giovedì 17 ottobre 2019

COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sante corde,
che la destra del cielo allenta e tira.
Il canto XV inizia coi beati del cielo di Marte che smettono di cantare. La volontà del bene in cui si manifesta (liqua deriva dal latino liquat, che significa "manifestarsi") l'amore ispirato dalla legge divina, così come nel falso amore (cupidità) si manifesta la volontà di fare il male, impone che si fermi il canto dei beati ("silenzio puose a quella dolce lira") e pone fine a quella musica suonata direttamente dalla volontà di Dio (la destra del cielo); Dante trasforma con la metafora le anime cantanti nelle corde suonate dal musicista, che è Dio. Visto questo spettacolo, l'autore attraverso una domanda fa capire che delle anime così pie da interrompere l'eterno canto solo per farlo parlare non possono essere sorde alle preghiere dei mortali ("Come saranno a' giusti prieghi sorde / quelle sustanze che, per darmi voglia / ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?"), poi afferma che merita le pene eterne chi si priva dell'amore divino per inseguire i beni terreni ("Bene è che sanza termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri, / eternalmente quello amor si spoglia"). 
A un certo punto, una delle anime si muove dal braccio destro e scende ai piedi della croce, apparendo come la stella cadente che nella notte tersa sorprende l'osservatore e gli fa credere che un astro si sia spostato, solo che niente si è mosso dal punto in cui è apparsa e poi la luce sparisce in un attimo. L'anima (la gemma) nel suo tragitto non si stacca dal disegno della croce (dal suo nastro), ma seguendolo si avvicina a Dante, sembrandogli come il fuoco dietro l'alabastro; il suo movimento richiama alla mente del poeta l'episodio narrato da Virgilio (nostra maggior musa) nell'Eneide in cui Anchise corre incontro al figlio Enea nei Campi Elisi. 
L'anima avvicinatasi a Dante gli si rivolge in latino, lo chiama "sangue mio" e accenna, oltre che al suo viaggio nell'aldilà, anche a quello di san Paolo. Dante guarda prima il beato e poi Beatrice, venendo stupefatto sia dalle parole del primo che dal sorriso ardente negli occhi della donna. Vedendo gli occhi di Beatrice, il poeta si sente come se avesse toccato l'apice della grazia e della beatitudine ("Così quel lume; ond' io m'attesi a lui; / poscia rivolsi a la mia donna il viso, / e quinci e quindi stupefatto fui; / ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo / de la mia grazia e del mio paradiso"). Pieno di gioia, lo spirito dice delle cose che Dante non riesce a capire; tale discorso è oscuro non per volontà di chi parla, ma perché esprime verità non comprensibili dall'intelletto umano. Quando l'ardore della carità ha effuso gli alti concetti che aveva bisogno di esprimere (quando l'arco de l'ardente affetto fu sì sfocato), il poeta inizia a capire ciò che lo spirito dice; la prima cosa che intende è una lode alla Trinità, che è stata così benevola nei confronti della sua progenie. Terminata la sua lode, lo spirito si rivolge al poeta e gli rivela di essere felice che finalmente si sia compiuto ciò che aveva letto nel grande volume dove nulla si aggiunge e nulla si cancella (metafora del futuro letto attraverso la volontà divina), cioè che lui sia giunto lì grazie all'aiuto di Beatrice (colei ch'a l'alto volo ti vestì le piume); detto questo, pur sapendo ciò che Dante pensa (perché le anime, vedendo in Dio, vedono i pensieri)  e consapevole che egli non chieda perché consapevole di questa proprietà dei beati, lo invita comunque a chiedergli come mai sia più felice di vederlo rispetto alle altre anime di quel cielo, così sara meglio adempiuta la volontà divina, e gli spiega infine che la sua risposta è già preordinata (decreta). 
Dante si gira verso Beatrice e questa con un sorriso mette le ali alla sua volontà, cioè lo spinge a manifestare apertamente la propria curiosità. Il poeta esordisce ricordando allo spirito che, mentre per loro beati la capacità di comprendere è uguale perché vedono in Dio, lui è un mortale e per l'imperfezione del suo intelletto non può capire allo stesso modo, perciò lo ringrazia di cuore per la festosa accoglienza e lo supplica, rivolgendosi a lui come vivo topazio che questa gioia preziosa ingemmi, di rivelargli la sua identità. 
Lo spirito, che dichiara di essersi compiaciuto anche solo aspettandolo, gli rivela di essere il capostipite della sua famiglia, poi gli dice che Alighiero, colui da cui la famiglia ha preso il nome, è suo figlio e bisnonno di Dante, e gira da più di cent'anni nella prima cornice del Purgatorio; dettogli ciò, lo esorta a pregare per Alighiero così da accorciargli il cammino verso il Paradiso ("...Quel da cui si dice / tua cognazione e che cent'anni e piùe / girato ha 'l monte in a prima cornice, / mio figlio fu e tuo bisavol fue: / ben si convien che la lunga fatica / tu li raccorci con l'opere tue ").
Dopo essersi presentato, l'antenato di Dante inizia il racconto della sua vita intrecciandolo con quella della Firenze antica, dando così modo al poeta di manifestare attraverso le sue parole la nostalgia per i tempi che furono. Ai suoi tempi Firenze si estendeva ancora tutta all'interno della sua cinta muraria, dove la chiesa di Badia scandiva le ore per l'osservanza delle preghiere, ed era pacifica, sobria e pudica; non c'erano catenelle, diademi (corona), né gonne lavorate con fregi ricamati, né cinture più preziose e appariscenti di chi le indossava (il succo è: il lusso non era ancora penetrato in città); le figlie alla nascita non davano angoscia ai padri, essendo che ai tempi si sposavano all'età e con la dote giusta; non c'erano case quasi disabitate (non c'era lusso, le case non erano enormi) e non erano ancora in voga i costumi perversi in camera da letto (lo spirito evoca Sardanapalo, penultimo re assiro divenuto proverbiale per la sua lussuria); Montemario non era ancora superato in bellezza dall'Uccellatoio, quindi la grandezza di Firenze non aveva ancora oscurato Roma per poi, così rapidamente come l'aveva superata, crollare; Bellincione Berti, appartenente a una famiglia molto nobile, andava in giro vestito senza ricercatezze, con una cintura di cuoio dalla fibia d'osso, e sua moglie non girava truccata, così come altre famiglie importanti, i Nerli e i Vecchietti, si accontentavano di vestire semplicemente con pelli mentre le loro mogli provvedevano a filare la lana. Fortunate erano quelle donne, che vivevano sicure del loro destino e senza essere abbandonate dai mariti, fuggiti a cercare maggiori ricchezze col commercio in Francia; una faceva addormentare il figlio nella culla, usando il linguaggio infantile che diverte i padri e le madri, un'altra raccontava alla sua famiglia le gesta dei Troiani, di Fiesole e di Roma. Persone malvagie come Cianghella della Tosa (donna lasciva e sfrontata) e Lapo Saltarello (giudice avvezzo al lusso e ai vizi, esiliato per baratteria) allora avrebbero destato stupore così come nella Firenze contemporanea lo susciterebbero persone virtuose come Lucio Quinzio Cincinnato (dittatore romano) e Cornelia (madre dei Gracchi). In una comunità così pacifica e virtuosa, sua madre lo mise al mondo invocando nel travaglio il nome di Maria, poi nell'antico battistero di San Giovanni fu battezzato e chiamato Cacciaguida. Ebbe come fratelli Moronto ed Eliseo, sua moglie venne dalla Valpadana e da lei ebbe origine il cognome di Dante. Cacciaguida infine racconta che seguì l'imperatore Corrado III di Svevia alla seconda crociata e per il suo corretto agire fu fatto cavaliere; andò a combattere contro l'Islam, il cui popolo (i Saraceni) usurpa i territori in Terrasanta (la seconda crociata fu causata dalla caduta del principato di Edessa) a causa dei papi che li trascurano, e dai Saraceni fu liberato dalla sua vita terrena, per amore della quale molte anime si rovinano, e salì alla pace del Paradiso.

Questo canto ha come scopo quello di introdurre la figura di Cacciaguida, che sarà centrale nei canti seguenti. In questi versi Cacciaguida è stato usato dall'autore per rievocare la bellezza della Firenze del passato, virtuosa e priva dei malcostumi contemporanei.
Dell'avo di Dante le notizie biografiche si limitano a quelle che il poeta riporta nella Commedia.  

Francesco Abate     

10 commenti:

  1. Oltre che un poeta e un uomo di cultura, secondo me Dante si può definire anche una specie di archeologo dei tempi suoi perché fare una ricerca così accurata e risalire addirittura alla storia del suo trisavolo Cacciaguida nel 1300 non dev'essere stato semplice.
    Buona serata.

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  2. Non sarà stato di certo semplice, ma è stato importante che l'abbia fatto perché grazie a questi approfondimenti su personaggi noti e meno noti ha dato un valore anche storico all'opera.
    Giusto per fare un esempio, approfondendo temi e personaggi della Commedia si può ricostruire con una certa precisione il conflitto tra guelfi e ghibellini.
    Dev'essere di esempio soprattutto per noi scrittori, perché il suo lavoro dimostra come un'opera possa contenere un'infinità di temi e non debba necessariamente dedicarsi tutta a un unico messaggio.

    Buona serata.

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  3. ("Bene è che sanza termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri, / eternalmente quello amor si spoglia"). Da notare la virgola dopo eternalmente, in quanto punteggiatura molto probabilmente no apposta da Dante (la punteggiatura non era praticamente usata al suo tempo), ma aggiunta a posteriori da qualche commentatore. Sembrerebbe un "problema" risibile, ma se la togliamo o la poniamo alla fine del verso (endecasillabo) la logica cambia del tutto! Infatti eternalmente verrebbe applicato a duri eternamente. E si ripresenterebbe così con forza, il quesito/dubbio presente in Dante se una pena eterna sia proporzionale e giusta per un peccato comunque finito! Non è cosa da poco, ma certamente con Dante non si può mai dare nulla per scontato, "qual maraviglia".

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  4. La ringrazio per la sua osservazione, è molto interessante e sottolinea una questione che, effettivamente, non è per niente trascurabile.
    Questo è il bello di quest'opera magnifica, che a distanza di secoli ci fornisce ancora spunti su cui riflettere per conoscere meglio l'autore e gli argomenti da lui trattati.

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  5. Confesso: di Cacciaguida non ricordo tantissimo.
    Sarà che i canti centrali sono quelli che mi sono rimasti meno impressi... beh, fa niente: ho la Commedia in casa, rileggerò con piacere.
    Ti abbraccio.

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    1. Sono canti dedicati prevalentemente alla politica e al futuro dello stesso Dante. Si studiano a scuola perché c'è anche la profezia dell'esilio del poeta, ma in effetti sono quelli che colpiscono meno.
      Sarà comunque una buona occasione per riscoprirli.
      Grazie del commento.
      Ciao.

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  6. Mi riporti a due anni fa, quando frequentavo la terza liceo e dovevo prepararmi per gli esami!
    La visione della croce di Dante è senza dubbio una delle più belle, sacra e al tempo stesso umanissima.
    Sul resto sono d'accordo con te, questi tre canti sono tecnici e non regalano grandissime emozioni.
    Baci!

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    1. Ai tempi del liceo il Paradiso lo odiai e lo studiai pochissimo (fui un pessimo studente); a differenza del Purgatorio e dell'Inferno, perde il lato umano e diventa un vero e proprio trattato, diventando inoltre molto complesso e difficile da interpretare.
      Per fortuna con la maturità sto rimediando agli errori del passato!
      Ciao.

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  7. Durante la tua pausa ne ho approfittato per leggere i tuoi post passati. Ho trovato tantissime cose interessanti sulla Commedia e le ho copiate aggiungendole ai miei vecchi appunti.
    Semmai quest'anno dovessi dare un esame su Dante in università e lo passerò con la lode, il merito sarà anche tuo.
    Grazie!

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    1. Spero che i miei appunti ti siano utili per l'università, così per una volta potrei dirmi anch'io un buono studente. :-D
      Grazie per la lettura.

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