Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da nona riarse,
sì stava il sole: onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Il canto XXVII del Purgatorio si apre con una descrizione poetica che permette di determinare l'esatto momento del giorno indicando la posizione esatta del sole in tre diverse parti della Terra: Gerusalemme, la Spagna e l'India. Gerusalemme è indicata come "là dove il suo fattor lo sangue sparse", con chiaro riferimento al sacrificio di Gesù il quale, essendo parte della Trinità, è assimilabile al Creatore (quindi il "fattore"). E' quell'ora in cui il sole a Gerusalemme sta sorgendo ("i primi raggi vibra"), in Spagna (rievocata facendo riferimento al fiume Ibero, cioè l'Ebro) il cielo invece è dominato dalla costellazione della Bilancia, mentre in India (sul Gange) è mezzogiorno. In quel preciso momento compare l'angelo di Dio, il quale sta fuori dalla fiamma, sull'orlo estremo della cornice, e canta "Beati mundo corde!" ("Beati i puri di cuore"), facendo riferimento alla beatitudine che ritroviamo nel Vangelo di Matteo e che per intera recita così: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". L'angelo spiega ai poeti che non è possibile procedere oltre senza aver prima attraversato il fuoco, li invita perciò a entrare e a seguire le indicazioni dell'angelo che troveranno dall'altra parte. Sentito l'invito, Dante si spaventa e diventa pallido come un cadavere ("per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, / qual è colui che ne la fossa è messo"); resta a contemplare le fiamme tenendo le mani giunte e nella mente rivede le immagini di corpi arsi vivi visti nel corso della sua vita. Virgilio e Stazio captano la sua esitazione e si voltano verso di lui. La guida gli parla e gli ricorda che in quel luogo può esserci la sofferenza, ma non la morte; gli ricorda poi che l'ha guidato indenne sopra il mostro Gerione, il gigante di cui si servirono all'Inferno (canto XVII) per scendere dal cerchio dei violenti a quello dei frodatori, quindi è impossibile che lo lasci perire adesso che è così vicino al Paradiso ("Ricorditi, ricorditi! E se io / sovresso Gerion ti guidai salvo, / che farò ora presso più a Dio?"), e lo rassicura dicendogli che non subirebbe alcun danno in quelle fiamme nemmeno se ci stesse mille anni ("Credi per certo che se dentro a l'alvo / di questa fiamma stessi ben mille anni, / non ti potrebbe far d'un capel calvo"). Nonostante la sua esortazione, Virgilio legge in Dante ancora un'esitazione, per questo lo esorta a fare una prova, cioè prendere un lembo della sua veste e accostarlo alla fiamma, poi lo incita ancora una volta ad abbandonare ogni timore ed entrare sicuro tra le fiamme. Nonostante le rassicurazioni del maestro, il poeta rimane fermo, incapace di vincere la paura, allora Virgilio cambia tattica e gli spiega che quel fuoco è l'ultimo ostacolo che lo separa da Beatrice. Come previsto, Dante non rimane indifferente al nome dell'amata e ci spiega la sua reazione emotiva richiamando il mito di Piramo e Tisbe. Secondo le Metamorfosi di Ovidio, Piramo e Tisbe erano due amanti babilonesi. Essendo il loro amore osteggiato, si diedero un appuntamento segreto sotto un gelso, presso la tomba di Nino. Arrivò prima Tisbe, la quale però fuggì alla vista di una leonessa, perdendo un velo che l'animale macchiò di sangue; quando Piramo arrivò sul luogo dell'appuntamento e vide il velo sporco di sangue, credette morta l'amata e si ferì mortalmente. Tisbe tornò sotto al gelso e Piramo, sentendola, riaprì gli occhi; si guardarono per un istante, poi insieme morirono, e i frutti del gelso da bianchi divennero rossi per via del sangue versato dallo sfortunato amante. Al solo sentire il nome di Beatrice, la paura di Dante si attenua e lui si volge verso il maestro, così come Piramo morente aprì gli occhi quando sentì sopraggiungere l'amata Tisbe ("Come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che 'l gelso diventò vermiglio; / così, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla"). Vedendo finalmente deciso il suo allievo, Virgilio abbassa la voce e scherza, poi sorride come la madre che sente di aver convinto il figlio a fare qualcosa con la promessa di un dono.
Virgilio entra per primo nel fuoco, poi prega Stazio di procedere dietro Dante, mentre fino a quel momento era stato tra loro. Il momento è delicato e la guida avverte la necessità di avere l'allievo vicino. Le fiamme sono così ardenti da far apparire rinfrescante anche il vetro bollente ("Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro / gittato mi sarei per rinfrescarmi, / tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro"). Virgilio parla di Beatrice per alleviare la pena di Dante e dice che gli sembra già di vedere i suoi occhi. Per muoversi tra le fiamme seguono una voce che canta, così riescono a uscirne e si trovano ai piedi della scala che conduce al Paradiso terrestre. Una voce, emessa da una luce così forte da non poter essere guardata, la voce dell'angelo, invita i poeti ad accedere al Paradiso usando le stesse parole che userà Gesù il giorno del giudizio universale: "Venite, benedicti Patris mei" ("Venite, benedetti dal Padre mio"). L'angelo ricorda poi alle anime che sta per arrivare la notte, momento in cui non è possibile procedere nel Purgatorio, li incita però a non fermarsi e li esorta a sfruttare il poco tempo rimasto per studiare il cammino da fare. La scala sale dritta verso levante, il poeta sale e proietta l'ombra davanti a sé, facendo col suo corpo schermo ai raggi del sole che è già basso sull'orizzonte. Salgono pochi gradini, poi si accorgono che l'ombra non c'è più, segno che il sole è tramontato del tutto. I poeti, prima che il cielo sia completamente oscurato, fanno ciascuno di un gradino un letto, perché la natura del Purgatorio li priva delle energie e della voglia di salire. L'autore descrive poi due scene pastorali per introdurre una metafora che decori l'immagine dei tre pellegrini in sosta sulle scale: la prima è un'immagine diurna in cui le capre, dopo esser state ribelli e agitate durante il giorno, avendo la pancia piena, ruminano mansuete all'ombra, mentre il pastore vigila su di loro poggiato al bastone; la seconda è invece un'immagine notturna in cui il pastore, in un luogo aperto, vigila sul gregge affinché i lupi non lo disperdano. Descritte le immagini, l'autore paragona sé stesso alla capra e le due guide ai pastori, distesi sui gradini e protetti ai due lati dalle pareti della montagna ("Quali si stanno ruminando manse / le capre, state rapide e proterve / sovra le cime avante che sien pranse, / tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, / guardate dal pastor, che 'n su la verga / poggiato s'è e lor poggiato serve; / e quale il mandrian che fori alberga, / lungo il pecuglio suo queto pernotta, / guardando perché fiera non lo sperga; / tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori, / fasciati quinci e quindi d'alta grotta"). Tra quelle pareti si vede poco dell'ambiente esterno, ma le poche stelle che vede sembrano a Dante più grandi e splendenti; mentre riflette e guarda il cielo, lo prende quel sonno che spesso annuncia gli avvenimenti prima che accadano.
Nell'ora in cui Venere, che sembra sempre ardere del fuoco d'amore, appare a oriente (l'autore scrive credo, infatti stava dormendo e non poteva vederla, ma lo deduce perché è l'ora dei sogni premonitori), sogna una donna giovane e bella che cammina in aperta campagna e raccoglie fiori, le sente cantare che si chiama Lia e che si sta facendo una ghirlanda, mentre sua sorella Rachele passa tutto il giorno seduta a guardarsi allo specchio: Rachele è appagata dal contemplare la propria bellezza, Lia invece dall'operare per abbellirsi. L'allegoria del sogno è piuttosto evidente: Lia rappresenta la vita attiva, invece Rachele la vita contemplativa; inoltre questo sogno prefigura l'apparizione nel Paradiso terrestre di Matelda e Beatrice. La scelta per l'allegoria di Lia e Rachele, due personaggi della Genesi, è dovuta probabilmente a una caratteristica della loro storia che si presta all'accostamento con la vicenda di Dante narrata nella Commedia. Secondo la Genesi, Giacobbe era innamorato di Rachele e, d'accordo con il padre di lei, Làbano, lavorò sette anni per averla, ma fu ingannato e gli fu data in sposa la sorella Lia; scoperto l'inganno, dovette lavorare altri sette anni per avere anche Rachele. Giacobbe passò sette anni per avere Lia e altri sette per Rachele, così come Dante nella Commedia passa per sette purificazioni e beatitudini: la ricorrenza del sette nella storia biblica di Rachele e Lia probabilmente ha spinto Dante a usarle per questa allegoria.
Il cielo inizia a essere rischiarato dall'aurora, che l'autore chiama splendori antelucani (ante lucem, da qui deriva antelucani). La luce dell'aurora risulta tanto più gradita al pellegrino quanto più è vicino alla meta, le tenebre spariscono così come il sonno di Dante, che si alza e vede già in piedi Virgilio e Stazio. Il poeta mantovano dice all'allievo che l'albero della felicità oggi sazierà la sua fame e l'autore scrive che nessun buon augurio ha mai dato tanto piacere quanto quelle parole. Tanta è la voglia di giungere alla sommità della scala, che a ogni gradino salito Dante sente la sensazione di volare; la voglia di vedere Beatrice, la consapevolezza dell'imminenza di tale incontro e l'augurio di Virgilio hanno acuito la voglia di giungere a destinazione del poeta. Arrivati alla sommità della scala, Virgilio guarda intensamente negli occhi il suo allievo e gli fa un breve discorso: gli ricorda che ha visto il fuoco eterno (l'Inferno) e quello provvisorio (il Purgatorio), adesso è giunto in un luogo dove lui, la sua guida, non può più vedere e comprendere (la sola ragione non basta a comprendere le cose divine); gli spiega che lo ha portato fin lì con il suo intelletto (ingegno) e la sua esperienza pratica (arte), adesso lo incita a farsi guidare dal proprio piacere ("lo tuo piacere omai prendi per duce"), ora è fuori dalle vie pericolose e strette del peccato. Fatto il discorso, Virgilio mostra a Dante la natura rigogliosa e lo invita ad addentrarsi in essa finché non incontrerà Beatrice, "li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno", gli dice infine di non aspettare più sue indicazioni e lo incorona sovrano di sé stesso ("Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch'io te sovra te corono e mitrio").
Virgilio con quest'ultimo discorso si congeda da Dante e dall'opera. Egli rappresenta la ragione la quale, come già detto, non può comprendere il disegno divino. Grazie all'opera della ragione (arte e ingegno), Dante si è purificato e ha rivolto la sua volontà al bene, quindi nel Paradiso terrestre può affidarsi al suo piacere, che non è più corrotto dal peccato, e per la comprensione più profonda del Paradiso viene affidato alla teologia, Beatrice.
Francesco Abate
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