domenica 29 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<<O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a l'affezione immensa,
e roratelo alquanto; voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa.>>
Il canto XXIV si apre con le parole di Beatrice rivolte agli apostoli: si rivolge a loro come agli invitati da Gesù (benedetto Agnello) al banchetto di sapienza (la gran cena - può essere anche un riferimento all'ultima cena) che nutre in modo tale da lasciare sempre intatta la voglia di averne ancora; gli chiede di rendere Dante partecipe del loro sapere, visto che per grazia di Dio può gustare gli avanzi di quel banchetto prima di essere morto; chiude la sua invocazione motivando la richiesta col fatto che essi bevono dall'eterna fonte a cui il poeta ha indirizzato ogni brama, cioè godono della sapienza che lui stesso ricerca. Gli apostoli mostrano il loro consenso diventando sfere che ruotano intorno a un asse fisso (spere sopra fissi poli) e aumentando l'intensità della propria luce, come fanno le comete. Le anime (che il poeta chiama carole, danza eseguita da più persone tenendosi per mano e ballando in cerchio) ruotano ognuna a una velocità differente, in base al maggiore o minor merito in vita, e ricordano a Dante il congegno ben ordinato degli orologi (orioli), in cui le ruote dentate girano a differenti velocità, tanto da far sì che la prima sembri ferma mentre l'ultima giri velocissima; queste differenze di velocità e luminosità fanno capire al poeta i loro diversi gradi di beatitudine ("E come cerchi in tempra d'orioli / si giran sì, che 'l primo a chi pon mente / quieto pare, e l'ultimo che voli; / così queste carole, differente- / mente danzando, de la sua ricchezza / mi facieno stimar, veloci e lente"). Tra i cerchi luminosi che girano, esce quello che deve appartenere all'anima più beata, perché tra gli altri che restano nella danza non ce n'è nessuno altrettanto luminoso; tre volte gira intorno a Beatrice e canta una melodia così divina da non essere descrivibile con la fantasia di Dante. L'autore spiega che non lo descrive perché la fantasia umana, così come le parole, non può risaltare in modo sufficiente la bellezza di quel canto; per spiegarlo fa riferimento alla tecnica pittorica del chiaroscuro: i pittori usano la tecnica del chiaroscuro per dare delicatezza alla piega dei vestiti e valorizzarla, quindi dietro le pieghe usano un colore di un tono più scuro per valorizzare la superficie più viva, ma la fantasia umana è un colore troppo chiaro per risaltare l'immagine col dovuto chiaroscuro ("Però salta la penna e non lo scrivo; / ché l'imagine nostra a cotai pieghe, / non che 'l parlare, è troppo color vivo"). 
L'apostolo più beato di tutti, che è san Pietro, si rivolge a Beatrice chiamandola sorella santa (santa suora mia) e le dice che la sua preghiera, così carica di carità, lo ha spinto a lasciare la corona di anime danzanti. Lei gli risponde chiamandolo luce eterna del grande uomo che ricevette da Gesù le chiavi del Paradiso, che Cristo stesso portò giù dal cielo, e gli chiede di testare le conoscenze di Dante circa la fede, grazie alla quale camminò sulle acque del mare di Galilea (episodio tratto dal Vangelo secondo Matteo), interrogandolo su argomenti facili e difficili, come meglio crede. La donna sa, e lo dice, che san Pietro vede tutto guardando in Dio e sa che Dante è in possesso delle virtù teologali (fede, speranza e carità), ma siccome nel regno di Dio sono fatti cittadini coloro che posseggono vera fede, è giusto che il poeta ci arrivi parlandone e glorificandola. Le parole di Beatrice ci spiegano che l'interrogazione di san Pietro a Dante non è un semplice riassunto delle conoscenze, ma ha lo scopo di introdurre la parte finale del poema, quindi la visione della Trinità, con una ferma professione di fede dal valore di trionfale introduzione.
Dante, sentendo le parole di Beatrice, fa come il baccelliere (il baccello era il primo grado accademico delle scuole teologiche, inferiore a quello di maestro e a quello di dottore) che tace fino a che il maestro non gli propone una questione, perché la sostenga con le tesi a favore, non perché la porti a compimento; egli richiama alla memoria la dottrina teologica così da essere pronto alle richieste di san Pietro.
La prima domanda di san Pietro, molto concisa, è cosa sia la fede. Dante guarda prima la luce da cui è provenuta la voce, poi si volta verso Beatrice la quale, senza parlare, lo esorta a spandere l'acqua fuori dalla sua fonte interna, quindi a manifestare le sue conoscenze. Non è casuale che il poeta prima di rispondere volga lo sguardo a Beatrice, essa infatti è normalmente per lui fonte di conforto, ma non dobbiamo dimenticare che rappresenta anche la teologia, quindi è da lei che deve infondersi in lui la conoscenza della risposta. Dante invoca Dio (la Grazia) affinché gli permetta di esprimere bene i suoi concetti a san Pietro, che lui definisce primopilo (il centurione più alto in grado nella legione romana). Dopo l'invocazione, il poeta risponde: come scrisse san Paolo, che mise Roma sulla retta via, la fede è il fondamento di ciò che speriamo di conseguire nella vita eterna ("è sustanza di cose separate") ed è la prova delle cose che la mente non vede ("argomento de le non parventi"); questa a lui sembra la sua essenza (sua quiditate).
San Pietro dice a Dante che la definizione è giusta, ma deve chiarire perché san Paolo pose la fede tra i fondamenti e le prove. Il poeta risponde: i misteri di Dio, che lui vede lì nel Paradiso, non sono visibili a chi è in vita, perciò chi vive in esso può soltanto avere fede e su questo si fonda la speranza, perciò la fede ne è fondamento; dalla fede poi conviene ragionare e pervenire alla certezza come si fa coi sillogismi, senza avere altre prove, per questo essa è prova.
San Pietro a questo punto dice che sulla Terra non esisterebbero discussioni e ricerca di cavilli se la dottrina teologica fosse da tutti compresa come l'ha compresa lui, poi aggiunge che ha valutato bene il peso e la lega della moneta (la fede) e gli chiede se la possiede. Subito Dante risponde di sì, ce l'ha bella lucida e integra perché su di essa non ha mai avuto dubbi ("Ond' io: <<Sì, ho, sì lucida e sì tonda, / che nel suo conio nulla mi s'inforsa>>").
Il santo ancora gli domanda come venne a lui la fede, la preziosa gemma su cui si fonda ogni virtù. Dante risponde che la grazia dello Spirito Santo, diffusa sugli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento (in su le vecchie e in su le nuove cuoia), è tanto persuasiva da fargli sembrare insufficiente ogni altro argomento di dimostrazione.
A questo punto l'apostolo gli chiede come possa essere sicuro che le Scritture contengano davvero la parola di Dio. Dante gli risponde che l'avverarsi delle profezie e i miracoli, di cui si narra nella Bibbia, sono una prova sufficiente, perché a loro confronto la natura pare un semplice fabbro, cioè un lavoratore dotato di mezzi limitati. San Pietro gli chiede a questo punto come possa essere sicuro che i miracoli narrati nella Bibbia siano davvero accaduti, infatti a testimoniarlo ci sono solo i libri sacri, la cui ispirazione divina il poeta non ha ancora dimostrato. Il poeta risponde che la proliferazione del Cristianesimo nel mondo in assenza di miracoli è già di per sé un miracolo cento volte più grande di quelli narrati dalla Bibbia; lo è il fatto che lo stesso san Pietro, povero e digiuno, andò a seminare la pianta che divenne poi la vigna del Signore, e che oggi a causa della corruzione del papato è diventata sterile e spinosa (pruno). Terminata la risposta del poeta, le varie corone dei beati intonano un Te Deum nella melodia che si canta in Paradiso.
San Pietro, il maestro che ha condotto l'allievo di ramo in ramo, tanto che ora è vicino alle ultime fronde (si avvicina la fine dell'interrogazione), gli dice che la Grazia, la quale domina la sua mente, l'ha fatto rispondere bene e lui approva ciò che ha detto, infine gli chiede di manifestare quello in cui ha fede e dire da dove questa gli derivi. Dante gli si rivolge come santo padre, ricordando come lui credette senza esitazione alla Resurrezione di Gesù e per questo entrò nel sepolcro prima di san Giovanni, che invece esitò e ne rimase fuori, e gli risponde circa la sostanza della sua fede e il motivo della stessa ("tu vuo' ch'io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo"): lui crede in un Dio unico ed eterno, che non è mosso, ma muove tutto il cielo con l'amore e il desiderio; circa l'esistenza di Dio lui non ha solo prove fisiche e metafisiche (descritte da san Tommaso nelle famose "cinque vie"), ma anche quelle date dalle Scritture attraverso Mosè, le parole dei profeti e dei salmi, il Vangelo e gli atti di loro apostoli che furono spinti a scrivere dallo Spirito Santo; crede nelle tre Persone eterne, le quali sono contemporaneamente unica e triplice essenza di Dio, tanto che per parlare di loro è possibile usare il verbo sia al singolare che al plurale; questa verità circa la Trinità di Dio non è comprensibile con la ragione, ma lui ne è certo grazie alla dottrina evangelica; questo è il principio, la favilla da cui scaturisce la fiamma della fede che in lui scintilla come una stella in cielo (la fede in Dio e nella sua Trinità e alla base di tutta la dottrina ed è per lui una guida).
San Pietro, come il padrone che ascolta il servo dargli una buona notizia e lo abbraccia quando questi tace, benedice Dante cantando e lo abbraccia tre volte non appena ha finito di parlare. Il canto termina con una constatazione del poeta: san Pietro, il migliore tra gli apostoli, canta e lo abbraccia tanto è rimasto contento delle sue parole. Questa conclusione non va interpretata come una manifestazione di presunzione, coi primi versi del canto successivo capiremo come in questa professione di fede egli confidi per essere riammesso a Firenze e ricevere l'incoronazione poetica nel Battistero di san Giovanni.

P.S. - essendo questo l'ultimo post del 2019, colgo l'occasione per augurarvi un 2020 carico di felicità e ottime letture.

Francesco Abate     

4 commenti:

  1. Mi ricordo che con questo canto svanì improvvisamente la lieve pesantezza sorta nei canti precedenti.
    Dante riparte alla grande verso un finale memorabile, degna conclusione di un'opera epica.
    Buon 2020 e un abbraccio.

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    1. Diciamo che in questo canto e nei prossimi due fa un riassunto dei concetti espressi in precedenza, per poi dedicarsi alla contemplazione di ciò che di più alto c'è nell'universo.
      Grazie per la lettura e buon 2020.

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  2. Ciao Francesco, ne approfitto per augurarti un buonissimo 2020 e intanto leggerò con calma questo post e il precedente.
    Baci!

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    1. Ciao Olivia, buon 2020 anche a te. Spero che questo sarà per te un anno carico di buone letture e grandi soddisfazioni.
      Baci.

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