sabato 23 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od' io che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Il canto XXXI inizia agganciandosi al rimprovero mosso da Virgilio al suo protetto nei versi finali di quello precedente. Dante infatti constata come la stessa persona prima l'abbia rimproverato, poi l'abbia consolato. Il poeta richiama alla mente l'episodio mitologico della lancia di Achille, che l'eroe ricevette in eredità dal padre Peleo, la quale era in grado con un secondo colpo di rimarginare la ferita che essa stessa aveva causato. 
Dante e Virgilio danno le spalle alla bolgia e si incamminano verso la parete del pozzo di Malebolge senza dire neanche una parola. L'ambiente è poco illuminato, come se fosse il crepuscolo ("...era men che notte e men che giorno") e i pellegrini riescono a vedere poco al di là dei propri volti. Di colpo riecheggia il suono di un corno tanto forte che farebbe sembrare fioco qualsiasi tuono ("ma io senti' sonare un alto corno, / tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco"). Gli occhi del poeta si rivolgono nella direzione da cui proviene il suono. Il corno che Orlando suonò durante la disfatta di Roncisvalle non emise un suono terribile quanto quello udito da Dante. Poco tempo dopo aver voltato la testa, il poeta nota delle torri molto alte e crede siano l'ingresso di un'altra città fortificata come Dite, chiede perciò alla sua guida di quale città si tratti. Virgilio spiega che il lungo periodo passato nell'oscurità spinge adesso Dante e non comprendere nel modo giusto quello che vede, lo esorta perciò ad accelerare il passo perché quando sarà più vicino capirà di essere in errore. La guida però, immaginando l'impressione che susciterà nel suo discepolo la nuova visione, lo prende per mano e gli spiega che quelle non sono torri, ma giganti infilati nel pozzo dall'ombelico in giù ("Poi caramente mi prese per mano / e disse: << Pria che noi siam più avanti, / acciò che 'l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l'umbilico in giuso tutti quanti"). Così come quando la nebbia si dirada e la visibilità aumenta, man mano che si avvicina Dante riesce a distinguere i giganti e a capire il suo errore, provando sempre più paura di fronte a quella visione. Il poeta paragona ciò che vede alle torri che coronavano la fortezza senese di Montereggioni in Val d'Elsa. Come le torri coronavano le mura del castello, così i giganti ("cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona") svettano di mezza persona sul margine del pozzo. Il poeta è sollevato al pensiero che la natura non crei più creature tanto mostruose, togliendo al dio della guerra la possibilità di usarle per seminare distruzione ("Natura certo, quando lasciò l'arte / di sì fatti animali, assai fé bene / per tòrre tali essecutori a Marte"). Se la natura fa bene a continuare a generare elefanti e balene, si può soltanto lodarla perché non continua a creare mostri che alla forza fisica e alla malvagità possano unire l'intelletto ("E s'ella d'elefanti e di balene / non si pente, chi guarda sottilmente, / più giusta e più discreta la ne tene; / ché dove l'argomento de la mente / s'aggiugne al mal volere e a la possa, / nessun riparo vi può far la gente"). 
Dante passa alla descrizione del primo gigante. Per farci comprendere la sua grandezza, paragona come dimensioni la sua faccia alla grossa pigna di bronzo che un tempo stava nel mezzo dell'atrio dell'antica basilica di San Pietro (oggi è in Vaticano), ci dice poi che il busto esce di molto al di sopra del pozzo, tanto che non basterebbero tre uomini della Frisia (regione dell'attuale Germania i cui abitanti all'epoca erano noti per l'alta statura) a raggiungere i suoi capelli. Il poeta vede un'altezza di sette metri dal basso fino alla clavicola del gigante. Facendo una proporzione sulla base delle misure date da Dante, il gigante dovrebbe essere alto circa 25 metri. Comunque è molto probabile che non fosse nelle intenzioni dell'autore fornirci delle misure precise, egli semplicemente volle rendere coi suoi versi l'immensità del gigante e l'impressione che avrebbe potuto generare nell'animo di chi lo avesse visto. Il mostro inizia a gridare << Raphèl maì amècche zabì almi >> e subito Virgilio gli risponde duramente, apostrofandolo come "anima sciocca", esortandolo a divertirsi suonando il corno quando intenzionato a sfogare l'ira o le altre passioni. Terminato il rimprovero al gigante, la guida spiega a Dante che si tratta di Nembrot, l'uomo che col suo peccato ha determinato la presenza di tante lingue diverse nel mondo, e lo invita a non perdere tempo con lui, infatti loro non possono capire ciò che dice e lui non può capire nessuno. Il gigante in questione è il personaggio biblico di Nimrodh, fondatore dell'impero di Babilonia, spinto dalla superbia a costruire la Torre di Babele, scatenò l'ira di Dio che confuse il linguaggio degli uomini. Le prime parole con cui Virgilio spiega a Dante chi egli sia sono "Elli stessi s'accusa", infatti la frase che il gigante pronuncia non appena li vede è un insieme di parole che messe così insieme non hanno un senso compiuto. Nembrot è punito da Dio con l'impossibilità di capire e farsi capire. La presenza del corno è un richiamo alla fama di cacciatore del personaggio biblico.
Dante e Virgilio proseguono il loro giro lungo il bordo del pozzo, imbattendosi in un altro gigante addirittura più grande di Nembrot. Questo gigante è cinto da catene, il braccio sinistro gli è legato al petto mentre il destro alla schiena, tutta la parte del corpo che emerge dal pozzo è legata da cinque giri di catena. Virgilio spiega che si tratta di Fialte, il quale usò la sua forza contro Giove quando i giganti si ribellarono agli dèi, così le braccia che avevano sovrapposto il monte Ossa al Pelio per permettere la scalata verso il padre degli dèi adesso sono immobilizzate dalle catene. Dante chiede alla guida di poter vedere Briareo, un altro gigante mitologico che si ribellò contro gli dèi, Virgilio gli spiega però che questi è più lontano, mentre il prossimo che vedrà è Anteo, il quale può essere compreso e non è legato, può quindi deporre i viaggiatori sul fondo del pozzo. Anteo non è legato perché nacque dopo la ribellione dei giganti, quindi non vi partecipò. Di colpo Fialte si scuote con una violenza mai vista nemmeno in un terremoto che scuote una torre. Il poeta teme più che mai la morte, ma si tranquillizza quando vede le catene che trattengono il gigante ("Non fu tremoto già tanto rubesto, / che scotesse una torre così forte, / come Fialte a scuotersi fu presto. / Allor temett' io più che mai la morte, / e non v'era mestier più che la dotta, / s'io non avessi viste le ritorte").
I poeti proseguono e arrivano presso Anteo, il cui corpo esce dal pozzo di ben sette metri e mezzo. Dante l'altezza la esprime in alle, un'unità di misura usata allora in Fiandra e in Inghilterra. Virgilio si rivolge al gigante, con lui non usa il disprezzo riservato prima a Nembrot. Ecco il discorso completo:
"<< O tu che la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch'avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china, e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancora aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama >>"
Il discorso inizia con una lusinga, col poeta mantovano che fa leva sulla fama di uccisore di leoni di Anteo, ricordandogli il numero indefinito di leoni che uccise nella piana di Zama, dove Scipione sconfisse Annibale. Virgilio poi arriva a dire che, ci fosse stato Anteo, i giganti avrebbero vinto la guerra contro gli dèi. Dopo averlo lusingato, gli chiede di metter giù nel pozzo, dove il gelo ghiaccia lo stagno di Cocito, sia lui che Dante. Perché la sua preghiera sia più efficace, rivela ad Anteo che Dante è vivo e può dargli l'unica cosa che ancora si desidera all'Inferno, cioè la fama tra i vivi. Lo esorta quindi a depositarli sul fondo del pozzo e a non ignorarlo solo per la rabbia della cattiva sorte capitata ai giganti Tizio e Tifo, entrambi uccisi dagli dèi. Sentite le parole di Virgilio, Anteo stende la mano, la cui morsa fu già provata da Ercole (che fu l'assassino del gigante) e lo prende. Non appena si sente preso, il poeta mantovano dice a Dante di avvicinarsi e lo stringe a sé. Vedendo Anteo chinarsi verso di lui, il poeta ricorda un effetto ottico sperimentato al di sotto della Torre di Garisenda a Bologna: mettendosi dal lato della pendenza e guardando in altro, sembra che la torre cada verso le nuvole e non che queste si muovano nel cielo. La visione del gigante in movimento spaventa il poeta, che vorrebbe andar per un'altra strada. Anteo però lievemente posa i due pellegrini sul fondo del pozzo, poi si erge nuovamente come l'albero di una nave ("Qual pare a riguardar la Carisenda / sotto 'l chinato, quando un nuvol vada / sovr' essa sì, che ella incontro penda: / tal parve Anteo a me che stava a bada / di vederlo chinare, e fu tal ora / ch'i' avrei voluto ir per altra strada. / Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con giuda, ci sposò; / né, sì chinato, li fece dimora, / e come albero in nave si levò").

Francesco Abate      

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