Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
prevene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l'alba nasca
Il canto XXIII si apre con una metafora: Beatrice guarda al cielo verso il meridiano dove il sole sembra muoversi più lentamente (la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta), cioè dove sta a mezzogiorno, con un'ansia paragonabile a quella con cui un uccello posato sul ramo dove tiene il nido aspetta l'arrivo dell'alba, così da poter provvedere alla ricerca del cibo per i suoi piccoli (un lavoro gravoso che per la madre diventa un piacere). Vedendola attendere con ansia, Dante diventa simile a colui il quale, pur desiderando ardentemente qualcosa, attenua la voglia consolandosi con la speranza di essere presto soddisfatto ("sì che, veggendola io sospesa e vaga, / fecimi qual è quei che disiando / altro vorria, e sperando s'appaga"). Dopo la nascita del desiderio nel poeta, passano pochi attimi e il cielo comincia a rischiararsi. Beatrice a questo punto annuncia le anime degli uomini che hanno ben operato grazie agli influssi delle stelle fisse, diventando beati (tutto 'l frutto ricolto dal girar di queste spere), e i combattenti dell'esercito di Cristo (le schiere del triunfo di Cristo); secondo alcuni critici in realtà in questa visione ci sono tutti i beati che il poeta ha visto nel suo viaggio in Paradiso, ma si tratta di un'interpretazione che andrebbe a cozzare con la struttura del poema.
Alla vista di quello spettacolo, il viso di Beatrice a Dante sembra ardere, e i suoi occhi si riempiono di tanta grazia da spingere l'autore a rinunciare alla ricerca di parole per descriverlo ("Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni, / che passarmen conven senza costrutto"). Così come nelle notti di plenilunio la Luna (Trivia) splende tra le stelle, che illuminano il cielo intero, così vede sopra migliaia di beati (lucerne) una grande luce (sole) che le illumina come il sole fa con le stelle; in quella luce traspare la figura umana di Cristo (la lucente sostanza) in modo così splendente da non essere sostenibile per lo sguardo del poeta. Beatrice, che l'autore elogia e definisce "dolce guida e cara" (un elogio che, letto nella contemporaneità dei fatti narrati, suona come un grido d'aiuto, se invece lo leggiamo nella contemporaneità della scrittura, quindi dopo i fatti, suona come un ringraziamento), gli spiega che a vincere la sua vista è la virtù divina che è al di sopra di ogni cosa, colui che con la sapienza e la potenza aprì le strade tra il cielo e la terra (con l'Incarnazione e la Passione portò la pace e la grazia), cosa che si desiderava da tempo. Alla vista di questo prodigio, la mente di Dante esce da sé stessa così come il fulmine che, dilatato al punto da non poter più essere contenuto dalla nube, si scarica a terra; quello che accade poi, il poeta non lo ricorda. Circa il riferimento al fulmine, il poeta lo descrive come fuoco di nube che, non trovando spazio per dilatarsi nelle nubi di vapore acqueo, si scarica a terra: all'epoca così era scientificamente interpretato il fenomeno ("Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape, / e fuor di sua natura in giù s'atterra, / la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di se stessa uscio, / e che si fesse rimembrar non sape").
Beatrice invita Dante ad aprire gli occhi e guardarla, perché avendo visto la luce di Cristo, il poeta adesso può sostenere la vista del suo sorriso. Il poeta è come chi si sveglia da una visione dimenticata, che invano prova a ricordare, quando sente la donna fargli questa offerta degna di gratitudine che lui non cancellerà mai dal libro della memoria. Contempla così il sorriso di Beatrice, e ci dice che, se anche in suo aiuto giungessero tutti i poeti ispirati dalla musa Polinnia (musa della lirica) e dalle sue sorelle, non riuscirebbe a rendere neanche la millesima parte di quello splendore ("Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnìa con le suore fero / del latte lor dolcissimo più pingue, / per aiutarmi, al millesmo del vero / non si verria, cantando il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero").
L'autore a questo punto spiega che la descrizione del Paradiso impone che il poema salti alcune cose, come chi trova interrotto il proprio cammino, ma il lettore che si rendesse conto della grandezza del tema trattato e di quanto sia complesso per le potenzialità umane (lui usa la metafora del grande peso messo sulle spalle umane), di certo non biasimerebbe l'autore: il mare in cui sta navigando non è percorribile né da una piccola barca né da un timoniere che vuole risparmiare le forze.
La narrazione torna di nuovo a Beatrice che parla e chiede a Dante perché, preso dall'estasi amorosa, per guardarle il viso non volge lo sguardo al giardino celeste che fiorisce sotto i raggi della luce di Cristo. Indica poi al poeta che lì c'è la Madonna e ci sono gli apostoli; in questa indicazione continua la metafora del giardino, infatti la Vergine è indicata come la rosa in cui si è incarnato il vero divino, mentre gli apostoli sono indicati come i gigli che col profumo indicarono la retta via (chiara metafora della loro predicazione). Dante, che è sempre pronto a seguire le indicazioni di Beatrice, torna di nuovo con lo sguardo alla battaglia contro quella luce che prima aveva faticato a sostenere. Così come in vita gli è capitato di vedere un prato fiorito illuminato da un raggio di sole filtrato dalle nubi, adesso vede le schiere di beati folgorati dalla luce di Cristo, senza però vedere l'origine di questa luce. Il poeta capisce di poter adesso vedere senza problemi i beati perché la luce di Cristo si è sollevata più in alto, per questo la esalta, visto che si è sollevata per permettere ai suoi occhi di vedere quello spettacolo ("O benigna vertù che sì li 'mprenti, / su t'esaltasti, per largirmi loco / a li occhi lì che non t'eran possenti").
Udito prima da Beatrice, il nome di Maria, che lui sempre invoca mattina e sera, lo spinge a guardare la luce più intensa; non appena alla sua vista si manifestano la quantità e la qualità della luce di Maria, che in Paradiso vince in luminosità i beati così come sulla Terra vinse tutti in virtù, dal cielo scende un lume ardente (facella) di forma circolare come una corona, che la cinge e gira intorno a lei. L'angelo, che incorona il più bel gioiello del cielo intero (il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s'inzaffira), intona un canto al cui confronto tutte le più dolci melodie della Terra, anche quelle capaci di attirare l'anima, sembrano il rombo di un tuono. L'angelo, che altri non è che l'arcangelo Gabriele, si presenta come l'amore angelico che gira intorno al ventre da cui nacque il Messia, poi annuncia che girerà finché Maria non seguirà Gesù nell'Empireo, rendendolo ancor più bello. Mentre l'angelo intona questo canto, gli altri beati cantano il nome di Maria. A questo punto la Vergine incoronata dell'angelo (la coronata fiamma) sale verso l'alto insieme a Gesù Cristo e Dante non riesce a seguirla con lo sguardo perché il nono cielo, che avvolge tutti gli altri ed è più acceso dall'amore di Dio perché più vicino, è tanto lontano da non essere visibile. A questo punto ciascuno dei beati tende verso l'alto la propria luce, così come il poppante tende le braccia verso la madre dopo aver preso il latte; questo rende palese al poeta il grande amore che essi hanno per la Vergine. I beati restano al cospetto di Dante e intonano il Regina coeli (preghiera recitata nel periodo pasquale) con una dolcezza tale che a distanza di anni ricorda ancora.
La vista dello spettacolo spinge l'autore a chiudere il canto con delle considerazioni. Prima di tutto loda la ricchezza delle anime dei beati, paragonati nel canto a forzieri (arche) carichi di beni, che in vita furono terreni in cui fu bene seminare; la parola bobolce per alcuni significa lavoratori della terra, per altri campi da semina: nel primo caso essi sarebbero descritti da Dante come seminatori della parola di Dio ma, visto che non tutti i beati furono predicatori, è più giusto intenderli come terreni da semina, riprendendo così la parabola evangelica del terreno fertile in cui il seme della parola dà buon frutto. Continuando il suo elogio, l'autore scrive che nel Paradiso si gode del tesoro accumulato dalle sofferenze patite sulla Terra (ne lo esilio di Babillòn); lì trionfa san Pietro, che tiene le chiavi della Chiesa, insieme al Figlio di Dio, a Maria, e alle anime del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Francesco Abate
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