico, che un'altra fiamma si avvicina a Dante e al suo maestro, attirando l'attenzione di quest'ultimo a causa dello strano suono che emette. Per rendere l'idea del suono prodotto dal dannato appena giunto, Dante lo paragona a quello che uscì dal toro di rame che l'ateniese Perillo, secondo quanto scrissero Ovidio e altri autori latini, costruì per il tiranno Falaride di Agrigento. Per assecondare la crudeltà di Falaride, Perillo costruì un toro in rame da usare come strumento di tortura: vi si chiudeva all'interno il condannato e si accendeva un fuoco sotto il ventre del toro, così il metallo si riscaldava e il malcapitato finiva arso vivo. La leggenda vuole che il tiranno volle provare lo strumento sulla pelle dello stesso Perillo, il quale finì vittima della sua crudele invenzione, e le cui urla sembravano il muggito del toro. Dante, in uno dei versi in cui esprime il paragone, ci dice che per lui fu giusto che a cadere vittima della macchina infernale fu per primo colui che la costruì, un uomo che aveva piegato il suo ingegno per servire il male. Le parole del dannato sono soffocate dal fuoco e sembrano le urla alterate da quell'antico strumento di tortura, alla fine però si riesce a capire cosa sta cercando di dire ("Come 'l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l'avea temperato con sua lima, / migghiava con la voce de l'afflitto, / sì che, con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto; / così, per non aver via né forame / dal principio nel foco, in suo linguaggio / si convertian le parole grame. / Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio / su per la punta, dandole quel guizzo / che dato avea la lingua in lor passaggio"). Si rivolge a Virgilio, di cui ha colto l'origine lombarda quando gli ha sentito dire a Ulisse "Istra ten va, più non t'adizzo" ("ora puoi andare, non ti trattengo"), e gli chiede di restare a parlare un po' con lui nonostante sia arrivato tardi, visto che non dispiace a lui nonostante stia ardendo. Chiede poi al poeta, qualora davvero venga dall'Italia, terra che rievoca quasi con l'affetto che un figlio prova per la madre ("quella dolce terra latina"), se i romagnoli sono in pace o in guerra, cosa che gli interessa visto che visse sui monti che stanno tra Urbino e l'Appennino in cui è la sorgente del Tevere. Dante osserva e ascolta con attenzione, il suo maestro lo invita a rispondere al posto suo, visto che il nuovo interlocutore parla la sua stessa lingua. Il poeta già conosce la risposta e non indugia, spiega che la Romagna non è mai davvero in pace, quando non si combatte infatti i tiranni romagnoli covano già il proposito di scatenare un nuovo conflitto. Tuttavia nel 1300 la Romagna è in pace, quindi Dante spiega che non c'è al momento alcuna guerra "palese". Detto ciò, l'autore in cinque terzine rievoca i punti salienti della situazione politica della zona, usando ovviamente molte metafore basate principalmente sugli stemmi delle casate che dominano la zona. Ravenna ha superato il periodo delle lotte, sta tranquilla sotto il mite governo di Guido il Vecchio (l'aquila) ed estende i suoi possedimenti fino a Cervia. Forlì, che fé già la lunga prova, cioè si è già scontrata coi ghibellini l'1 maggio 1282, uccidendo ottomila francesi inviati da Martino IV a sostegno di Giovanni d'Appia, è governata dagli Ordelaffi. A Rimini, Malatesta da Verrucchio (detto "il Centenario") e il ramo della sua famiglia rimasto a Pennabilli continuano a dilaniare i sudditi, come fanno da sempre. Le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani di Susinana ("il lioncel dal nido bianco", richiamo al leone in campo bianco dello stemma), il quale cambia continuamente le sue alleanze. Cesena, bagnata dal fiume Savio, ha un corso politico che imita quello del fiume: il corso d'acqua è messo tra pianura e monte, così la città si alterna tra libero governo e signoria. Finito il racconto, Dante prega il dannato di dirgli chi sia e di vincere la repulsione a parlare del proprio peccato. Il fuoco per qualche istante muggisce, come se il dannato al suo interno stia riflettendo se accontentarlo o meno, poi la punta della fiamma inizia a muoversi e si iniziano a sentire le sue parole. Guido da Montefeltro, questo è il nome del dannato, dichiara di acconsentire alla richiesta solo perché certo che mai Dante tornerà tra i vivi, egli infatti sa che nessuno è mai tornato indietro dall'Inferno. Spiega che fu un uomo d'armi, poi prese i voti presso l'ordine francescano con l'intenzione di fare ammenda dei propri peccati, ma così non fu per colpa del "gran prete", riferimento al papa Bonifacio VIII, a cui destina anche un'imprecazione che dimostra quanto ancora sia accesa la sua ira: "a cui mal prenda!". Guido ritiene infatti che Bonifacio VIII lo spinse a macchiarsi nuovamente l'anima, vanificando il potere salvifico degli anni trascorsi in convento. Consapevole che la sua accusa possa apparire inverosimile, il dannato racconta nel dettaglio la sua storia ("S'i credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, / questa fiamma staria senza più scosse; / ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, / sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, / credendomi, sì cinto, fare ammenda; / e certo il creder mio venìa intero, / se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, / che mi rimise ne le prime colpe; / e come e quare, voglio che m'intenda."). Guido racconta che finché fu vivo, fu un grande stratega militare di fama riconosciuta ("Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte, e sì menai lor arte, / ch'al fine de la terra il suono uscie"). Arrivato alla vecchiaia ("in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte"), iniziò a sentirsi in colpa per quello che era stato e si convertì prendendo i voti. Il ricordo della conversione scatena il rimpianto nella mente di Guido, sente di aver fatto tutto nel modo giusto e soffre perché non è servito, manifestando ciò con un'amara esclamazione: "ahi miser lasso! e giovato sarebbe". Bonifacio VIII, che Guido non nomina mai direttamente, in questo caso lo definisce "Lo principe d'i novi Farisei", rimarcando una volta di più il rancore mai sopito nei suoi confronti, stava combattendo una guerra contro i suoi nemici politici, che erano cristiani e non Saraceni o Giudei. Il papa chiese consiglio a Guido per prendere Palestrina, così come l'imperatore Costantino chiese a papa Silvestro di essere battezzato per guarire dalla lebbra. Guido inizialmente non accontentò il papa, giudicando folle la sua richiesta, ma Bonifacio VIII lo rassicurò promettendogli l'assoluzione e ricordandogli che aveva il potere di aprire sia le porte del Paradiso che quelle dell'Inferno ("E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; / finor t'assolvo, e tu m'insegna fare / sì come Penestrino in terra getti. / Lo ciel poss'io serrare e diserrare, / come tu sai; però son due le chiavi / che 'l mio antecessor non ebbe care"). Guido, temendo che disobbedire fosse più grave che parlare, accontentò il pontefice e gli consigliò di rafforzare la propria posizione promettendo tanto per poi non mantenere nulla. Non appena morì, san Francesco venne a prendere la sua anima, ma un demone intervenne e disse che la sua anima era destinata all'Inferno a causa di quel consiglio fraudolento, non poteva infatti essere assolto perché non era pentito, giacché è impossibile pentirsi e contemporaneamente peccare. Guido allora si risvegliò dall'illusione quando il demone lo prese e, per vantarsi e mostrarsi superiore a chi in vita fu campione di logica, gli disse: "Forse non pensavi che anch'io fossi logico!". Il demone lo portò da Minosse, il quale arrotolò otto volte la coda e lo destinò così al fuoco dell'ottava bolgia. Finito di parlare, la fiamma riprende il suo cammino, torcendo e dibattendo la sua punta, forse a voler indicare lo stato d'animo di Guido, che vive l'eterna pena col rammarico di esser stato ingannato e consumato dalla rabbia nei confronti di Bonifacio VIII.
I poeti si incamminano e passano sull'arco che cinge la nona bolgia, dove sono puniti coloro che in vita disseminarono discordie e crearono divisioni.

La figura di Guido di Montefeltro è molto differente da quella di Ulisse, che abbiamo trovato nel canto precedente, ma nella medesima bolgia. Nelle parole di Ulisse non c'è autocommiserazione, mai l'eroe itacense esprime rabbia o sofferenza, cosa che invece Guido fa di continuo. Questo diverso atteggiamento è dovuto al carattere dei due personaggi. Ulisse non nega la propria colpa, nemmeno ne parla (la conosciamo per bocca di Virgilio), narra la sua vicenda e si mostra per quello che fu: un uomo accecato dalla sete di conoscenza che trascinò il suo equipaggio in un'impresa folle. Guido invece scarica tutte le colpe su Bonifacio VIII, egli infatti ritiene che si sarebbe salvato grazie all'ingresso nell'ordine francescano, ma il consiglio che il papa gli estorse con l'inganno e la minaccia lo ha destinato all'Inferno. Ulisse accetta la sua pena e la vive con la dignità propria di un eroe, Guido invece parla nel tentativo di discolparsi e farsi commiserare. 
Un'altra differenza tra la vicenda di Ulisse e quella di Guido di Montefeltro è l'origine della storia che Dante riporta. Ulisse è un personaggio mitologico, la storia della sua morte è però un'invenzione di Dante, nell'Odissea riesce a tornare a casa e a liberarsi dei Proci. Guido di Montefeltro è invece un personaggio reale, anche il colloquio tra lui e Bonifacio VIII per il consiglio fraudolento non è un'invenzione dantesca, anche se gli storici nutrono molti dubbi circa la sua realtà. Nella descrizione dell'incontro Dante usa un paragone con la leggenda di Costantino e papa Silvestro. Ai tempi di Dante si credeva che i possedimenti papali a Roma fossero frutto della famosa "Donazione di Costantino" e che questa fosse dovuta alla guarigione dell'imperatore dalla lebbra dopo che papa Silvestro l'ebbe battezzato. Oggi sappiamo che la "Donazione di Costantino" è un falso storico e ancor minore valore storico può avere la storia della guarigione miracolosa. Dante comunque usa la vicenda per gettare una luce ancor peggiore su Bonifacio VIII (per cui sappiamo non nutriva grande simpatia), infatti nella leggenda si narra dell'imperatore che chiede aiuto al papa per guarire da una malattia fisica, invece nella storia di Guido è il papa a chiedere il consiglio di un guerriero peccatore per risolvere un suo problema. L'accostamento delle due storie accende un paragone impietoso tra papa Silvestro (che libera un uomo dal male fisico) e papa Bonifacio VIII (che spinge un uomo nel peccato mortale). 

Francesco Abate

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