sabato 2 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: << Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi >>.
La vista della moltitudine di persone mutilate che riempiono la nona bolgia stordisce gli occhi di Dante al punto da impedirgli perfino di piangere. Virgilio si meraviglia nel vedere il suo discepolo trattenersi a guardare quella moltitudine straziata, gli chiede quindi perché continui a osservare quelle anime mutilate (le "ombre smozzicate") visto che non l'ha mai fatto nelle altre bolge. Il poeta mantovano crede che Dante stia tentando di contare quanti dannati vi siano nella bolgia e lo invita a desistere, essa infatti abbraccia il giro di ventidue miglia e il tempo rimasto a loro disposizione per visitare il resto dell'Inferno è poco. C'è da fare una precisazione riguardo la misura della bolgia che l'autore ci dà attraverso le parole di Virgilio. Molti critici hanno dibattuto riguardo questa misura di ventidue miglia, alcuni vedendovi la misura delle mura che circondavano Roma, altri semplicemente un'indicazione del poeta per costruire agli occhi del lettore un'immagine più precisa dell'Inferno. Nel canto XXX l'autore scrive che la decima bolgia, quella successiva, è di undici miglia. Alcuni critici videro quindi nell'indicazione di queste cifre l'intenzione di Dante di costruire ai nostri occhi un Inferno dove ogni bolgia misura il doppio di quella successiva. Nel corso dei secoli però questa e altre teorie hanno perso valore, oggi si tende a credere che l'indicazione di questa misura e di quella della decima bolgia abbiano semplicemente la funzione di abbellire il verso. 
Sentite le parole del maestro, Dante gli risponde che, se avesse fatto attenzione al motivo per cui continua a guardare i dannati, forse gli avrebbe concesso di restare ancora ("<< Se tu avessi >>, rispuos' io appresso, / << atteso a la cagion per ch'io guardava, / forse m'avresti ancor lo star dimesso. >>"). Virgilio infatti è già in cammino, seguito dal discepolo, il quale continua a parlare e gli spiega che nella nona bolgia pensa vi sia lo spirito di un suo parente a scontare la terribile pena. Il maestro gli dice che non deve pensare al suo parente e nemmeno deve provare pena per lui, è giusto che pensi al suo sacro viaggio e gli lasci scontare la pena, poi racconta di averlo visto ai piedi del ponticello che gli puntava contro il dito con fare minaccioso, mentre Dante era intento a guardare altrove. Virgilio si era quindi accorto di lui e aveva anche sentito il suo nome, Geri del Bello, ma aveva volontariamente taciuto a Dante la sua presenza, lasciandogli ascoltare le parole di Bertrando dal Bornio. Il comportamento del poeta mantovano si può spiegare solo comprendendo chi fosse Geri del Bello e quali fossero le usanze dell'epoca. Cugino del padre di Dante, Geri del Bello fu la causa dell'inizio di un'inimicizia lunga decenni tra la famiglia degli Alighieri e quella dei Sacchetti. Egli uccise un membro della famiglia Sacchetti e per questo fu ucciso da Brodaio dei Sacchetti tra il 1290 e il 1295. All'epoca le vendette di sangue erano quasi un obbligo morale e coinvolgevano tutti gli appartenenti all'albero genealogico di colui che aveva subito il torto, quindi anche Dante Alighieri avrebbe dovuto portare avanti la guerra infinita contro la famiglia Sacchetti. Il poeta però aveva un concetto sacro dell'autorità e vedeva nelle vendette di sangue un residuo dell'antica barbarie, quindi si rifiutò sempre di portare avanti tale faida, che fu ufficialmente chiusa nel 1342 con una pace tra le due famiglie firmata da suo fratello. Forese Donati rimproverò Dante di non vendicare le offese arrecate a suo padre, ma il poeta lo ignorò e mantenne il suo atteggiamento distante dalla faida familiare. Conoscendo questi fatti, diventa semplice spiegare la vicenda descritta in questi versi. Virgilio ha visto Geri del Bello che, sicuramente, voleva rimproverare il discendente che non combatte perché sia vendicata l'offesa arrecata alla famiglia, così ha impedito che avvenisse l'incontro. Ancora una volta la guida, la razionalità, ha protetto l'uomo, stavolta evitando che fosse coinvolto in una barbara faida familiare. Dante a questo punto spiega al suo maestro il motivo della sua pietà, egli infatti sa che il parente è colmo di rabbia perché nessuno dei discendenti ha vendicato la sua morte.
Parlando di Geri del Bello, Dante e Virgilio arrivano al primo scoglio del ponte che sovrasta la decima bolgia, che sarebbe visibile fino in fondo se non vi fosse la totale oscurità ("Così parlammo infino al loco primo / che de lo scoglio l'altra valle mostra, / se più lume vi fosse, tutto ad imo"). Non appena arrivano sull'ultima riva di Malebolge (la decima bolgia è l'ultima), i dannati li vedono e iniziano ad alzare verso di loro i propri strazianti lamenti, costringendo Dante a coprirsi le orecchie. Il dolore e la puzza che si possono percepire nella bolgia sono gli stessi che ci sarebbero se si unissero tutti i malarici curati negli ospedali della Val di Chiana, in quelli della Maremma e in quelli sardi nel periodo tra luglio e settembre (periodo in cui le febbri epidemiche erano più frequenti). I poeti scendono sull'ultima riva in modo da poter vedere il fondo, dove la giustizia divina punisce i falsari e gli alchimisti. L'autore dice di non credere che sull'isola di Egina, dove tutti gli abitanti furono colpiti da una pestilenza mandata da Giunone, vi fosse uno spettacolo tanto triste e orribile quanto quello che gli si presenta davanti agli occhi. Il riferimento qui lo prende dalle Metamorfosi di Ovidio, dove è raccontato che Giunone lanciò la pestilenza sugli abitanti dell'isola perché Giove si era innamorato della ninfa Egina (da cui l'isola prendeva il nome). Sopravvisse solo il re Eaco, che ottenne da Giove di poter ripopolare la sua terra trasformando le formiche in uomini. Secondo la leggenda, che è narrata anche da Apollodoro, così nacquero i Mirmidoni, la popolazione su cui regnò Achille. Da questa citazione è evidente che la pena patita dai falsari è la malattia, più precisamente la malaria e la scabbia. Il poeta vede alcuni dannati distesi sul ventre, altri sulla schiena, altri ancora si trascinano carponi. In silenzio, Dante e Virgilio camminano, guardando e ascoltando gli ammalati che non riescono ad alzarsi in piedi, sono costretti a strisciare come vermi. Assistiamo ancora una volta allo stravolgimento della natura umana. Il poeta vede due dannati seduti appoggiati l'uno all'altro, come si poggiano a scaldare due teglie, i cui corpi sono pieni di croste da capo a piedi. Li vede accanirsi con le unghie sulle piaghe con una frenesia superiore a quella con cui il mozzo di stalla aspettato dal padrone striglia il cavallo, o superiore a quella dello stalliere assonnato che governa di fretta e furia gli animali, tanto è fastidioso il prurito senza fine delle piaghe. I dannati con le unghie si tolgono di dosso le piaghe, come il coltello del cuoco toglie le squame della scardola, un pesce dalle squame molto dure ("Passo passo andavam senza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone. / Io vidi due sedere a sé poggiati, / com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, / dal capo al piè di schianze macolati; / e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso, / né a colui che mal volentier vegghia, / come ciascun menava spesso il morso / de l'unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor, che non ha più soccorso; / e sì traevan giù l'unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie / o d'altro pesce che più larghe l'abbia"). 
Virgilio si rivolge a uno dei due dannati con parole cariche di disprezzo. Prima lo apostrofa "tu che con le unghie ti dismaglie", paragonando le croste che gli coprono il corpo a una maglia; gli chiede poi se tra loro c'è qualche italiano; infine conclude la richiesta sbeffeggiandolo, gli augura infatti che le unghie gli bastino a grattarsi per l'eternità. Ancora una volta non c'è pietà per chi soffre un'eterna pena, c'è soltanto il disprezzo per chi ha rinnegato la natura umana e adesso ne paga il giusto prezzo. ("<< O tu che con le dita ti dismaglie >>, / cominciò 'l duca mio a l'un di loro, / << e che fai d'esse talvolta tanaglie, / dinne s'alcun Latino è tra costoro / che son quinc'entro, se l'unghia ti basti / etternalmente a cotesto lavoro") Il dannato risponde di essere italiano lui e che lo è anche il compagno che gli è poggiato addosso, poi gli chiede chi sia. Virgilio dice semplicemente di essere uno che scende lungo l'Inferno per mostrarlo all'uomo vivente che è con lui. I due dannati si separano ("si ruppe lo comun rincalzo") e tutti gli altri, sentendo le parole del poeta mantovano, si girano verso i pellegrini. Virgilio si avvicina al suo discepolo e lo sprona a dir loro ciò che vuole. Dante invita i dannati, affinché il loro ricordo non svanisca tra i mortali, quindi affinché non perdano l'unica consolazione che possono avere, a dirgli chi sono e a quali famiglie appartengono, li sprona poi a non vergognarsi della loro disgustosa condizione ("<< Se la vostra memoria non s'imboli / nel primo mondo de l'umane menti, / ma s'ella viva sotto molti soli, / ditemi chi voi siete e di che genti; / la vostra sconcia e fastidiosa pena / di palesarvi a me non vi spaventi >>"). 
Il primo dannato a farsi avanti è Griffolino d'Arezzo. Sull'effettiva identità di questo personaggio ci sono diverse ipotesi: per alcuni fu un notaio laico, per altri fu rettore della Chiesa di Quirico a Siena. Nessuna delle due ipotesi è comunque dimostrabile. Griffolino racconta a Dante di essere stato bruciato sul rogo come eretico, ma non fu l'eresia il suo peccato. Egli dichiarò al suo amico Alberto da Siena di essere in grado di farlo volare e quello, poco assennato, ci credette e gli chiese una prova. Quando Alberto vide che Griffolino lo aveva preso in giro, sfruttò la fiducia che in lui nutriva il vescovo di Siena e lo fece mandare al rogo come eretico. Griffolino spiega che Minosse però, non potendo sbagliare come i giudici terreni, non l'ha punito per l'eresia che mai commise, bensì per la sua attività di alchimista. Secondo la leggenda, gli alchimisti erano in grado di trasformare i metalli in oro e argento. Tali storie si diffusero grazie a due libri sulla pietra filosofare che furono erroneamente attribuiti a San Tommaso. Nella vita reale, gli alchimisti non erano nient'altro che falsificatori di metalli, quindi imbroglioni. Sentita la storia raccontata da Griffolino, Dante chiede a Virgilio se al mondo vi siano persone vuote e frivole come i senesi. Perfino i francesi, che hanno la fama di essere frivoli, secondo il poeta non lo sono quanto gli abitanti di Siena.
Si fa avanti un altro dannato che risponde alle parole di Dante, ricordandogli di Stricca e della famosa Brigata dei dodici, un gruppo di senesi benestanti che decise di scialacquare i propri beni nei modi più assurdi. Il falsario racconta di Niccolò, fratello di Stricca, che adottò l'usanza di mettere i garofani nei fagiani e nelle pernici arrosto così da drogarsi. Detto ciò, invita Dante ad aguzzare la vista per capire chi sia colui che gli dà ragione. Si tratta di Capocchio, un alchimista bruciato sul rogo nel 1293 a Siena per aver falsificato i metalli. Dante in vita aveva conosciuto Capocchio, avevano infatti studiato filosofia naturale insieme. I critici dell'epoca scrissero che divenne molto dotto e iniziò a studiare la vera alchimia, poi iniziò a falsificare i metalli. Capocchio dice a Dante che deve ricordarsi come "io fui di natura buona scimia", cioè fu bravo a contraffare le cose naturali così come la scimmia imita le operazioni umane.

Francesco Abate 

Nessun commento:

Posta un commento

La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.