Poscia che l'accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: << Voi, chi siete? >>.
<< Anzi che a questo monte fosser volte
l'anime degne di salire a Dio,
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null'altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé. >>
Terminata col canto precedente l'invettiva che Dante ha lanciato all'Italia intera e in particolar modo a Firenze, riprende il racconto dell'incontro tra Sordello e i poeti. L'anima abbraccia quattro volte Virgilio, infine si ritrae e gli chiede chi sia. Sordello infatti non ha riconosciuto il poeta mantovano, la sua gioia è motivata solo dal trovarsi innanzi un concittadino. Virgilio risponde che morì prima dell'avvento della Redenzione, quindi prima della venuta di Cristo, quando non c'era ancora l'espiazione dei peccati sulla montagna del Purgatorio, e le sue ossa furono sepolte per ordine di Ottaviano Augusto; dice infine il suo nome e spiega di aver perso l'eterna beatitudine solo per mancanza di fede, non per altri peccati. Sordello rimane esterrefatto come chi non crede a ciò che vede, poi lo abbraccia umilmente e gli rende omaggio, definendolo colui che ha mostrato la potenza letteraria della lingua latina, lo chiama poi "pregio eterno" dell'Italia e chiede se questo incontro straordinario sia il premio per un suo merito o semplicemente un'opera della grazia divina. L'anima chiede infine al poeta se viene dall'inferno e da quale cerchio. Virgilio racconta di aver superato tutti i cerchi infernali per poter giungere lì; la volontà celeste lo ha spinto a questo viaggio. Spiega il poeta inoltre che ha perduto la beatitudine eterna "non per far, per non fare", cioè non sta pagando il fio di un peccato, ma semplicemente la mancanza di fede, perché solo dopo la morte ha conosciuto la religione Cristiana e la gloria di Dio. Virgilio racconta poi di non essere relegato in un cerchio infernale, si trova nel Limbo, dove non c'è alcun supplizio ma soltanto la consapevolezza di non poter mai raggiungere Dio ("Luogo è là giù non tristo di martiri, / ma di tenebre solo, ove i lamenti / non sonan come guai, ma son sospiri."); sta con i bambini morti prima di essere liberati dal peccato originale mediante il battesimo e con i grandi spiriti che non conobbero le tre virtù teologali (fede, speranza e carità), perché non conobbero Dio, ma esercitarono le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e perciò furono uomini retti. Terminata la sua spiegazione, il poeta chiede a Sordello se può indicargli la via più breve per giungere laddove inizia il vero e proprio Purgatorio. L'anima risponde che agli spiriti dell'antipurgatorio non è imposto di restare in un luogo definito, può muoversi liberamente lungo il monte e tutt'intorno, senza però poter varcare la soglia del Purgatorio; si propone infine come guida per i due pellegrini finché non saranno giunti dove lui non potrà più proseguire. L'anima fa però notare che la notte è ormai prossima e di notte non si può procedere, è opportuno invece pensare a un buon luogo dove riposare. Propone infine di condurre i poeti da un gruppo di anime che sta in disparte, dicendo che alcune gli sono di certo note. Virgilio è sorpreso, non era al corrente di questa legge e chiede se il cammino notturno gli sarà impedito da qualcuno o se verranno a mancare loro le forze. Sordello traccia col dito una riga sul terreno e spiega che, una volta giunta l'oscurità, non sarà possibile varcare nemmeno quella, sarebbe infatti troppo alto il rischio di ritrovarsi a scendere verso il basso o a vagare senza meta intorno al monte.
Virgilio, sentita la spiegazione, invita Sordello a condurlo presso le anime che gli aveva nominato prima. Si allontanano di poco e Dante vede che il monte in quel punto è incavato, come le valli incavano i monti della terra. Sordello dichiara di voler condurre i due pellegrini dove il fianco della montagna di avvalla, lì passeranno la notte. Camminano per un sentiero che a tratti scende e a tratti sale, arrivano sul fianco della piccola valle, in un punto posto a meno di metà dell'altezza della valletta. I colori della natura sono estremamente vivaci e Dante ce li descrive associandoli a cose belle e preziose ("Oro e argento fine, cocco e biacca, / indaco, legno lucido, sereno, / fresco smeraldo ..."). Tanto sono splendidi i colori della natura in quel luogo da essere ciascuno bello più del doppio rispetto all'omologo esistente nel mondo dei vivi. C'è anche un odore indefinibile, frutto della miscelazione di mille magnifici profumi. Dante vede delle anime sedute sui fiori che iniziano a intonare il << Salve, Regina >>, una delle quattro antifone maggiori che si recitano in onore della Vergine Maria. A causa dell'avvallamento non aveva visto prima queste anime. Sordello dice che non li condurrà da loro prima che il sole tramonti; dalla loro posizione è possibile riconoscere i volti di tutti. Inizia a indicare quindi le anime che vuole far conoscere a Virgilio. Quello che siede più in alto di tutti e non canta con gli altri, pentendosi di non essere intervenuto per regolare le sorti d'Italia, è l'imperatore Rodolfo d'Asburgo. Un altro è invece Ottocaro II, che governò la terra dove nasce la Moldava, affluente dell'Elba, che si getta a sua volta nel Mare del Nord, cioè la Boemia. Ottocaro in fasce fu già meglio di suoi figlio Venceslao da adulto, infatti quest'ultimo vive nel peccato e nella lussuria. C'è poi Filippo III l'Ardito, uomo dal naso sottile (infatti Sordello lo chiama "Nasetto"), seduto vicino ad Enrico di Navarra, detto "il Grasso"; Filippo III morì durante la ritirata dopo una battaglia contro gli Aragonesi, per questo disonorò la Francia ("morì fuggendo e disfiorando il giglio"), e ora si batte il petto in segno di pentimento. Ce n'è un altro che tiene la guancia poggiata sul palmo della mano, è Filippo il Bello, figlio di Filippo III e genero di Enrico di Navarra, e viene definito da Sordello "il mal di Francia", per questo fa soffrire i suoi due parenti. Filippo il Bello in vita fu ostile alla Chiesa e all'Impero, Dante lo ritenne uno degli uomini più corrotti del suo tempo e questo spiega il giudizio così duro formulato da Sordello. C'è poi Pietro III d'Aragona che canta insieme a Carlo I d'Angiò, loro che furono nemici in vita. Alle spalle di Pietro III c'è suo figlio, sovrano promettente che però morì giovane; Sordello rimpiange tale avversa sorte, pensando che, se il potere si fosse continuato a trasmettere in una famiglia così eccellente, le cose sarebbero andate meglio di come andarono con Giacomo II e Federico II. Raramente, dice Sordello, la virtù umana risorge dai rami, cioè raramente si trasmette di padre in figlio, perché Dio vuole che essa discenda da Lui. Si riferisce Sordello anche alla discendenza ancora in vita di Carlo I d'Angiò e Pietro III d'Aragona, per mezzo della quale il Regno di Puglia e la Provenza soffrono. Tanto meno onesto e capace del padre è il figlio di Carlo I, quanto migliore fu Pietro III del sovrano angioino (per non ripetere i nomi nel paragone, nella seconda parte Dante cita i nomi delle mogli). In solitudine siede Arrigo III, re d'Inghilterra, la cui discendenza è la migliore. Più in basso di tutti, perché non è re, siede il marchese di Monferrato, Guglielmo VII, la cui morte causò la vendetta del figlio e portò tanti lutti ad Alessandria e nel Canavese.
Il canto VII si collega al precedente sia per la presenza dello stesso personaggio, Sordello, sia per la natura, è infatti anch'esso un canto politico. Mentre nel canto VI la parte politica è sviluppata da Dante stesso attraverso l'invettiva, e Sordello funge solo da pretesto, nel VII è l'anima mantovana a rappresentare l'incarnazione dello spirito patriottico, e dalla sua voce ci giunge una panoramica sui principi che in quegli anni ebbero in mano le sorti dell'Italia e furono negligenti. Questo canto appare quasi come un'amara riflessione circa l'incapacità dei principi di svolgere il proprio ruolo, come appare evidente nella figura dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo, che non canta perché tormentato dalle sue mancanze. Nel canto VI Dante si è lamentato dell'Italia governata male, in questo canto troviamo i colpevoli.
Francesco Abate
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