venerdì 4 settembre 2020

RECENSIONE DEL SAGGIO "SULLA VIOLENZA" DI HANNAH ARENDT

 

Sulla violenza è un saggio pubblicato nel 1970 dalla filosofa tedesca Hannah Arendt.
Tutti noi conosciamo la Arendt per il suo saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) in cui mostra come i nazisti, che furono capaci di torturare e uccidere milioni di persone, non furono dei mostri ma soltanto dei burocrati dall'aspetto tranquillo e i modi da uomo comune. Lei però fu molto prolifica e in questo saggio analizza la violenza e il suo legame col potere politico.

La Arendt inizia constatando come la violenza sia un fenomeno così radicato nella storia che fino ad allora nessuno aveva pensato di farne oggetto di studio. Chiunque avesse cercato di dare un qualche senso ai fatti storici era stato portato a vederla come un fenomeno marginale; fa gli esempi di Clausewitz, che definì la guerra "continuazione della politica con altri mezzi", e di Engels, che definì la violenza l'acceleratore dello sviluppo economico. I due esempi dimostrano come l'accento sia messo sulla continuità economica e politica, non sulla violenza in sé.
Intendendo la forza come l'energia sprigionata dai movimenti politici e sociali, la Arendt dichiara che la violenza è vicina alla forza perché tende coi suoi strumenti a moltiplicarla.

Molto interessante è lo studio della connessione tra violenza e potere politico.
Innanzitutto la Arendt spiega che è sbagliato considerare il potere come il mezzo attraverso cui un governo cerca di raggiungere un fine; il potere è il fine di sé stesso, cioè chi lo detiene lavora per mantenerlo e rafforzarlo.
Per alcuni la violenza è la massima manifestazione di potere, per altri è il potere a essere una forma di violenza istituzionalizzata. Sembrano però tutti d'accordo sullo stretto legame che c'è tra le due cose.
La Arendt ribalta questa concezione affermando che potere e violenza sono due concetti opposti, cioè dove uno domina l'altro è totalmente mancante. 
Secondo molti intellettuali il progresso tecnologico avrebbe reso impossibili le rivoluzioni, rendendo troppo schiacciante la superiorità di mezzi dei governi rispetto ai rivoluzionari. Eppure, osserva la Arendt, nel ventesimo secolo di rivoluzioni e guerre ce ne sono state tante, forse più che negli altri periodi storici, e spesso hanno avuto successo nonostante la superiorità di mezzi dei governi. Questo è successo perché il potere era in crisi mentre i ribelli erano compatti, quindi è stata la crisi del potere a scatenare la rivolta. 
Laddove invece è la violenza a sostituire completamente il potere, si arriva al terrore. La società viene tenuta atomizzata, viene impedita sul nascere la formazione di oppositori e la nascita di nuove forme di potere, si continua a governare usando solo la violenza. A differenza del semplice totalitarismo, il terrore si rivolge non solo contro i nemici, ma anche contro gli amici (furono un esempio le famose purghe staliniane), perché teme qualsiasi forma di potere.

Nel saggio la Arendt analizza anche un fatto storico contemporaneo per spiegare come la violenza produca i suoi effetti migliori quando alle spalle ha un sostegno popolare, quindi un potere.
Gli anni Sessanta e Settanta furono anni di rivolte universitarie. Lei constata come quelle degli studenti bianchi, che furono più ordinate e organizzate, raramente violente, ottennero risultati ben più scarsi di quelle degli studenti del Black Power, che furono molto più aggressive. La spiegazione che si dà al fenomeno è che le rivolte degli studenti neri avevano una forte base popolare alle spalle, infatti c'era l'intera comunità nera a sostegno degli studenti, invece gli studenti bianchi erano osteggiati dalle altre categorie sociali e non trovavano solidarietà.
Non ci si deve illudere però che la violenza sia la strada da seguire per ottenere i cambiamenti sociali. Ci tengo a specificare, cosa che la Arendt non dice ma che risulta ovvia per chiunque legge il saggio, che lei in alcun modo giustifica l'uso della violenza; lei fa un'analisi imparziale, non dà giudizi. A un certo punto però dice una cosa importantissima: la rivolta violenta può portare solo risultati a breve termine, ma nella maggior parte dei casi porta solo a un aumento costante della violenza.

Essendo un saggio che studia la violenza nel contesto del potere politico, non mancano da parte della Arendt valutazioni sui fatti storici e le loro conseguenze.
In un passaggio evidenzia come all'apice di importanza delle categorie sociali non ci siano più gli operai, ma gli scienziati e gli intellettuali, che sono stati i veri artefici del boom della produzione. Gli operai non appena vedono migliorate le condizioni di vita si imborghesiscono e difendono la società dei consumi, di cui non si sentono più vittime, perciò smettono di essere una classe rivoluzionaria. La vera classe rivoluzionaria per Hannah Arendt è quella degli intellettuali.

Nel corso della sua vita, sicuramente anche influenzata dalla sua esperienza personale, Hannah Arendt si è presa l'onere di studiare il male da diversi punti di vista: ci ha mostrato la "normalità" dei mostri, ha studiato i totalitarismi e ha spiegato la violenza.
Io credo sia molto importante la lettura di saggi come Sulla violenza perché non basta etichettare come cattivo un fenomeno per combatterlo, bisogna prima di tutto comprenderne la natura se si vuole estirparlo; come una malattia non si può curare se non si conosce prima la natura dell'organismo che la causa, così la violenza non può cancellare se non viene conosciuta a fondo.
Oggi viviamo in un mondo dove per tanti motivi la violenza è giustificata o comunque ne viene sottovalutata la gravità. Credo che la cultura sia l'unica strada da seguire per poter cambiare questa mentalità malata e per questa ragione la lettura di saggi come questo sia importantissima.

Francesco Abate  

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