Contra miglior voler voler mal pugna;
onda contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna.
Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli;
ché la gente che fonde goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.
Il canto inizia con Dante che, pur non essendo ancora appagato dalle parole di Adriano V, rinuncia a chiedere oltre per non scontrarsi con la volontà di quest'ultimo che, come ricordiamo, gli ha chiaramente detto di non voler più parlare con lui. La volontà del poeta mal pugna contro quella del pontefice, cioè a essa deve cedere. Inizia di nuovo a camminare insieme a Virgilio e i due devono avvicinarsi molto alla costa del monte perché il fondo della cornice è completamente occupato dalle anime che piangono per i peccati commessi in vita, che sono gli stessi che si commettono in tutto il mondo ("ché la gente che fonde a goccia a goccia / per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, / da l'altra parte in fuor troppo s'approccia").
Dopo aver descritto il cammino addossato alla parete dei due pellegrini, causato dalla marea di anime in penitenza, l'autore si lascia andare a un'invettiva contro l'antica lupa. Il tono dell'invettiva è violenta, l'autore se la prende contro la bestia che miete più vittime di tutte le altre (la lonza e il leone, ritrovati con la lupa nella selva oscura all'inizio del poema), la cui fame non ha mai fine. Se andiamo con la mente indietro al canto I dell'Inferno, ricordiamo che anche Virgilio ha detto della lupa che "dopo 'l pasto ha più fame che pria". Una delle caratteristiche principali dell'avidità è l'inarrestabilità, più si ottiene ciò che si brama e più si vuole dell'altro, è un circolo vizioso da cui non c'è modo di uscire solo con la ragione umana. L'invettiva diventa poi un'invocazione ai moti celesti, che all'epoca di Dante erano ritenuti causa delle vicende umane; il poeta chiede agli astri quando verrà colui che porrà fine all'esistenza della lupa, riferendosi sicuramente al famoso veltro che sempre nel canto I dell'Inferno abbiamo trovato ("O ciel, nel cui girar par che si creda / le condizion di qua giù trasmutarsi, / quando verrà per cui questa disceda?").
I poeti procedono lentamente e con cautela a causa della ristrettezza del passaggio. Sentono le anime lamentarsi e di colpo Dante ne sente una invocare la Vergine Maria e ricordarne la povertà che le impose di rifugiarsi con Giuseppe e il neonato Gesù in una grotta. Subito dopo invoca il nome del console Caio Fabrizio Luscinio ("O buon Fabrizio"), il quale rifiutò cospicue offerte di denaro fattegli sia per tradire Roma che per avvelenare Pirro, gran nemico dell'urbe. Piacevolmente colpito dalle parole udite, Dante si allontana un po' per vedere meglio colui che le pronuncia. L'anima parla stavolta di san Nicola, ricordando come salvò l'onore di tre fanciulle prossime al matrimonio donando loro di nascosto tre monete d'oro facenti parte di una grossa eredità ricevuta. I tre episodi citati sono tre esempi di comportamenti opposti all'avarizia: nel primo Maria accetta e vive con amore la povertà, nel secondo il console Luscinio salva la propria virtù non lasciandosi corrompere dal denaro, nel terzo san Nicola rinuncia alle proprie ricchezze per salvare la virtù del prossimo.
Colpito dalle parole udite, Dante chiede all'anima di dirgli chi fu in vita e perché solo lei cita gli episodi di virtù contrarie all'avarizia, poi la invoglia a rispondere promettendogli che lo ricorderà una volta tornato nel mondo dei vivi, offrendogli in pratica una ricompensa. L'anima dice che gli risponde non per ottenere preghiere tra i vivi, ma perché nel pellegrino che lo interroga ha scorto una grazia divina non comune in un uomo ancora vivo. Non è da escludere, a parer mio, che tale grazia si manifesti proprio attraverso la presenza di un vivente nell'oltretomba, è evidente per l'anima in questione di essere al cospetto di qualcuno che da Dio ha avuto un gran dono. Detto ciò, l'anima si presenta dicendo che fu il capostipite di una dinastia che infesta ora tutto il mondo cristiano, rendendo così raro che vi nascano buoni nobili e buoni politici ("Io fui radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, / sì che buon frutto rado se ne schianta"). Cita poi le località in cui il suo discendente Filippo il Bello è stato sconfitto dai fiamminghi, auspicando che Dio lo vendichi. Si presenta come Ugo Capeto (Ugo Ciappetta), il capostipite della dinastia dei Capetingi, la quale regnò in Francia fino al 1328 col ramo principale, coi discendenti fino al 1848 (arrivata a quell'anno con il ramo dei Borboni). A questo punto il sovrano racconta la storia sua e dei suoi discendenti, costruita dall'autore attingendo alle varie leggende che circolavano: fu figlio di un mercante di buoi (beccaio); quando furono morti tutti i re di Francia, tranne l'ultimo dei Carolingi che lui stesso aveva fatto chiudere in monastero ("fuor ch'un renduto in panni bigi"), grazie al nuovo potere e alle nuove ricchezze acquisite fece consacrare a Reims sé stesso e suo figlio Roberto, avviando così la tradizioni delle consacrazioni in cattedrale dei sovrani Capetingi ("cominciar di costoro le sacrate ossa"); la sua discendenza non valeva molto, ma non faceva nemmeno così male, finché ottenuta in dote la Provenza iniziò a non provare più vergogna delle proprie azioni, iniziando con inganni e guerre le annessioni di altri feudi (cita il Ponthieu, la Guascogna e la Normandia). Ugo racconta poi che il suo discendente Carlo d'Angiò scese a Napoli, fece decapitare Corradino di Svevia e fece uccidere san Tommaso d'Aquino. Secondo il capostipite dei Capetingi, le azioni di Carlo furono compiute per ammenda, cioè per espiare i peccati compiuti, eppure possiamo vedere come ognuna non faccia altro che accrescere la vergogna del casato. A questo punto Ugo Capeto comincia a parlare del futuro: vede un tempo non molto lontano in cui un altro Carlo (Carlo di Valois) scenderà in Italia per ricordare la vergogna del proprio casato; non verrà armato, userà il tradimento ("la lancia con la qual giostrò Giuda") e riuscirà a colpire Firenze. L'episodio a cui Ugo fa riferimento è la nomina di Carlo di Valois come paciere di Firenze ad opera di Bonifacio VIII, a seguito del quale il sovrano francese otterrà pieni poteri sulla città e darà via libera al governo dei guelfi Neri, dando così inizio alla persecuzione dei Bianchi. Ugo Capeto continua a narrare delle colpe future della sua cittadinanza: Carlo di Valois non otterrà terra né ricchezze dal suo tradimento, solo maggior vergogna; suo figlio Carlo II sarà sconfitto nella battaglia navale di Napoli e fatto prigioniero, poi, una volta libero, venderà sua figlia in matrimonio per soldi così come fanno i corsari con le schiave. Citato l'episodio della vendita della figlia di Carlo II, l'antico sovrano constata come l'avarizia abbia schiavizzato a tal punto la sua stirpe da averne cancellato anche l'amore per i figli ("O avarizia, che puoi tu più farne, / poscia c'ha' 'l mio sangue a te sì tratto, / che non si cura della propria carne?"). Fatta questa breve digressione, torna a elencare i futuri misfatti della sua progenie, arrivando a predire la tentata cattura di papa Bonifacio VIII ordinata da Filippo il Bello per impedirgli di scomunicarlo; in questa vicenda egli paragona il pontefice maltrattato a Gesù Cristo e il sovrano a Ponzio Pilato. Il suo lungo discorso Ugo Capeto lo conclude chiedendo al Signore quando potrà vedere l'ira divina punire le colpe della sua gente ("O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?"). Questo desiderio del sovrano non va confuso con la legge del taglione dell'Antico Testamento, quello che Ugo Capeto vuole non è la vendetta divina, ma solo il concretizzarsi della giustizia con la punizione dei malvagi e il trionfo del bene sul male.
Terminato il lungo discorso sui peccati della sua stirpe, Ugo Capeto risponde alla seconda domanda di Dante, cioè gli dice perché stesse elencando quegli episodi che abbiamo visto sopra. Spiega che tutte le anime ripetono i buoni esempi dopo le preghiere durante l'intero giorno, poi di notte passano a elencare quelli di avarizia punita. Cita alcuni esempi: Pigmalione, il quale uccise lo zio e cognato Sicheo per impossessarsi del suo oro, tradendo la sorella Didone, che fu costretta a rifugiarsi in Africa; re Mida, il quale ebbe in dono da Bacco il potere di mutare in oro qualsiasi cosa toccasse, finendo però per morire di fame a causa dell'impossibilità di portare cibo alla bocca senza mutarlo in oro; Acàn, che disobbedì a Giosuè e tenne per sé alcune delle ricchezze che invece dovevano essere bruciate, venendo perciò punito con la lapidazione; Saffira e il marito, i quali vendettero i loro beni e tennero per sé il ricavato, fingendo però di averlo donato agli apostoli, e per punizione morirono; Eliodoro, ministro del re di Siria Seleuco IV, che tentò di rubare le ricchezze del Tempio di Gerusalemme e per questo fu calpestato da un cavallo venuto dal cielo e fustigato da due angeli; Polinestore che uccise Polidoro per rubarne il tesoro; il triumviro Crasso, al quale il re dei Parti, dopo averlo ucciso, fece colare in bocca dell'oro fuso per ricordarne la fame di ricchezze. A volte, spiega Ugo Capeto, alcune anime parlano più forte e altre più piano, secondo lo slancio del momento, ma gli esempi di virtù uditi prima da Dante non li stava citando solo lui, tutte le anime lo imitavano tenendo la voce più bassa, perciò si era udita solo la sua.
I poeti tornano a mettersi in cammino, procedendo sempre con la lentezza imposta dal tragitto stretto, quando d'un tratto un terremoto scuote il monte e spaventa a morte il povero Dante ("quand'io senti', come cosa che cada, / tremar lo monte; onde mi prese un gelo / qual prender suol colui ch'a morte vada"). Il poeta immagina che non tremasse tanto l'isola di Delo sulle onde del mar Egeo prima che Latona la scegliesse per partorirvi Apollo e Diana (il dio del Sole e la dea della Luna, quindi "li due occhi del cielo"). Mentre il monte trema, le anime gridano << Gloria in excelsis Deo >>, che in italiano vuol dire "Gloria a Dio nell'alto dei cieli" ed è la prima parte del coro che gli angeli intonarono sulla grotta di Betlemme. Virgilio si avvicina a Dante e gli dice di seguirlo e di non aver paura. I due restano meravigliati e fermi come i pastori quando videro gli angeli finché il canto e il terremoto non cessano. A questo punto riprendono il cammino, osservando le anime tornate a piangere sui loro peccati distese al suolo.
Il canto si conclude con l'autore che osserva come quello forse fu il momento della sua esistenza in cui ebbe maggior desiderio di capire e contemporaneamente maggior timore di chiedere; non riesce con la sola ragione a comprendere il fenomeno appena osservato, la fretta del cammino gli impedisce però di fermarsi a chiedere spiegazioni su quanto è successo. L'ultimo verso rende perfettamente lo stato d'animo del poeta: "così m'andava timido e pensoso".
Francesco Abate
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