venerdì 6 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;
e quella, come madre che soccorre
subito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che 'l suol ben disporre,
mi disse: <<Non sai tu che tu se' in cielo?
Il grido dei beati con cui si è chiuso il canto XXI causa in Dante stupore e spavento, perciò si volta verso Beatrice come un bambino spaventato fa con la madre e lei, con la voce della madre che rincuora il piccolo spaventato e desideroso di capire il motivo del suo spavento, gli fornisce una rapida spiegazione. La guida attraverso due domande retoriche gli ricorda che ora si trova in cielo, dove tutto è giusto perché viene dall'amore e dalla volontà del bene (da buon zelo); gli fa notare poi che, se un grido lo ha tanto agitato e oppresso, può bene immaginare che effetto avrebbero avuto su di lui il suo sorriso o il canto dei beati; infine gli spiega che, se avesse compreso le parole del grido, avrebbe scoperto che si trattava di una preghiera con la quale i beati hanno invocato la giusta punizione contro coloro che hanno corrotto l'istituzione sacra della Chiesa, la quale sarà vista dal poeta prima della morte ("Come t'avrebbe trasmutato il canto, / e io ridendo, mo pensar lo puoi, / poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; / nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, / già ti sarebbe nota la vendetta, / che tu vedrai innanzi che tu muoi"). La giustizia di Dio, conclude Beatrice, è fuori dal tempo, ma per chi la invoca o per chi l'attende può risultare o troppo lenta o troppo veloce; detto ciò, invita il discepolo a prestare attenzione ai beati, perché avrà modo di vedere degli spiriti illustri. Circa il discorso di Beatrice, bisogna soffermarsi un attimo sulla profezia della "vendetta" vista da Dante prima della morte, pronunciata nei versi 14 e 15. Molti critici oggi vedono in queste parole una profezia indeterminata, cioè non collegata a un evento storico preciso, ma altri, visto il riferimento temporale, si azzardano a collegarla con l'episodio di Anagni (in cui papa Bonifacio VIII fu catturato e umiliato dai francesi) o con la morte di Clemente V.
Ascoltando le parole della sua guida, Dante volge lo sguardo ai beati e vede tantissime sfere che si abbelliscono vicendevolmente col loro splendore. Il poeta sta come chi reprime un desiderio acuto e non fa domande, consapevole che chiederebbe più di quanto sia lecito. A un certo punto la gemma più luminosa (la più luculenta di quelle margherite) avanza intenzionata a soddisfare la voglia del poeta, e da dentro quella luce Dante sente provenire delle parole. 
Lo spirito dice che, qualora il poeta vedesse come vede lui la carità che arde tra i beati, non esiterebbe a porre le domande che lo tormentano, poi gli dice che risponderà leggendogli le domande nel pensiero, così da evitare che la sua esitazione lo porti a completare in ritardo il suo sacro viaggio. Fatta questa premessa, il beato rivela di aver vissuto sul monte Cairo, nel cui pendio è Cassino, che era usato dai pagani per i sacrifici ad Apollo e a Diana, e lì fu il primo a portare il messaggio di Gesù (colui che portò quella verità che ora eleva i beati al punto in cui sono); tanta fu la grazia che su di lui splendette (non si prende il merito della diffusione del Cristianesimo, parla di sé come uno strumento di Dio) che allontanò gli abitanti delle città circostanti dal paganesimo ("e tanta grazia sopra me relusse, / ch'io ritrassi le ville circunstanti / da l'empio colto che 'l mondo sedusse"). Dopo essersi presentato, dalle sue parole è infatti chiaro che si tratta di san Benedetto, indica altri beati presenti lì con lui: Macario, san Romualdo, e i frati benedettini che rimasero fedeli alla sua Regola ("dentro ai chiostri fermar li piedi e tenner lo cor saldo"). I beati indicati da san Benedetto sono tutti collegabili alla vita monastica, san Romualdo infatti fu fondatore dei benedettini camaldolesi, ma ci sono delle incertezze biografiche circa Macario: è chiaro che Dante si riferisca a Macario d'Alessandria, ma questo nome è appartenuto a due eremiti egiziani che venivano all'epoca sempre confusi tra loro, perciò è impossibile stabilire con certezza a chi dei due facesse riferimento il poeta.
Sentite le parole del santo, Dante dichiara che sia l'amore da lui dimostrato parlando sia le luci dei beati hanno allargato la sua fiducia, come il sole spinge la rosa ad aprirsi al massimo delle sue possibilità ("come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant'ell'ha di possanza"), poi lo prega di mostrarsi nella sua immagine non celata dalla luce ("con imagine scoverta"). 
San Benedetto gli risponde che quel desiderio sarà esaudito nell'Empireo (ultima spera), dove si adempiono tutti i desideri, compreso il proprio, che lì giungono perfetti e maturi; spiega poi che nell'Empireo ogni punto è dov'è sempre stato, perché non si sviluppa nello spazio e non ha poli attorno cui girare, per questo è immobile (senza cambiamento di luogo, non può esserci movimento); fin lì arriva la scala, dice ancora, per questo il poeta non riesce a seguirla con lo sguardo (la contemplazione supera lo spazio e arriva fino all'Empireo, là dove la vista umana e la ragione non possono arrivare). Fin lassù, spiega il santo, arrivava la scala che Giacobbe vide in sogno, quando la parte superiore gli apparì piena di angeli. La scala arriva fin lassù, ma san Benedetto constata come nessuno oggi stacchi i piedi da terra per salirla, e la sacra regola che lui scrisse non è più rispettata da nessuno, restando perciò una scrittura utile solo a sporcare la carta; i monasteri che furono badie, cioè che ospitarono anime sante, adesso sono spelonche piene di ladri, e le tonache dei monaci sono sacche piene di farina guasta ("Le mura che solieno esser badia / fatte sono spelonche, e le cocolle / sacca son piene di farina ria"). Il santo continua la sua invettiva dicendo che l'usura, peccato grave, non offende Dio quanto i monaci che si appropriano delle rendite ecclesiastiche, perché tutto ciò che è custodito dalla Chiesa (quantunque la Chiesa guarda) appartiene ai poveri che chiedono l'elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei monaci o a persone ancor più indegne (concubine, figli illegittimi). Mitiga poi la sua invettiva con una constatazione circa la fragilità dell'uomo, la quale richiama al capitolo sessantaquattresimo della regola benedettina, la quale impone all'abate di correggere i vizi con prudenza e carità, ricordandosi della fragilità umana; dice che la carne dei mortali è così debole che qualsiasi opera buona iniziata alla nascita di una quercia dura fino alla nascita della ghianda. Dopo l'invettiva, san Benedetto ricorda che Pietro fondò la Chiesa senza alcuna ricchezza, lui stesso creò il proprio ordine con orazioni e digiuni, e san Francesco il suo convento lo fondò con umiltà; se però Dante guarda quegli inizi e poi vede come sono adesso quelle creazioni, vedrà il bianco mutato in bruno (tutto è rovinato). Il suo discorso il santo lo conclude rassicurando il poeta, dicendogli che i miracoli di Dio nel mar Rosso e nel Giordano, col mare che si aprì e il fiume che si voltò al passaggio degli israeliani, furono ben più grandi di quel che farà per riportare gli ordini e la Chiesa alla loro antica purezza.
Finito di parlare, san Benedetto si ricongiunge alle altre anime e tutte si stringono per poi turbinare verso l'alto. Beatrice con un cenno esorta Dante a salire lungo la scala e la sua volontà vince la natura umana del poeta, che avrebbe dovuto costituire un impedimento (sì sua virtù la mia natura vinse); il volo che fanno i due non è paragonabile alle salite e alle discese che si fanno sulla Terra per mezzo delle sole forze naturali ("né mai qua giù dove si monta e cala / naturalmente, fu sì ratto moto, / ch'agguagliar si potesse a la mia ala"). L'autore si augura di tornare un giorno al cospetto di quel devoto trionfo dei beati, per il quale spesso piange e si batte il petto in segno di penitenza, poi dice al lettore che non riuscirebbe a mettere il dito nel fuoco e tirarlo via per il calore in così poco tempo quanto lui ne impiegò per ritrovarsi nella costellazione dei Gemelli ('l segno che segue il Tauro). 
Dante si trova nel cielo delle stelle fisse e inizia un'invocazione alle stelle dei Gemelli, sotto il cui influsso sentì per la prima volta l'aria di Toscana (nacque) e da cui ha ricevuto il suo ingegno, qualunque esso sia, e in cui è stato disposto che si trovasse al momento della salita in quel cielo; a esse egli chiede la virtù necessaria per descrivere la parte finale del suo viaggio in Paradiso, quella che lo condurrà al cospetto di Dio.
Beatrice dice al poeta che si trova così vicino a Dio (l'ultima salute) che deve aver perduto i limiti terrestri della vista, quindi può vedere tutto chiaramente; detto questo, lo invita a guardare in basso e vedere quanto si è innalzato sotto la sua guida, così che il suo cuore si avvicini giocondo alla schiera trionfante delle anime che stanno in questo cielo. Dante fa ciò che gli ha detto la guida e vede i sette pianeti, con la Terra così piccola e lontana da indurlo a sorridere, a considerare più giusto il pensiero di chi decide di valutarla come cosa poco importante e a considerare davvero saggio chi decide di rivolgere al cielo i suoi pensieri. Vede poi la Luna illuminata (la figlia di Latona incensa) senza le macchie (i mari) che l'avevano indotto a credere che avesse maggiore o minore densità in alcuni punti. Vede poi il sole (che nella mitologia era considerato figlio di Iperione) la cui vista ora riesce a sostenere senza essere abbagliato, e vede come si muovano vicino a lui i pianeti Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di Dione). Vede poi il temperare (gli antichi consideravano Marte caldo e Saturno freddo, Giove nel mezzo era temperato) di Giove tra Marte, il figlio, e Saturno, il padre, e gli appare chiaro il loro movimento nel cielo. Dall'alto vede la grandezza e la velocità con cui si muovono tutti e sette i pianeti, come anche la distanza che li separa l'uno dall'altro. La Terra, che da quell'altezza gli appare come un'aia, un giardinetto, e che tanto feroci rende gli uomini, la vede tutta dai monti ai mari (per altri critici l'espressione da' colli a le foci significa "dalle colonne d'Ercole alle rive del Gange"). Osservato l'universo sottostante, Dante volge lo sguardo agli occhi di Beatrice.

Francesco Abate 
    

7 commenti:

  1. L'empireo secondo me è una costruzione accurata, frutto di antichi studi, che Dante riesce a rende unica con accurati colpi di scena e descrizioni uniche.
    Pura poesia!
    Ciao Francesco.

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    1. Con l'Empireo e la finale visione di Dio, Dante si gioca tutto il messaggio che ha voluto mandare con la Commedia, per questo ci mette tutta la sua arte e la sua scienza per costruire gli ultimi canti del poema. Siamo, per dirla in parole povere, al momento decisivo dell'opera, quello in cui si concretizza tutto il viaggio fatto fino ad ora.
      Buona serata.

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    2. Francesco, ma tu per caso sei la mia professoressa di Lettere del triennio?
      No, scherzo, è che hai detto esattamente le cose che anche lei ci ha spiegato in terza!
      Bellissima analisi, tanti ma tanti complimenti.
      E baci.

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    3. No, non sono la tua professoressa e non credo che potrò mai esserlo, perché già è improbabile che io inizi a studiare per la laurea ora che ho 35 anni, poi l'idea del cambio di sesso non mi alletta. :-D
      Grazie per i complimenti, sono contento che apprezzi i miei commenti: se anche una sola persona ne esce un pochino arricchita, non ho perso tempo.
      Baci.

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  2. Ecco, vorrei tanto dire qualcosa ma l'anno scorso praticamente questo canto, il 23 e il 24 li abbiamo saltati a piè pari quindi chino il capo, prendo appunti e ti ringrazio per tutto!
    Baci.

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    1. Purtroppo i tempi "didattici" non consentono di studiarli tutti e questo di sicuro non è uno dei più importanti. Sono felice di aver rimediato a questa pecca della scuola.
      Grazie a te per la lettura.
      Ciao.

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