domenica 10 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra 'l sangue tebano,
come mostrò una e altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
gridò: << Tendiam le reti, sì ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco >>;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Il canto XXX inizia con l'evocazione di due favole ovidiane, quella di Atamante e quella di Ecuba. La prima narra di Atamante che, impazzito, scambiò sua moglie Ino e i suoi figli, Learco e Melicerta, per una leonessa con i leoncini, decidendo di tendergli un agguato per cacciarli. Il re riuscì a prendere Learco e lo uccise scagliandolo contro un sasso. Ino, disperata, si gettò in mare con l'altro figlio. La pazzia di Atamante fu causata da Giunone, la quale nutriva rancore nei confronti dei Tebani a causa dell'amore del marito Zeus per Semele. La seconda favola racconta della regina di Troia, Ecuba, che dopo la caduta della città venne portata via come schiava. Sulle rive della Tracia vide i cadaveri dei suoi figli, Polissena e Polidoro, e tanto fu il dolore provato che il suo pianto divenne uguale al latrato di un cane. Le due favole citate da Dante mostrano lo scempio della famiglia, anche se nella seconda è notevolmente accentuato il dolore materno. 
Queste scene strazianti servono a introdurre lo spettacolo che Dante vede nella bolgia in cui si trova, la decima. L'autore ci dice che né nelle furie tebane né in quelle troiane si vide tanto crudele furore come quello che lui vede nelle azioni di due dannati che ha davanti agli occhi. Questi corrono come maiali fuggiti via dal porcile lasciato aperto. Uno di loro azzanna alla nuca Capocchio e lo trascina sul terreno duro della bolgia. Griffolino d'Arezzo, tremando, spiega a Dante che l'aggressore, che chiama "folletto", indicandolo come uno spirito maligno, è Gianni Schicchi, il quale va per la bolgia azzannando i dannati che gli capitano a tiro ("E l'Aretin che rimase, tremando / mi disse: << Quel folletto è Gianni Schicchi, / e va rabbioso altrui così conciando >>"). Secondo le cronache dell'epoca, Gianni Schicchi si finse il defunto Buoso Donati, la cui morte il figlio Simone aveva nascosto, per redigere a suo nome un testamento con cui si accaparrò buona parte delle sue ricchezze, lasciando il resto a Simone, che aveva chiesto il suo aiuto. Dante chiede a Griffolino, dopo avergli augurato di non essere azzannato a sua volta, chi sia il secondo folletto. Griffolino spiega che è Mirra, colei che per vendetta di Venere si innamorò del padre Cinira, re di Cipro, e sotto mentite spoglie lo sedusse. Le figure di Schicchi e Mirra ci rivelano che siamo in presenza di un altro tipo di falsari. Nello scorso canto Dante, appena arrivato nella bolgia, aveva trovato i falsificatori di metalli. In questa schiera, sempre nella decima bolgia, ci sono invece i falsificatori di persone, cioè coloro che in vita si fecero passare per qualcun altro.
Una volta che sono passati Schicchi e Mirra, Dante volge l'occhio agli altri dannati. Ne vede uno dalle sembianze che rassomigliano al liuto, infatti ha il ventre gonfio e il viso esile. La somiglianza tra il corpo e lo strumento sarebbe più marcata se questo non avesse le gambe. A causa della grave idropisia (presenza di liquido nelle cavità sierose) il corpo è deforme e le labbra sono sempre aperte, la malattia infatti provoca l'arsura. Il dannato si rivolge a Dante e Virgilio, con tono pietoso chiede loro, che girano per la bolgia senza patire pena alcuna, di osservare e ascoltare la sua. Si presenta come maestro Adamo. Dice che da vivo ebbe quasi tutto quello che desiderava, adesso invece brama un goccio d'acqua. A perseguitare maestro Adamo ci sono anche i ricordi, la sua memoria infatti rievoca sempre i ruscelli dei colli del Casentino e il fiume Arno, aumentando in lui il bisogno d'acqua. Spiega poi che la rigida giustizia che lo condanna gli manda quelle immagini a tormentarlo perché rievocano i luoghi in cui commise il suo peccato. Fu ospite a Romena, nel castello dei conti Guidi, dove falsificò fiorini di Firenze ("la lega suggellata del Batista" perché i fiorini su una faccia recavano l'immagine di san Giovanni Battista) e per questo fu arso vivo. Maestro Adamo dice poi che se vedesse nella bolgia le anime di Guido, di Alessandro o dei loro fratelli, darebbe qualsiasi cosa per poterli avvicinare. Se le anime non mentono, ha sentito che uno di loro (Guido, morto nel 1292) è già lì. Vorrebbe trovarlo, ma lo stato del suo corpo glielo impedisce. Ce l'ha con loro perché lo indussero a compiere il peccato che sta scontando lì, facendogli battere i fiorini falsi. Secondo le cronache dell'epoca, egli fu infatti accolto come artista nel castello, poi i signori, bisognosi di denaro, lo convinsero a falsificare le monete.
Dante vede poco lontano due anime che sono preda di una febbre così alta da far evaporare il sudore dal loro corpo, somigliando così alle mani che in inverno si vedono fumare a causa del freddo. Chiede a maestro Adamo chi siano, lui risponde che erano già lì quando piovve nella bolgia e non si sono mai mossi, inoltre crede che mai si muoveranno. Una è la moglie di Putifarre, la quale secondo la Genesi accusò ingiustamente Giuseppe di averle fatto violenza; l'altro è Sinone, colui che convinse i Troiani a portare il cavallo dentro le mura. Sono quindi due bugiardi, puniti con la febbre eterna.  A causa della febbre altissima emanano un cattivo odore di unto. Evidente è il disprezzo con cui maestro Adamo guarda i due bugiardi, pur essendo anch'egli un peccatore ("<< Qui li trovai - e poi volta non dierno - >>, / rispuose, << quando piovvi in questo greppo, / e non credo che dieno in sempiterno. / L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; / l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia: / per febbre aguta gittan tanto leppo >>."). Uno dei due bugiardi, sentendo le dure parole di Adamo, lo colpisce con un pugno sul ventre reso duro dalla malattia, che suona come un tamburo. Adamo lo colpisce al volto con una gomitata e gli dice che il suo braccio non ha perso la forza di un tempo, è quindi capace di rispondere ai colpi subiti. Dai colpi si passa a un grottesco battibecco, dove i due si rinfacciano i rispettivi peccati, ognuno convinto che sia più grave quello altrui. Sinone lo prende in giro dicendogli che non ebbe il braccio tanto pronto quando fu mandato al rogo, ma lo ebbe quando coniò le monete false. L'idropico gli rinfaccia la menzogna detta a re Priamo quando gli chiese la verità sul cavallo donato dai greci. Sinone ribatte che mentì una sola volta, mentre Adamo disse una menzogna per ogni moneta falsa coniata. Il falsario risponde che Sinone fu anche spergiuro e non può negarlo, visto che l'opera omerica e quella virgiliana hanno raccontato le sue gesta al mondo intero. A questo punto Sinone rinfaccia al maestro Adamo la pena, la lingua screpolata dalla sete e il ventre gonfio di acqua marcia. Adamo gli dice che ancora una volta la sua bocca si è aperta per il suo stesso male, infatti la febbre che consuma Sinone gli farebbe accettare dell'acqua senza troppi complimenti, in pratica non ha meno sete del suo nemico. 
Dante è preso dall'ascolto della tenzone, quando Virgilio interviene e lo riprende con ira. Sentendolo arrabbiato, il poeta si volta con vergogna verso di lui. Si sente come chi sogna di subire qualcosa di brutto e desidera che sia solo un sogno, che non sia reale ciò che gli sta accadendo. Vorrebbe scusarsi, ma non ci riesce. Virgilio comprende il suo stato d'animo e lo rincuora, gli spiega che giudica il suo peccato più grave di quel che effettivamente è stato, gli raccomanda poi di non fermarsi più a seguire litigi di così basso livello, accesi dalla bestialità e privi di ragione, perché seguendoli dimostra di voler seguire l'istinto e non la ragione ("<< Maggior difetto men vergogna lava >>, / disse 'l maestro, << che 'l tuo non è stato; / però d'ogne trestizia ti disgrava. / E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, / se più avvien che fortuna t'accoglia / dove sien genti in simigliante piato: / ché voler ciò udire è bassa voglia. >>").

Francesco Abate   

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