Cantando come donna innamorata,
continuò col fin di sue parole:
<< Beati quorum tecta sunt peccata! >>.
Appena finito di parlare, Matelda riprende a cantare come una donna innamorata. Quest'espressione richiama il verso 7 della IX Ballata di Guido Cavalcanti che recita: "cantando come fosse 'namorata". L'amore che manifesta la donna col suo canto non è ovviamente quello carnale proprio dei vivi, ella rivela l'amore per Dio e quello per il poeta affidato alle sue cure nel Paradiso terrestre. Cantando, Matelda pronuncia una frase in latino che riprende il salmo 32 e dichiara beati coloro a cui sono perdonati i peccati; questa frase può essere messa in relazione con l'imminente immersione di Dante nel Letè, grazie alla quale dimenticherà i suoi peccati. Come le ninfe che cercavano la solitudine all'ombra degli alberi o alla luce del sole, così si muove Matelda in direzione opposta alla corrente del fiume ("contra 'l fiume") e Dante la segue come se le camminasse accanto, pur essendo separato da lei dalle acque del Letè ("E come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre, disiando / qual di veder, qual di fuggir lo sole, / allor si mosse contra 'l fiume, andando / su per la riva; e io pari di lei, / picciol passo con picciol seguitando"). Il richiamo alle ninfe fatto dall'autore serve a mantenere quell'aura di beatitudine che aleggia sul Paradiso terrestre, la loro ricerca dell'ombra o del sole rende la scena simile a quelle scelte dai poeti classici e ci trasporta in un luogo fatato e pregno di una mistica pace. I passi del poeta e della donna, sommati, non arrivano ancora a cento quando il corso del fiume vira di novanta gradi e Dante si ritrova col volto verso levante. Camminano un altro po', dopo di che Matelda si gira verso di lui e lo invita a guardare e ascoltare. Una luce improvvisamente illumina tutta la foresta, dando al poeta l'impressione che lampeggi come fanno i lampi ("tal che di balenar mi mise in forse"), ma questa non è intermittente, bensì cresce sempre più d'intensità e lo spinge a chiedersi cosa sia. Oltre alla luce, nell'aria si diffonde una dolce melodia che fa nascere in Dante un giusto sdegno per il peccato di ribellione commesso da Eva la quale, nel luogo dove tutto è in armonia, non tollerò il comando divino di non mangiare il frutto dell'albero della scienza del bene e del male. Se Eva non avesse disobbedito, ragiona Dante, il Paradiso terrestre sarebbe stato ancora oggi di tutti gli uomini e lui avrebbe potuto godere di quella meraviglia dalla nascita e per tutta la vita terrena. Nei versi in cui è descritto lo sdegno di Dante per il peccato di Eva, c'è un'espressione che nel tempo è stata interpretata in due modi differenti ed è contenuta nel verso 25 ("che là dove ubidia la terra e 'l cielo"): secondo alcuni critici questo verso indica l'armonia che c'è nel Paradiso terrestre, mentre altri in là dove leggono una congiunzione avversativa che cambia lievemente il significato del verso, creando una netta contrapposizione tra la terra e il cielo, ubbidienti al volere divino, ed Eva, che disubbidì. Mentre il poeta gode stupito dei primi segni della beatitudine eterna, desideroso di godere di altre letizie (come l'apparizione di Beatrice), davanti a lui l'aria si illumina come se fosse un fuoco, mentre capisce che il suono è un canto ("Mantr'io m'andava tra tante primizie / de l'etterno piacer tutto sospeso, / e disioso ancora a più letizie, / dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, / ci si fé l'aere sotto i verdi rami; / e 'l dolce suon per canti era già inteso").
Dopo aver iniziato a cantarci la visione sulle rive del Letè, l'autore interrompe la descrizione per riprendere l'invocazione alle Muse fatta nel canto I e ampliarla, ha infatti bisogno di un aiuto superiore per rendere efficacemente in versi non solo ciò che vide, ma l'effetto che ebbe sulla sua anima. Inizia l'invocazione ricordando che per coltivare il suo amore per la scrittura spesso ha ignorato i suoi bisogni fisici, perciò si sente autorizzato a chiedere il loro aiuto. E' necessario che il monte Elicona, sede delle Muse, versi in lui l'acqua delle sue fonti, e che Urania lo aiuti a mettere in versi cose che sono difficili anche solo da pensare ("O sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. / Or convien che Elicona per me versi, / e Uranìe m'aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi").
Terminata l'invocazione alle Muse, l'autore riprende la descrizione della visione. Vede poco lontano sette alberi d'oro, ma avvicinandosi si accorge di essere stato ingannato dalla distanza, in realtà sono sette candelabri d'oro, inoltre riesce a distinguere le parole del canto e capisce che le voci dicono << Osanna >>. Le fiamme poste alla sommità dei candelabri sono più luminose della luna piena a mezzanotte. Dante è carico di stupore e si volta verso Virgilio, il quale dallo sguardo tradisce altrettanta meraviglia. Volge di nuovo lo sguardo alla visione, guardando le altre cose che procedono così lentamente da poter essere vinte da delle spose novelle. Matelda rimprovera il poeta, chiedendogli perché si soffermi a guardare solo le luci e ignori invece quello che c'è dietro ("La donna mi sgridò: << Perché pur ardi / sì ne l'affetto de le vive luci, / e ciò che vien di retro a lor non guardi? >>"). Dante infatti, sorpreso da tanta meraviglia, sta solo ammirando, mentre da lui si esige adesso una contemplazione profonda: quel miracolo non può essere guardato con leggerezza. Adesso il poeta vede delle persone, vestite con abiti tanto candidi da non avere eguali nel mondo dei vivi, seguire i candelabri come fossero le loro guide. Tanta è forte la luce dei candelabri da far risplendere le acque del Letè come fossero uno specchio, inoltre queste riflettono la sua immagine. Raggiunta una posizione ottimale in cui solo le acque del fiume lo separano dal corteo, il poeta si ferma per guardare meglio, e vede i candelabri d'oro procedere e lasciare dietro di sé l'aria colorata, come se fossero dei pennelli che colorano una tela, e sopra di loro restano i sette colori dell'iride, quelli con cui il Sole forma il suo arcobaleno e la Luna (Delia) l'alone intorno a sé. Questi stendardi, così definisce le strisce di luce, si estendono tanto indietro da non poterne scorgere la fine, e il poeta ipotizza che i due più esterni siano distanti tra loro dieci passi.
Sotto questo bellissimo cielo colorato, passano a due a due ventiquattro signori che indossano corone di gigli (fiordaliso), i quali intonano un canto di benedizione alla Vergine Maria e agli effetti benefici della sua fede.
Ai ventiquattro signori seguono quattro animali, ciascuno coronato di una verde fronda, ciascuno con sei ali le cui penne sono coperte di occhi simili a quelli che avrebbe Argo (pastore dai cento occhi che, secondo la mitologia, fu decapitato da Mercurio per liberare Io) se fosse vivo. L'autore ci dice che non userà altri versi per descriverci l'aspetto degli animali, ci sono infatti cose più importanti da raccontare, ci dice poi di leggere Ezechiele per scoprirne l'aspetto; essi sono infatti come sono descritti nel libro di Ezechiele, solo che di ali ne hanno sei e non quattro, su questo particolare fu più preciso san Giovanni ("A descriver lor forme più non spargo / rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, / tanto ch'a questa non posso esser largo; / ma leggi Ezechiel, che li dipigne / come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; / e quali i troverai ne le sue carte, / tali eran quivi, salvo ch'a le penne / Giovanni è meco e da lui si diparte").
Nello spazio tra le quattro fiere c'è un carro trionfale che si muove su due ruote ed è trainato da un grifone. Il grifone tende verso l'alto le sue ali, tra le quali comprende la lista mediana, e le ha disposte in modo da avere tre liste a un lato e tre a un altro, senza fenderne nessuna. Tanto in alto arrivano le sue ali da non essere visibili, le membra d'uccello sono d'oro e le altre sono bianche o rosso sangue (vermiglio). A Roma non fu dedicato né a Scipione l'Africano né ad Augusto un carro bello come quello che adesso vede Dante; perfino il carro del Sole, che Giove bruciò dopo che Fetonte l'ebbe portato fuori dalla sua via, apparirebbe misero al confronto.
Vicino alla ruota di destra ci sono tre donne che procedono danzando: una è così rossa che dentro al fuoco si noterebbe a malapena, un'altra è verde come lo smeraldo, la terza è candida come la neve. La danza delle tre donne a volte sembra guidata dalla rossa, a volte dalla bianca, mentre il ritmo è dato dal canto di quest'ultima.
Vicino alla ruota di sinistra ci sono quattro donne vestite di rosso porpora che danzano guidate da quella di loro che ha tre occhi.
Dietro al carro ci sono due vecchi vestiti in modo differente, ma identici nell'atteggiamento dignitoso e solenne. Uno si mostra come seguace di Ippocrate, quindi è un medico, il quale fu creato dalla Natura per gli animali che ha più cari; l'altro mostra una propensione diversa dal medico, non quella di curare ma quella di ferire, con una spada lucida e appuntita che spaventa Dante sull'altra riva del fiume. Seguono quattro uomini dall'aspetto umile, dietro i quali procede solitario un vecchio in estasi (dormendo) con lo sguardo penetrante (la faccia arguta). Questi sette sono vestiti come i ventiquattro signori passati prima, ma a differenza di quelli non hanno la corona di giglio, bensì sono coronati di rose e altri fiori vermigli. Giurerebbe, ci dice l'autore, che quegli uomini stessero ardendo sopra la fronte.
Quando il carro arriva di fronte a Dante, un tuono riecheggia nell'aria e quel corteo, come se avesse il divieto di procedere oltre, si ferma con i candelabri (le prime insegne).
Molto forte è in questo canto la componente allegorica, la descrizione del corteo è molto ricca di simboli il cui significato ho preferito non spiegare man mano per non appesantire troppo la narrazione.
La prima immagine, quella che apre il corteo, è quella dei sette candelabri d'oro, che Dante inizialmente scambia per sette alberi. Le interpretazioni principali circa il loro significato sono due: per alcuni rappresentano i sette sacramenti, per altri i sette doni dello Spirito Santo (Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà e Timor di Dio). Forse si potrebbe propendere più per la seconda interpretazione visto che alla sommità di questi c'è una fiamma ardente, e sappiamo benissimo che il fuoco è simbolo dello Spirito Santo. Inoltre i sacramenti sono un'istituzione della Chiesa, che nel corteo verrà dopo, mentre i candelabri la precedono e sono le insegne del corteo, quindi sono maggiormente assimilabili coi doni dello Spirito Santo, i quali guidano la Chiesa nel suo cammino. Le persone che seguono i candelabri usandoli come guida probabilmente rappresentano i giusti del Vecchio Testamento, la cui fede è pura in modo quasi ineguagliabile (gli abiti straordinariamente candidi). Per quanto riguarda i sette colori dell'iride formati dai candelabri, non dimentichiamo che nella Bibbia l'arcobaleno è simbolo della rinnovata alleanza tra Dio e uomo dopo il diluvio universale, inoltre anche nella mitologia gli veniva riconosciuto un carattere sacro. I dieci passi che separano i due colori estremi probabilmente rappresentano i dieci comandamenti.
I ventiquattro signori Dante li riprende probabilmente dall'Apocalisse, dove essi compaiono innanzi al trono di Dio. San Girolamo in essi vide i ventiquattro libri del Vecchio Testamento. I gigli che coronano la testa dei signori rappresentano la fede che animò coloro che scrissero quei libri. Lo Spirito Santo è il vero autore delle Sacre Scritture, ispirò coloro che le scrissero, per questo essi con la loro fede pura seguono i candelabri così da vicino.
I quattro animali sono i quattro evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), rappresentati secondo la profezia di Ezechiele e ancora oggi spesso raffigurati con le immagini di animali simbolici (simboli introdotti da San Ireneo). Le ali sono sei come quelle dei serafini e rappresentano la rapidità con cui si diffuse il messaggio evangelico; in esse invece Pietro di Dante vide le sei leggi: naturale, mosaica, profetica, evangelica, apostolica, canonica. La presenza di occhi sulle ali, sia davanti che dietro, indica la perfezione dei vangeli, i quali vedono nelle cose passate e nelle cose future.
Tra i quattro evangelisti c'è il carro, che rappresenta la Chiesa. A trainare la Chiesa c'è il grifone, che rappresenta Gesù Cristo. Per la figura di Cristo, Dante sceglie il grifone perché col suo corpo dalla forma duplice (testa e ali d'aquila, corpo da leone) rappresenta la natura contemporaneamente umana e divina del Figlio di Dio. Le ali del grifone arrivano così in alto da non poter essere viste, questo perché l'elemento divino non può essere compreso dalla ragione umana, inoltre l'autore ci specifica come non fendano nessun colore, questo per mostrarci come la figura di Cristo proceda in armonia coi doni dello Spirito Santo.
Le tre fanciulle alla destra del carro sono le virtù teologali: carità, speranza, fede. La carità si distingue per l'ardore spirituale ed è perciò rappresentata dalla fanciulla rossa, la speranza è quella verde mentre la fede quella bianca. Le virtù teologali sono a volte guidate dalla fede, altre dalla carità, questo perché la fede è la via dell'amore e questo accresce la fede.
Dall'altro lato ci sono quattro donzelle che rappresentano le virtù cardinali, cioè i pilastri di una vita dedicata al bene: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Guida la loro danza la prudenza, che ha tre occhi perché, scriveva Dante nel Convivio, per l'esercizio di questa virtù ci vogliono buona memoria delle cose viste, buona conoscenza delle presenti e buona capacità di prevedere quelle future.
I sette signori che chiudono il corteo sono gli altri scrittori neotestamentari. Sono citati: san Luca, il medico, che scrisse gli Atti degli Apostoli; San Paolo, il quale brandisce la spada che rappresenta la parola di Dio, lui infatti non si preoccupò di curare il corpo ma di aprire le anime. Il vecchio solitario rappresenta l'Apocalisse di san Giovanni, che vede la fine dei tempi (l'estasi e lo sguardo arguto). Nei sette signori Pietro di Dante vide invece i dottori della Chiesa come sant'Agostino e san Tommaso, giusto per citarne un paio, ma nel complesso la visione abbraccia tutto lo sviluppo della Bibbia, quindi sembra più plausibile la teoria degli ultimi scrittori neotestamentari come san Luca e san Paolo.
Francesco Abate
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