<< O tu che se' di là dal fiume sacro >>,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m'era paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta,
<< dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta. >>
Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Il canto inizia da Beatrice la quale, dopo essersi rivolta agli angeli, volge il suo discorso direttamente a Dante. Il poeta fiorentino ha già sentito la durezza delle parole pronunciate dalla donna quando gli si è rivolta indirettamente, parlando con gli angeli, ancor più la percepisce ora che queste sono rivolte direttamente a lui; le parole di Beatrice sono descritte dall'autore come una spada che lo ha colpito prima "per taglio" e ora "per punta". Nel canto precedente il poeta ha paragonato l'atteggiamento della sua musa spirituale a quello di una madre che si mostra adirata col figlio discolo; anche qui il paragone continua a reggere, infatti lei dopo la ramanzina pretende da lui una confessione, esattamente come il genitore che chiede spiegazioni al figlio pur conoscendone già la colpa. Beatrice chiede al suo protetto di confessare i suoi peccati e confermare ciò che ha detto. Tanto è forte il senso di colpa in Dante, che la sua forza d'animo viene meno e la voce gli muore sulle labbra nel momento in cui tenta di parlare. Beatrice non aspetta un istante, incalza Dante con un << Che pense? >> e ricordandogli che non può aver dimenticato le sue colpe ("memorie triste") perché ancora non ha bevuto le acque del Letè. La confusione e la paura che nascono dalla vergogna provata dal poeta lo spingono a pronunciare un sì così flebile da poter esser compreso solo leggendo il labiale, non ha nemmeno la forza di pronunciare con decisione la sillaba e ammettere chiaramente le proprie colpe davanti a colei che lo accusa. La voce, ci dice l'autore, esce lieve così come debole è l'urto della freccia scoccata da una balestra la cui corda, troppo tesa, si spezza al momento del lancio; la freccia della metafora perde forza a causa del cedimento della corda causato dall'eccessivo carico, la voce del poeta si spegne a causa del pianto in cui scoppia per via del peso eccessivo delle proprie colpe ("Confusione e paura insieme miste / mi pinsero un tal << sì >> fuor de la bocca, / al quale intender fuor mestier le viste. / Come balestro frange, quando scocca / da troppa tesa, la sua corda e l'arco, / e con men foga l'asta il segno tocca, / sì scoppia'io sottesso grave carco, / fuori sgorgando lagrime e sospiri, / e la voce allentò per lo suo varco"). Torna a parlare Beatrice, la quale gli chiede quali fossati o quali catene l'avevano spinto ad abbandonare la speranza di superarli, nonostante il desiderio del bene superiore che lei gli aveva suscitato; gli chiede poi quali facilitazioni e quali vantaggi abbia trovato nell'aspetto dei beni illusori, così da desiderarli e dimenticare quelli realmente buoni. Dante, piangendo e con la voce a stento udibile, ammette di aver avuto davanti agli occhi dei piaceri falsi che ne avevano distolto il cammino, e ciò era accaduto dopo la morte dell'amata Beatrice ("Piangendo dissi: << Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che 'l vostro viso si nascose >>"). Sentita la confessione del poeta, la donna gli spiega che non ha senso tacere o negare le proprie colpe, esse sono infatti note a Dio, che è un giudice infallibile; quando però il peccato è confessato dal peccatore, nonostante egli riveli una verità già nota, si mette in opera la misericordia e la ruota che affila le armi che lo colpiranno viene girata al contrario, così da spezzarle anziché affilarle. Detto ciò, Beatrice dice a Dante di fermare il suo pianto e ascoltarla, infatti adesso si vergogna dei suoi errori, ma ha bisogno di una lezione che gli permetta di non ripeterli, vuole perciò spiegargli come la perdita dell'amata avrebbe dovuto spingerlo a un comportamento diverso: la sua poesia e la creazione di Dio non gli avevano mai mostrato nessuna forma terrena più bella di lei, le cui membra sono adesso sepolte, e quella prima esperienza della caducità delle cose terrene avrebbe dovuto spingerlo al culto della forma spirituale dell'amata, non farlo andare alla ricerca di altre donne o altri piaceri terreni. Beatrice conclude il discorso con una metafora: l'uccello giovane non fugge dai colpi del cacciatore se non dopo averne sentiti due o tre, invece quello adulto fugge subito dalla rete e dai dardi; Dante avrebbe dovuto, dopo la perdita dell'amata, fare come l'uccello maturo e fuggire dalle trappole del peccato, invece come quello giovane è stato fermo e si è esposto alle altre tentazioni. Il poeta ascolta la spiegazione della donna a testa bassa a causa della vergogna, lei però lo invita ad alzare lo sguardo e guardarla, così da sentire ancora di più il dolore che gli causano ora quelle parole. Nell'invitarlo ad alzare lo sguardo, Beatrice gli dice di alzare la barba, questo con l'intento di rafforzare il rimprovero usando l'ironia, ricordandogli che è un uomo e non un bambino. Dante obbedisce all'amata non senza sforzo, la resistenza che oppone è superiore a quella che il cerro oppone al vento proveniente dall'Africa, dalla terra di Iarba (personaggio dell'Eneide), quando viene da questo sradicato, anche perché ha colto l'ironia contenuta nell'invito. Appena alzato lo sguardo, si accorge che gli angeli (prime creature) hanno smesso di spargere i fiori, e i suoi occhi (le mie luci) ancora poco sicuri vedono Beatrice volta verso il Grifone, che è una sola persona in due nature. Forte è il simbolismo in questi versi: la fede (Beatrice) è rivolta completamente verso Gesù Cristo (il Grifone) che è una persona con due nature (umana e divina). La vede sotto il velo, dall'altra parte del fiume, e gli sembra più bella di quanto fosse stata in vita, supera sé stessa in bellezza più di quanto in vita superava le altre donne. Vedendola così bella, è punto dal pentimento come fosse ortica, e maledice tutte quelle cose che lo hanno spinto lontano da lei ("Sotto 'l suo velo e oltre la rivera / vincer pariemi più sé stessa antica, / vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. / Di penter sì mi punse ivi l'ortica, / che di tutte altre cose qual mi torse / più nel suo amor, più mi si fé nemica"). Vedendo Beatrice, l'anima di Dante è vinta dalla consapevolezza delle sue colpe e lui sviene, così ciò che accade dopo è noto solo alla donna.
Quando il cuore riprende il suo battito regolare e restituisce al corpo di Dante le forze, così da farlo riprendere, vede sopra di lui Matelda che lo invita ad aggrapparsi a lei. La donna lo immerge nel Letè fino alla gola e se lo tira dietro mentre cammina sulle acque come una piccola barca. Arrivato nei pressi dell'altra riva, beata perché è quella dove staziona il corteo con Beatrice, sente cantare << Asperges me >> in una maniera tanto dolce che non solo gli è impossibile da descrivere, ma anche da ricordare. Aperges me sono le parole contenute nei versi di un Salmo che venivano cantati quando una chiesa veniva sparsa di acqua santa. Questi versi vengono cantati ora mentre Matelda (la bella donna) prende tra le braccia la testa di Dante e la spinge sott'acqua, costringendolo a bere le acque del fiume Letè, che hanno il potere di cancellare la memoria dei peccati. Non è casuale la scelta dei versi sopra citati, così come l'acqua santa nelle chiese scaccia gli spiriti malvagi, le acque del Letè cancellano la malvagità dalla mente dell'anima peccatrice. Dopo averlo fatto bere, Matelda tira fuori Dante dall'acqua e lo spinge in mezzo alle quattro fanciulle che danzano alla sinistra del carro, ciascuna delle quali lo prende sottobraccio. Le fanciulle gli dicono che sono le quattro ninfe e sono stelle del cielo, furono create prima della nascita di Beatrice ma furono ordinate sue ancelle, gli dicono poi che lo condurranno a vedere gli occhi dell'amata e gli preannunciano che le altre tre fanciulle renderanno la sua vista più aguzza ("Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; / pria che Beatrice discendesse al mondo, / fummo ordinate a lei per sue ancelle. / Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo / lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi / le tre di là, che miran più profondo"). Le quattro fanciulle rappresentano le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), le quali esistevano già nel mondo pagano, quindi prima della rivelazione divina e della sapienza teologica, e ora hanno il ruolo di condurre l'uomo smarrito alla teologia, e lui deve poi affidarsi alle virtù teologali (fede, speranza e carità) per vedere più in là. Le fanciulle conducono Dante davanti al Grifone, dove sta Beatrice che li guarda, e lo invitano a fissarla intensamente negli occhi verde smeraldo, quegli occhi che l'avevano fatto già innamorare. Mille desideri più caldi della fiamma lo spingono a guardare negli occhi di Beatrice, che lei tiene ora rivolti al Grifone. Il poeta assiste a qualcosa di miracoloso: il Grifone si specchia negli occhi della donna ma, mentre la sua forma appare sempre uguale, il suo riflesso cambia continuamente forma, rivelandone la doppia natura ("Come in lo specchio il sol, non altrimenti / la doppia fiera dentro vi raggiava, / or con altri, or con altri reggimenti. / Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l'idolo suo si trasmutava"). Il miracolo serve a spiegare come la figura di Gesù Cristo può essere intesa come umana e divina allo stesso tempo solo con la mediazione della teologia, è impossibile comprendere questo mistero usando solo la ragione umana. Mentre assiste estasiato a quello spettacolo, che gli mostra verità che più sono conosciute e più si ha voglia di conoscere maggiormente, si avvicinano le altre tre fanciulle le quali, danzando, pregano Beatrice di volgere lo sguardo all'uomo che per amor suo ha percorso un così lungo cammino, le chiedono poi di mostrargli la bellezza di cui brilla ora nella sua forma spirituale ("Volgi, Beatrice, vogli li occhi santi / ... al tuo fedele / che, per vederti, ha mossi passi tanti! / Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele"). Beatrice accontenta le tre fanciulle e si mostra a Dante, suscitando in lui un'impressione tale da non poter essere compresa appieno senza leggere direttamente le sue terzine:
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t'adombra,
quando ne l'aere aperto ti solvesti?
Beatrice è isplendor di viva luce etterna, Dante la identifica con la Sapienza di Dio citata nel libro dei Proverbi e direttamente a lei si rivolge con una domanda retorica, sottintendendo che nessun poeta, nemmeno uno vissuto sotto il Parnaso e dissetato dalle acque delle ninfe della poesia, può in alcun modo descrivere lo splendore che emana nel momento in cui alza il velo e mostra il suo viso lì nel Paradiso terrestre, dove le sfere celesti la circondano con la loro armonia.
Francesco Abate
Buongiorno,
RispondiEliminanel ringraziarvi per le pubblicazioni che mi regalate con particolare riferimento alla Commedia Dantesca che io seguo con avidità, vorrei richiamare la vostra attenzione alla parte terminale del presente commento (Purg. XXXI).
L'autore identifica in Beatrice la "bella donna" che immerge Dante nel Letè e che poi lo risolleva.
Non vorrei essere in equivoco, ma mi risulta che la "bella donna" sia da identificarsi invece con Matelda e non Beatrice, tanto più che proseguendo nel canto, (versi 112-114) Matelda lo conduce a Beatrice che lo sta aspettando davanti al petto del Grifone.
Credo sia da interpretarsi nel senso che ho indicato, ma gradirei conoscere il parere dell'autore del commento se concorda o meno.
Comunque ringrazio ancora e a presto.(ho anche inviato questo commento in risposta alla Vs/del 1 giugno, ma dubito che la possiate ricevere col predetto mezzo).
Giuseppe Resmini
Buongiorno e buona domenica,
RispondiEliminala ringrazio per la puntuale segnalazione, in effetti nella scrittura del commento ho commesso un errore. La donna che immerge Dante nel Letè non può essere che Matelda, infatti il prosieguo dei versi ci mostra Beatrice ferma nei pressi del Grifone, quindi da quella posizione non si muove mai, inoltre è Matelda a trascinare il poeta nelle acque e in nessuno dei versi viene specificato che questa affidi poi il compito a Beatrice.
Ancora una volta la ringrazio per la segnalazione, è facile commettere degli errori quando ci si avventura nel commento di versi così pregni di significati e allegorie, grazie all'attenzione dei lettori posso provvedere alle opportune correzioni.
Chiudo ringraziandola per la lettura dei miei commenti. Per me scriverli, e condividere così la mia passione, è un piacere che diventa immenso quando i lettori diventano partecipi.
Francesco Abate
Grazie ancora a Ledi per gli eruditi commenti. Mi permetto di informarla su un evento "dantesco" del 4 giugno p.v. a Sasso Marconi (BO) al quale partecipo. Graditi e cordiali saluti.
RispondiEliminaMartedì 4 Giugno
“CuriosiDante” - spettacolo per tutti
4 non-conferenze per approfondire altrettanti temi affrontati nella Divina Commedia:
le parole passate dal testo dantesco all’italiano moderno, Fabio Rizzo
la permanenza di Dante a Bologna, Giuseppe Resmini
un catalogo di diavoli Paola Pizzoli
una scuola di pilotaggio Dantesco. Guya Agnoli
L’evento chiude la rassegna di musica, poesia e azioni sceniche promossa da “Le Nuvole”. Ingresso gratuito.
Ore 21 - Sala Comunale “Renato Giorgi”, via del mercato 17 Sasso Marconi
G.Resmini
Grazie per l'invito.
RispondiEliminaSarei felicissimo di partecipare, purtroppo però è un po' lontano da casa mia, inoltre quella sera ho già un impegno alla biblioteca di Battipaglia.
Dal programma comunque ritengo che sarà una gran bella manifestazione.
Buona serata.