sabato 30 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

S'io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che del fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Il canto XXXII si apre con un'introduzione che si compone di tre parti: nella prima il poeta ammette la propria inadeguatezza, pur accettando di continuare la propria opera; nella seconda si fa coraggio; nella terza apostrofa coloro che, peccando e finendo nel pozzo dei giganti, hanno reso necessaria l'impresa. Dante è consapevole di avere addosso una grande responsabilità morale, deve infatti descrivere il centro della Terra (che per il sistema tolemaico, allora accettato come vero, corrisponde al centro dell'universo) e uno dei punti cardine di tutta la scienza teologica dell'epoca. Si trova nel luogo più basso dell'Inferno, là dove è infisso Lucifero, il primo superbo che osò sfidare Dio e che è origine di ogni male. Se fino a ora il poeta ci ha descritto diverse tipologie di malvagità, qui si arriva al cospetto di quella suprema, sono puniti i peggiori peccati possibili all'uomo, cioè i vari tipi di tradimento, e si giunge al cospetto dell'origine del male. Dante inizia il primo dei tre canti ambientati nel Cocito (un altro dei fiumi infernali, questo però è ghiacciato) facendosi coraggio, prende atto di non essere in possesso di un linguaggio sufficientemente potente per descrivere il centro dell'universo, non è infatti impresa facile o adatta al linguaggio infantile ("ché non è impresa da pigliare a gabbo ... né da lingua che chiami mamma o babbo"). Nonostante si senta in qualche modo inadeguato, egli non si sottrae all'arduo impegno morale che ha preso nei confronti dei lettori e si accinge a descrivere ciò che vide nel Cocito. Per farsi coraggio, invoca le muse e lo fa citando l'episodio di Anfione che, secondo il mito, riuscì a costruire Tebe spostando i massi col solo suono della sua cetra, aiutato proprio dalle muse. L'introduzione si conclude poi con un'invettiva nei confronti dei dannati presenti nel fondo dell'Inferno, i peggiori peccatori vissuti sulla terra ("Oh sovra tutte mal creata plebe"), che giacciono nel luogo di cui è tanto difficile parlare e per i quali sarebbe stato meglio nascere pecore o capre. 
Dante e Virgilio sono nel Cocito, più in basso rispetto ai piedi del gigante Anteo perché il lago di ghiaccio declina verso il centro. Il poeta è ancora intento a osservare il muro opposto del pozzo quando sente qualcuno dirgli di guardare dove mette i piedi e non schiacciare le teste dei dannati ("Come noi fummo giù nel pozzo scuro / sotto i piè del gigante assai più bassi, / e io mirava ancora l'alto muro, / dicere udi'mi: << Guarda come passi: / va sì, che tu non calchi con le piante / le teste de' fratei miseri lassi >>"). Dante si guarda intorno e scopre di essere su un immenso fiume ghiacciato. Tanta è vasta la sua superficie da superare di gran lunga i grandi fiumi ghiacciati che ha visto sulla terra, come il Danubio in Austria e il Don (Tanai) in Russia. Tanto è grande che, qualora vi cadessero sugli argini (che sono i punti dove il ghiaccio è più sottile) due grosse montagne, il Pietrapana e il Tambura (chiamato anticamente Stamberlicche), non si creerebbero nemmeno delle piccole crepe. Immersi in questo fiume ghiacciato ci sono i dannati, dei quali emerge solo il viso ("insin là dove appar vergogna") e i cui denti, battendo, emettono un suono simile a quello fatto dalla cicogna quando batte il becco. L'autore paragona i dannati alle rane che emergono dallo stagno e il rumore dei loro denti a quello dei becchi di cicogna, torna così prepotentemente la loro disumanizzazione: le loro anime sono sfigurate dal peccato commesso in vita. Tutti i dannati hanno la faccia rivolta verso il basso, così coi denti testimoniano il freddo che provano e con gli occhi il dolore che gli strazia il cuore ("Ognuna in giù tenea volta la faccia; / da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo / tra lor testimonianza si procaccia").
Dopo essersi guardato intorno, Dante vede ai suoi piedi due visi così vicini da avere i capelli misti tra loro e gli chiede chi siano. I due, sentendosi chiamati, si sforzano di alzare il visto e volgere lo sguardo al pellegrino, solo che le loro lacrime gli colano lungo il viso e si ghiacciano, rinserrandogli gli occhi con maggiore efficacia di quanto una spranga rinserri due assi di legno. I due dannati reagiscono rabbiosamente cozzando le teste come fanno i becchi quando lottano. Un altro dannato, che a causa del gelo ha perduto entrambe le orecchie, prima chiede a Dante perché si soffermi a guardarli, poi gli rivela che i due che aveva interrogato sono i figli di Alberto degli Alberti, signori della valle di Bisenzio, che si uccisero tra loro per contendersi il feudo e spinti delle opposte idee politiche. Secondo il dannato, non c'è in tutta la Caina un'anima che meriti quella pena più di loro. Fa anche dei paragoni: non fu colpevole quanto loro Mordrec, figlio (o nipote) di re Artù, che lo tradì e da lui fu ucciso; non Vanni dei Cancellieri pistoiese, soprannominato Focaccia, che uccise un cugino di suo padre; non Sassol Mascheroni, che i toscani conoscono bene, il quale uccise il cugino che aveva in tutela per averne l'eredità (la storia fu molto nota in Toscana, per questo il dannato a Dante non la racconta: Sassol fu scoperto e confessò, fu poi chiuso in una botte e trascinato rotolandola per terra, infine fu decapitato). Il dannato conclude il proprio discorso presentandosi, si chiama Camicione dei Pazzi. Del suo peccato non parla, si limita a dire che attende la venuta di Carlino dei Pazzi il quale, macchiatosi di una colpa più grave, oscurerà la sua. Di Camicione dei Pazzi, vista la collocazione nell'Inferno, sappiamo che fu un traditore dei parenti, invece Carlino vendette ai guelfi Neri il castello in cui erano rifugiati i guelfi Bianchi cacciati da Firenze, fu quindi un traditore della patria e commise perciò un peccato ben più grave.
L'accenno alla figura di Carlino ci introduce alla seconda zona del Cocito, detta Antenora, dove sono puniti i traditori della patria e dell'idea politica. Dante vede un altro gruppo di dannati dal volto paonazzo (il poeta usa il termine "cagnazzi", sia per mantenere la disumanizzazione dei dannati, sia per rendere ancor più aspra la rima). Mentre cammina in mezzo a loro, forse per fortuna o forse per volere divino, urta col piede il viso di un dannato il quale, piangendo, gli chiede perché lo colpisca e crede che si stia vendicando per il tradimento di Montaperti. Quest'ultima affermazione suscita curiosità in Dante, il quale chiede a Virgilio di poter un momento fermarsi a chiarire un suo dubbio, promettendogli che poi potranno procedere più rapidamente. La guida lo autorizza e Dante chiede ancora al dannato che impreca chi sia e perché lancia accuse ad altri. Il dannato risponde con una domanda, gli chiede chi sia lui, che va prendendo a calci i volti dei dannati in un modo che, se lui fosse ancora vivo, non avrebbe accettato. Dante lo informa di essere vivo e, per invogliarlo a presentarsi, gli promette fama nel mondo dei vivi, questi però gli dice che vuole l'esatto contrario e lo invita in malo modo ad andar via. Il poeta a questo punto passa alle maniere forti, lo afferra per la pelle della nuca e minaccia di strappargli i capelli qualora non dovesse rispondere alle sua domande. Nonostante la minaccia subita, il dannato non cede e continua a serbare il proprio nome anche quando Dante inizia a strappargli i capelli. Sentendo le sue urla, un altro dannato si rivolge al torturato chiamandolo Bocca e gli chiede perché mai urli. Dante così capisce che si tratta di Bocca degli Abati, l'uomo che causò la sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti col suo tradimento, e che fu quindi anche responsabile delle tribolazioni patite da Dante. Sentito il nome, il poeta dichiara a Bocca che porterà tra i vivi la notizia della sua dannazione, in pratica abbandona la tortura fisica per tormentarlo con quella morale ("<< Ormai >>, diss' io, << non vo' che più favelle, / malvagio traditor; ch'a la tua onta / io porterò di te vere novelle. >>"). Bocca a questo punto cerca di lenire la sua pena causandone una uguale al dannato che l'ha tradito, quindi chiede a Dante di portare notizia anche di Buoso di Duera, che vendette l'esercito ghibellino a Carlo I d'Angiò. Cita poi altri che sono lì presenti: Tesauro dei Beccaria, legato pontificio in Toscana, decapitato per tradimento; Gianni dei Soldanieri, ghibellino fiorentino che fece entrare in città i guelfi bianchi; Gano di Maganza (Ganellone), che tradì Carlo Magno e causò la disfatta di Roncisvalle secondo la Chanson de Roland; Tebaldello dei Zambrasi, che consegnò Faenza di notte ai guelfi bolognesi.
Ignorando le chiacchiere di Bocca, Dante e Virgilio proseguono il cammino e si imbattono in uno spettacolo agghiacciante. Ci sono due dannati posti uno davanti all'altro e quello dietro morde la nuca del compagno, strappandogli le carni. Il poeta cita l'episodio di Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe, il quale per rabbia morse il capo dell'avversario morente Menalippo. Dante invita il dannato che morde a spiegare perché ce l'abbia tanto con l'altro, così potrà portare la loro storia nel mondo dei vivi. Il poeta ipotizza che questa vendetta eterna sia stata voluta dall'alto, visto che i due sono infissi nella stessa buca, e arriva addirittura a ipotizzare che il peccatore sia solo quello che viene morso ("O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi, / dimmi 'l perché >>, diss' io, << per tal convegno, / che se tu a ragion di lui ti piangi, / sappiendo chi voi siete e la sua pecca, / nel mondo suso ancor io te ne cangi, / se quella con ch'io parlo non si secca. >>").

Francesco Abate

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