mercoledì 30 ottobre 2019

COMMENTO AL CANTO XVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch'avea incontro a sé udito,
quel ch'ancor fa li padri a' figli scarsi,
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Il canto XVII inizia con un richiamo al mito di Fetonte il quale, secondo la leggenda, credeva di essere figlio del Sole e, quando Epafo lo smentì, corse da sua madre (Climene) per sapere la verità; Fetonte è quel ch'ancor fa li padri a' figli scarsi, cioè è l'esempio che spinge i padri a non essere condiscendenti verso i figli, questo perché il mito narra che volle guidare il carro del Sole e precipitò nell'Eridano. Il poeta si paragona a Fetonte perché, così come il personaggio mitologico corse dalla madre ansioso di conoscere la verità, lui è preso dalla smania di conoscere il proprio futuro e ovviamente questa sua voglia è nota a Beatrice e a Cacciaguida (la santa lampa che pria per me avea mutato sito). La donna lo esorta a esporre il proprio pensiero, non perché loro non sappiano cosa voglia, ma perché deve abituarsi a manifestare i propri desideri affinché possano essere esauditi ("Per che mia donna "Manda fuor la vampa / del tuo disio>> mi disse, <<sì ch'ella esca / segnata bene de la interna stampa; / non perché nostra sconoscenza cresca / per tuo parlare, ma perché t'ausi / a dir la sete, sì che l'om ti mesca.>>). Senza esitare, Dante segue l'esortazione di Beatrice e si rivolge a Cacciaguida, designandolo come una pianta cara che si erge verso l'alto, che vede il futuro con la stessa chiarezza con cui le menti sanno che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi, perché lo vede guardando in quel punto (Dio) dove ogni tempo è presente; gli chiede notizie circa il proprio futuro, visto che durante il viaggio fatto con Virgilio nel Purgatorio (su per lo monte che l'anime cura) e nell'Inferno (discendendo nel mondo defunto), più volte gli è stata accennata una profezia nefasta, poi specifica che è pronto ad affrontare qualsiasi sventura, ma vuole saperlo perché il colpo, quando è previsto, sembra arrivare più lentamente. 
Cacciaguida, quell'amorevole antenato (quello amor paterno), non risponde usando il linguaggio oscuro degli oracoli da cui si lasciava guidare la gente pagana, prima che l'Agnello di Dio compisse il sacrificio che portò alla Redenzione, ma parla esprimendosi chiaramente, chiuso eppure visibile nella luce del proprio gaudio ("Né per ambage, in che la gente folle / già s'invischiava pria che fosse anciso / l'Agnel di Dio che le peccata tolle, / ma per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno, / chiuso e parvente del suo proprio riso"). Cacciaguida comincia il suo discorso spiegando che nella visione divina ci sono tutti gli eventi che accadranno sulla Terra, ma questo non rende tali eventi necessari, così come una barca che discende lungo la corrente non deve farlo a causa degli occhi che la osservano (in parole povere, specifica che la visione del futuro da parte di Dio non esclude l'esistenza del libero arbitrio dell'uomo), poi racconta come le immagini del futuro di Dante gli giungano simili alla dolce armonia di un organo (pur essendo visioni nefaste, sono qualcosa di estasiante per l'anima beata perché provengono da Dio). 
Fatta la premessa, Cacciaguida comincia il racconto: così come Ippolito fu esiliato da Atene a causa della spietata madre, che lo accusò di aver cercato di sedurla, Dante dovrà lasciare Firenze. Il suo esilio è già desiderato e già ci stanno lavorando là dove tutto il giorno mercanteggiano sulle cose sacre ("Questo si vole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca"): il riferimento in questo caso è alla decisione di Bonifacio VIII di inviare a Firenze Carlo di Valois come legato papale, aprendo la strada all'esilio dei Guelfi bianchi e perciò a quello del poeta. Agli esiliati sarà addossata la colpa dei mali della città, ma la vendetta divina che dopo cadrà su Firenze servirà a testimoniare quanto ciò sia falso; in questo caso c'è forse un riferimento a Corso Donati e alla sua morte. Il primo dolore dell'esilio (quello strale che l'arco de lo esilio pria saetta) sarà abbandonare tutte le cose care. Dante proverà quanto è amaro il pane donato dagli altri e scoprirà quanto è duro scendere e salire le scale degli altri ("Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale"). Ciò che lo farà soffrire di più sarà l'essere sospettato e malvisto dai suoi compagni di sventura, i quali non condivisero la sua idea di essere pazienti e attendere un'occasione propizia per tentare il rientro, ma saranno loro successivamente a doversi vergognare (quando il loro tentativo di rientro fallirà miseramente) e per lui si rivelerà un bene essersi separato da loro. Il primo luogo dove sarà ospitato sarà presso la corte di Bartolomeo della Scala (gran Lombardo), che sullo stemma della sua casata, cioè la scala, poté porre l'aquila dell'impero (il santo uccello) perché fu fatto vicario imperiale da Arrigo VII; Bartolomeo sarà così benevolo nei confronti dell'ospite da esaudirne i desideri ancor prima che siano espressi, al contrario di come avviene normalmente. Alla corte di Bartolomeo, rivela Cacciaguida, Dante vedrà colui che è nato sotto l'influsso di Marte, diventando perciò destinato a una vita di grandi imprese militari; il riferimento è a Cangrande della Scala, fratello minore di Bartolomeo, che con le sue imprese estese i domini del casato. La gente ancora non si è accorta della grandezza di Cangrande, questo perché da quando è nato sono passati solo nove anni, ma prima che Clemente V (definito Guasco perché originario della Guascogna) si opponga con l'inganno all'incoronazione di Arrigo VII di Lussemburgo, inizierà a circolare la sua fama di uomo poco attratto dalla ricchezza e ben capace di affrontare le fatiche (la sua virtute in non curar d'argento né d'affanni). Saranno tanto straordinarie le opere di Cangrande che neanche i suoi nemici potranno evitare di parlarne; Cacciaguida raccomanda a Dante di affidarsi ai suoi benefici, poi gli rivela che muterà secondo giustizia le condizioni di tanta gente, sia ricchi che mendicanti, infine gli rivela altre cose (cose incredibili) che però gli raccomanda di non rivelare a nessuno. Il beato termina la profezia dicendo al poeta che questa è la spiegazione delle parole che gli erano state dette in precedenza circa il suo destino, lo invita però a non serbare rancore nei confronti dei concittadini, perché lui e la sua fama vivranno abbastanza per veder punita la loro perfidia. 
Nel momento in cui Cacciaguida tace, mostrando di aver finito di mettere la trama nella tela di cui lui gli aveva posto l'ordito, Dante gli manifesta un altro dubbio: gli si prospetta un futuro duro i cui colpi saranno tanto più gravi quanto meno lui sarà preparato a subirli, per questo gli conviene essere previdente e non inimicarsi potenziali futuri amici coi suoi versi, ma nel corso del suo viaggio nell'oltretomba ha udito cose molto gravi che per molti sulla Terra avranno un sapore aspro, e allo stesso tempo teme che, tacendo le verità che ha udito, perderà il diritto ad accedere tra i beati. Il poeta è preda di un dilemma morale: mantenere la propria indipendenza e denunciare coi suoi versi la corruzione della società, non risparmiando signori e personaggi influenti, oppure auto-censurarsi per non crearsi nuovi nemici. Il dubbio di Dante è quello che da sempre è il bivio a cui si deve fermare un intellettuale, perché analizzare spietatamente il mondo porta sempre a esprimere giudizi duri, e questo inevitabilmente crea nemici. Nell'ambito del poema il dilemma è ancora più duro, perché a lui è stata affidata la stesura della Commedia come missione sacra, disattenderla perciò lo condurrebbe a sicura dannazione, così come obbedire gli causerebbe certamente gravi problemi in vita.
Sentite le parole di Dante, la luce di cui brilla Cacciaguida (il mio tesoro) aumenta d'intensità, come uno specchio d'oro colpito da un raggio di sole. Gli spiega che le coscienze sporche delle colpe proprie o altrui di certo troveranno sgradevoli le sue parole, nonostante ciò lui deve narrare ciò che ha visto nei tre regni senza riguardo per nessuno (rimossa ogne menzogna) e lasciare che ognuno patisca i rimorsi nati dalle proprie colpe (e lascia pur grattar dov'è la rogna). I suoi versi all'inizio risulteranno indigesti, ma si riveleranno un nutrimento vitale per le anime una volta che saranno stati compresi e assimilati; la sua voce sarà come il vento, che percuote maggiormente le cime più alte (darà più fastidio ai potenti), e questa polemica sarà un motivo d'onore. Cacciaguida rivela poi come al poeta siano state mostrate le anime di personaggi importanti perché è impossibile ammaestrare la gente citando personaggi sconosciuti e fatti di cui non si sa nulla; era necessario coinvolgere persone ed eventi già noti a tutti.

Con il canto XVII si conclude il trittico di canti dominato dalla figura di Cacciaguida.
In questi canti molto spazio si è dato alla nobiltà della famiglia Alighieri e al rimpianto per la Firenze antica e virtuosa, ma tutto è servito da introduzione ai versi di questo canto, quelli in cui Dante ha affrontato apertamente e per esteso il dramma del proprio esilio. La sua vicenda personale, grazie ai due canti precedenti, si scontra con l'immagine di una città pura e non corrotta, modellando l'intera vicenda nella forma di una grave ingiustizia commessa nei confronti di un uomo nobile e onesto.
Dobbiamo ricordare che oltre alla gravità dell'esilio in sé, a tormentare Dante ci fu anche l'accusa che gli fu mossa, cioè quella di baratteria (la corruzione nell'esercizio del proprio lavoro di pubblico funzionario), che per il suo modo di vedere era tremendamente infamante. Attraverso le parole di Cacciaguida, Dante ci ha indicato i responsabili della sua cacciata, il dramma di chi scopre come sa di sale lo pane altrui, e ha esaltato la figura di colui che gli ha dato ospitalità.

Francesco Abate  

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