Quando il settentrion del primo cielo
che né l'occaso mal seppe né orto
né d'altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come 'l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s'affise: la gente verace,
venuta prima tra 'l Grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
<<Veni, sponsa, de Libano>> cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Il canto inizia con l'immagine dei sette candelabri che si fermano e i ventiquattro signori che si girano verso il carro. Nel descrivere la scena, Dante usa delle parole adatte a rendere ancora una volta l'idea dell'importanza dei candelabri i quali, come abbiamo visto nel commento al canto precedente, rappresentano o i sette doni dello Spirito Santo o i sacramenti, quindi sono le guide dei fedeli; essi sono paragonati alla costellazione dell'Orsa Minore che splende nel cielo, la quale non sorge e non tramonta mai e non può essere nascosta se non dalla negligenza di chi non la vede, ed è guida dei nocchieri che conducono le navi nei porti. Fermatisi i candelabri, i ventiquattro signori si girano verso il carro, che rappresenta la Chiesa, e uno di loro canta per tre volte le parole tratte dal Cantico dei Cantici: <<Veni, sponsa, de Libano>>. L'uso di queste parole ci autorizza a pensare che il signore in questione rappresenti appunto il Cantico dei Cantici (uno dei libri della Bibbia ebraica, attribuito dalla tradizione a re Salomone). Non concordi sono i critici circa il destinatario di questo invito, infatti alcuni lo vedono rivolto a Beatrice, mentre altri invece al carro che, in quanto rappresentante della Chiesa, è la sposa di Gesù Cristo. Come sorgeranno dai propri sepolcri i beati al momento della resurrezione dei corpi, glorificando Dio, così dal carro si levano cento ministri e angeli di Dio i quali, rispondendo all'invito di un vecchio tanto venerando, dicono <<Benedetto tu che vieni>> e tutt'intorno gettano fiori, incitando a spargere gigli a piene mani. In questi versi c'è un interessante accostamento tra la Bibbia e l'Eneide di Virgilio: l'espressione <<Benedictus qui venis!>> Dante la prende dal Vangelo di Matteo (<<Benedetto colui che viene nel nome del Signore>>), mentre quella usata per invitare a spargere i fiori è presa dall'opera virgiliana, dove <<Manibus, oh, date lilia plenis!>> sono le parole pronunciate da Anchise nei Campi Elisi per glorificare Marcello; questo accostamento ribadisce l'ispirazione divina che Dante attribuisce a Virgilio e alla sua opera principale. Il poeta vede la parte orientale del cielo azzurro iniziare a tingersi di rosso, segno che l'alba sta arrivando, e a causa dei vapori il suo occhio riesce a fissare il sole; allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori lanciati dagli angeli del carro, vede apparire Beatrice, la quale indossa un velo bianco, è incoronata di ulivo, ha un mantello verde e un vestito di color rosso fiammante (ritornano i colori della fede, della speranza e della carità, più l'ulivo simbolo della pace). Lo spirito di Dante, che da tanto tempo non può più meravigliarsi alla vista della donna amata (morta nel 1290, quindi dieci anni prima l'ideale svolgimento del viaggio nell'oltretomba), anche senza vederla negli occhi sente la gran potenza dell'amore che lei emana grazie a un'occulta virtù; pur non potendola guardare negli occhi, il poeta rivive immediatamente l'amore perduto tanti anni prima ("E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch'a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto, / sanza de li occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d'antico amor sentì la gran potenza").
Non appena viene ferito da quell'amore che lo ha colto per la prima volta quand'era ancora bambino ( vediamo il travaglio causato dall'amore, come se ci fosse una lotta, caratteristica tipica del dolce stil novo), si volge verso Virgilio come il bambino spaventato che corre dalla madre, intenzionato a dirgli che non c'è neanche una goccia del suo sangue che non tremi e riconosce i segni dell'antica fiamma. Le parole che il poeta vuole rivolgere alla sua guida sono motivate dal bisogno di fargli conoscere il dramma amoroso che sta vivendo, per farlo usa un'espressione presa dall'Eneide dello stesso Virgilio ("conosco i segni de l'antica fiamma" - parole pronunciate da Didone). La fidata guida però non c'è, ha esaurito la sua missione ed è andata via, lasciando Dante e Stazio nelle mani di Beatrice; ciò che poteva essere indagato con la ragione è ormai stato compreso, è tempo che la fede salga in cattedra perché si raggiunga la conoscenza. Le guance del poeta, che erano state pulite da Virgilio con la rugiada all'inizio del viaggio in Purgatorio, tornano a sporcarsi a causa delle lacrime che le rigano: ciò non viene impedito nemmeno dalla visione delle meraviglie di quel che Eva perdette a causa del peccato originale ("né quantunque perdeo l'antica matre, / valse a le guance nette di rugiada / che, lagrimando, non tornasser atre"). Vedendolo piangere, Beatrice rimprovera aspramente Dante, dicendogli che non deve piangere per l'allontanamento del maestro, infatti dopo avrà motivi ben più gravi per essere triste. Nel rimprovero della donna, per la prima volta nel poema viene citato direttamente il nome del poeta. Sentito il rimprovero, Dante si volta e vede Beatrice che lo guarda dall'altro lato del fiume. Il volto autoritario della donna gli ricorda quello di un ammiraglio che va su e giù per la nave, dando ordini e predicando fedeltà. Nonostante il velo non la renda perfettamente visibile in viso, lui nota in lei un'aria autoritaria tipica di chi rimprovera e si riserva i richiami più duri per le fasi successive del discorso ("Tutto che 'l vel che le scendea di testa, / cerchiato de le fronde di Minerva, / non la lasciasse parer manifesta, / regalmente ne l'atto ancor proterva / continuò, come colui che dice / e 'l più caldo parlar dietro reserva").
Beatrice ordina a Dante di guardarla, usando il plurale maiestatis, poi gli chiede come abbia osato salire il monte del Purgatorio, infine gli chiede se non sapesse che lì l'uomo trova la felicità. L'intento della donna, che ha voluto fortemente il viaggio del suo protetto, è quello di farlo vergognare dei suoi peccati, di fargli percepire la sua inadeguatezza, e con l'ultima domanda intende fargli ricordare che in vita ha colpevolmente cercato la felicità nelle cose terrene. Il poeta abbassa lo sguardo e si vede riflesso nelle acque del Letè, ma la vergogna è così forte da rendergli dolorosa anche la vista della propria immagine, quindi volge lo sguardo all'erba ("Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, / tanta vergogna mi gravò la fronte"). Nella sua vergogna, percepisce nella donna l'alterigia che il figlio vede nella madre quando da lei subisce aspri rimproveri, sentendo il sapore amaro dell'apparente assenza di pietà. Beatrice tace, gli angeli allora iniziano a cantare il Salmo 30 ("In te Domine, speravi"), fermandosi però al nono versetto ("pedes meos"), che ricorda come il salmista sia stato posto da Dio in un terreno aperto e libero dalle insidie. Dante, sentendo attraverso il canto che gli angeli lo compatiscono, quasi come se chiedessero a Beatrice perché mai lo stesse rimproverando, inizia a piangere; come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell'Appennino per poi sciogliersi all'arrivo dei primi venti caldi africani, così lui si scioglie in lacrime e sospiri una volta compreso il canto degli angeli.
Beatrice, restando ferma vicino alla parte sinistra del carro, si rivolge agli angeli. Apre il suo discorso dicendo che gli angeli vedono tutto e nulla può essergli nascosto, quindi le sue parole sono rivolte principalmente a Dante, colui che piange dall'altra parte del fiume, affinché il suo dolore sia commisurato alle sue colpe. Spiega poi che il poeta aveva avuto grandi doni non solo dalle influenze benefiche dei cieli e delle costellazioni, ma anche dalla generosità della grazia divina (le cui cause sono per noi incomprensibili), tanto che ogni sua abilità si sarebbe potuta tradurre in grandi opere; purtroppo però quanto più un terreno è fertile, tanto più può diventare selvatico se non viene lavorato o viene seminato con cattive sementi; per un certo tempo fu lei stessa a tenerlo sulla retta via con l'amore che in lui suscitò, ma quando morì, lui si gettò tra le braccia di altre donne, e lei gli divenne meno cara proprio nel momento in cui era cresciuta in bellezza e virtù (perché diventata un'anima beata e non più solo una donna pia); lui si volse a seguire false immagini e false virtù, nonostante lei si adoperasse per riportarlo sulla retta via apparendogli in sogno; cadde così in basso che lei fu costretta a fargli vedere i dannati, per questo si recò al Limbo e pregò Virgilio di condurlo fin lassù. Tutto il discorso circa la perdizione di Dante, Beatrice lo conduce dicendo che sarebbe violata la volontà di Dio se si permettesse al poeta di gustare le acque del Letè, quindi dimenticare i propri peccati, senza prima essersi sinceramente pentito delle proprie colpe.
Francesco Abate
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