domenica 29 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l'acqua in un ritondo vaso,
secondo ch'è percorsa fuori o dentro.
Terminato il discorso di san Tommaso, inizia a parlare Beatrice. Il canto XIV inizia col poeta che ricorda il movimento dell'acqua in un vaso rotondo, le cui onde vanno dall'esterno all'interno o viceversa a seconda del punto in viene percosso lo stesso; a ricordargli questo fenomeno sono le voci di san Tommaso, che dal cerchio dei beati arriva al centro, e di Beatrice, che dal centro della corona giunge fino alla ghirlanda splendente. 
Beatrice manifesta ai beati un dubbio che Dante non ha ancora espresso, chiede se la luce che li avvolge resterà con loro dopo la resurrezione dei corpi che avverrà col Giudizio universale e, se essa continuerà a splendere, come potranno gli occhi osservarla senza soffrirne. 
Le anime, sentendo la domanda di Beatrice, si animano di ancora maggiore gioia, e questo si manifesta nella loro danza, così come spesso per la maggior allegria le persone che danzano aumentano il ritmo dei movimenti e il volume della voce ("Come, da più letizia pinti e tratti, / a la fiata quei che vanno a rota / levan la voce e rallegrano li atti, / così, a l'orazion pronta e divota, / li santi cerchi mostrar nova gioia / nel torneare e ne la mira nota"). Vedendo quello spettacolo, l'autore afferma che chi si lamenta del fatto che la vita terrena finisca, lo fa perché non ha visto lo spettacolo celeste e non sa quanto ristoro (refrigerio) può dare l'eterna pioggia (l'etterna ploia), che è metafora della grazia di Dio. Ogni beato canta tre volte le lodi di quel Dio uno e trino che da nulla è limitato ed è limite di tutto (non circunscritto, e tutto circunscrive). Interessante è l'interpretazione dei versi 28-29 ("Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e due e uno") che fece il Lombardi, secondo cui essi sono costruiti per far coincidere i numeri opposti dei due versi (l'uno del verso 28 col tre del 29, il due con l'altro due, il tre del 28 con l'uno del 29) al fine di creare questi significati: quell'unico Dio che vivrà e regnerà sempre in tre persone; Gesù Cristo, che vivrà e regnerà eternamente nelle due nature, divina e umana; quelle tre divine persone che vivranno e regneranno sempre unite. 
Dante ode dalla luce più splendente del cerchio interno, quella di re Salomone, una voce più umile e reverente di quella che forse ebbe l'arcangelo Gabriele quando annunciò la gravidanza a Maria (lo ipotizza, nel Vangelo non viene detto nulla circa la voce dell'arcangelo). Salomone spiega che la luce sarà emanata dalle anime beate finché in loro arderà l'amore per Dio, e questo durerà fin quando durerà il Paradiso, quindi per sempre ("...Quanto fia lunga la festa / di paradiso, tanto il nostro amore / si raggerà dintorno cotal vesta"); la chiarezza della luce dipende dall'intensità di quell'amore, il quale dipende dalla visione di Dio, che a sua volta dipende dalla grazia illuminante; quando alle anime sarà restituito il corpo purificato, esse saranno più gradite a Dio e perfette, in loro si accrescerà il lume della grazia e aumenterà la loro visione di Dio, conseguentemente aumenterà l'ardore del loro amore e quindi l'intensità della luce da loro emanata. La luce irradiata dall'anima, spiega ancora, sarà però vinta in intensità da quella del corpo risorto, così come il carbone ardente brilla più della fiamma, ma non infastidirà gli occhi, che saranno capaci di percepire tutto ciò che costituisce la beatitudine ("Ma sì come carbon che fiamma rende, / e per vivo candor quella soverchia / sì che la sua parvenza si difende, / così questo fulgor che già ne cerchia, / fia vinto in apparenza da la carne / che tutto dì la terra ricoperchia; / né potrà tanta luce affaticarne, / ché li organi del corpo saran forti / a tutto ciò che potrà dilettarne"). Le anime dei beati accompagnano la fine del discorso di Salomone con un "Amen" così tempestivo da far pensare al poeta che bramino ardentemente di tornare in possesso dei corpi, forse non tanto per loro stessi quanto per rivedere le persone che amarono ancor prima di diventare luci eterne.
A un certo punto intorno ai cerchi di beati si manifestano delle luci ancora più brillanti, la cui apparizione ricorda al poeta l'accendersi delle prime tenui stelle nel chiaro cielo della primissima serata; questo nuovo cerchio di beati inizia a girare intorno agli altri due. La luce delle anime, vera manifestazione dello Spirito Santo, si manifesta così intensamente e così subitamente che Dante ne rimane abbagliato. Subito gli si mostra Beatrice, così bella e splendente da risultare impossibile al poeta ritrovarne il ricordo; è una bellezza che va al di là delle capacità umane.
Gli occhi di Dante recuperano la capacità di vedere e subito si accorge di essere asceso al cielo superiore con la sua guida, il cielo di Marte; se ne accorge perché vede il pianeta di colore rosso e più colorato del solito. Dante fa offerta (feci olocausto) di sé stesso a Dio con quelle parole che sono dentro al cuore e non necessitano di essere espresse col linguaggio, perché sono comuni a tutti. Non ha ancora finito di fare la sua preghiera, che Dio mostra di aver gradito e arrivano dei raggi di luce con delle anime; appena le vede, il poeta loda Dio (Elios si riferisce al Sole e altre volte chiama Dio col nome della stella) che così abbellisce (addobbi) le anime. I nuovi beati sono brillanti come le stelle della Via Lattea, la galassia che si estende nel cielo tra i poli del mondo e sulla cui natura gli astronomi dell'epoca non erano concordi, e si dispongono in modo da formare una croce greca (il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo - la croce greca ha gli assi di uguale lunghezza, quindi all'interno di un cerchio forma quattro quadranti uguali; la croce normale, con l'asse orizzontale più corto, non sarebbe iscrivibile in un cerchio). A questo punto la memoria labile vince l'ingegno, così il poeta si scusa e ammette di non saper descrivere con un esempio quel che vide, ma il vero cristiano, che prende la sua croce e segue l'esempio di Cristo, sarà più disposto a scusarlo di tale rinuncia quando vedrà in quella luce balenare la figura di Gesù.  Leggendo i versi da 102 a 108, si nota come la parola Cristo venga fatta rimare solo con sé stessa.  ("Qui vince la memoria mia lo 'ngegno: / ché quella croce lampeggiava Cristo, / sì ch'io non so trovare essempro degno; / ma chi prende sua croce e segue Cristo, / ancor mi scuserà di quel ch'io lasso, / vedendo in quell' albor balenar Cristo").
Le luci delle anime si muovono lungo i bracci della croce in orizzontale (di corno in corno) e in verticale (tra la cima e 'l basso), scintillando intensamente ogni volta che si incontrano e si trapassano; allo stesso modo si vedono le particelle del pulviscolo atmosferico nel raggio di luce che rompe il buio di una stanza, le quali si muovono disordinatamente e a velocità diverse. Il poeta viene poi rapito da un canto melodioso, di cui però non riesce a capire le parole, così come anche l'orecchio di chi non conosce la musica può essere rapito dal suono che scaturisce dall'arpa o dalla giga (un antenato del violino). Si accorge che dev'essere un inno di lode a Cristo, perché sente più volte le parole "Risorgi" e "Vinci", e di questo si innamora più di qualsiasi altra cosa vista e provata fino a quel momento. Si scusa infine se al momento è estasiato più da questo canto che dagli occhi di Beatrice, ma si giustifica ricordando che essi acquistano splendore man mano che si sale nei cieli superiori, così come avviene alle anime, e dal momento in cui è arrivato al cielo di Marte ancora non li ha guardati; in pratica sta già anticipando che, una volta guardati gli occhi della sua guida in quel cielo, li amerà più di prima e più del canto che ora così intensamente lo rapisce.

Francesco Abate   
   

domenica 22 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Imagini chi bene intender cupe
quel ch'i' vidi (e ritegna l'image,
mentre ch'io dico, come ferma rupe)
quindici stelle che 'n diverse plage
lo cielo avvivan di tanto sereno,
che soperchia de l'aere ogne compagne
Il canto XIII inizia con l'autore che invita il lettore che vuole immaginare chiaramente la sua visione (chi bene intender cupe) a fissare l'immagine che lui descriverà come ferma rupe: deve immaginare le quindici stelle di prima grandezza, tanto luminose e visibili da vincere la luminosità dell'aria (secondo Tolomeo, c'erano quindici stelle di prima grandezza sparse tra le dodici costellazioni dello zodiaco); poi deve richiamare alla mente il Grande Carro (altro nome dell'Orsa Maggiore), a cui è sufficiente lo spazio nel nostro emisfero, infatti non tramonta mai; deve poi immaginare la punta dell'Orsa Minore, dove due stelle formano come la bocca di un corno la cui punta sta vicino all'asse attorno a cui ruota il Primo Mobile. Il lettore deve immaginare queste ventiquattro stelle (quindici di prima grandezza più sette dell'Orsa Minore e due dell'Orsa Minore) formare due corone nel cielo simili a quella che Bacco formò quando Arianna fu in punto di morte (il mito narra che Bacco mutò in una corona di stelle la ghirlanda che le cingeva la testa); deve poi immaginare le due costellazioni così formate girare in due sensi opposti (secondo altri critici nello stesso senso ma con velocità diverse), così avrà un'idea vaga della danza che circonda il poeta. L'autore conclude il periodo specificando che con l'immaginazione il lettore può solo avere un'idea vaga della danza dei beati, perché paragonarla a qualsiasi ballo terrestre sarebbe come paragonare il lento scorrere del fiume Chiana al velocissimo movimento del Primo Mobile ("e avrà quasi l'ombra de la vera / costellazione e de la doppia danza / che circulava il punto dov'io era; / poi ch'è tanto di là da nostra usanza, / quanto di là dal mover de la Chiana / si move il ciel che tutti li altri avanza"). Il circolo di beati non canta inni ad Apollo (Peana) o a Bacco, com'era usanza nell'età pagana, ma esalta i misteri dell'Unità e della Trinità. 
I beati terminano tutti insieme la loro danza e si volgono verso Dante e Beatrice, felici di passare da un dovere a un altro. Il loro silenzio è rotto da san Tommaso, il beato che ha lodato san Francesco, che vuole risolvere adesso il secondo dubbio di Dante; dice che quando parte della paglia è stata tritata e il suo seme messo da parte, l'amore lo spinge a battere l'altra metà. 
Il poeta crede, spiega il santo, che Dio infuse tutte le virtù lecite alla natura umana in Adamo, dalla cui costola fu creata la donna il cui palato ha condannato l'umanità (Eva), e in Gesù, il cui costato fu trafitto da una lancia, perciò si è meravigliato quando lui ha detto che nessuno abbia eguagliato in sapienza re Salomone (lo ben che ne la quinta luce è chiuso). San Tommaso invita Dante ad aprire gli occhi della mente, così scoprirà che il suo sapere e la spiegazione del santo formano insieme la stessa verità, come nel cerchio un punto è il centro ("Or apri li occhi a quel ch'io ti rispondo, / e vedrai il tuo credere e 'l mio dire / nel vero farsi come centro in tondo"). A questo punto fornisce a Dante la spiegazione al suo secondo dubbio, procedendo sempre con metodo filosofico. La sostanza incorruttibile e quella corruttibile non sono altro che un raggio dell'idea che Dio genera con amore, un'idea che non si separa mai né da Lui né dall'Amore, e per bontà di Dio si riflette per i nove cerchi angelici rimanendo però inalterata nella sua integrità ("Ciò che non more e ciò che può morire / non è se non splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire; / ché quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea, / per sua bontate il suo raggiare aduna, / quasi specchiato, in nove sussistenze, / etternalmente rimanendosi una."). Dai cori angelici l'idea discende fino alle creature materiali e la sua influenza ridotta man mano porta alla formazione di cose corruttibili (brevi contingenze) che possono essere i vegetali o anche i minerali (cose prodotte con seme e sanza seme). La sostanza della materia e l'influenza dei cieli non sono sempre in uguale accordo, così le cose create riflettono la luce divina più o meno bene; come alberi della stessa specie fruttano con maggiore o minore copiosità, così le persone possono nascere con indole o attitudini differenti. Se la materia fosse creata tutta perfetta e i cieli potessero esercitare sempre la loro piena virtù, apparirebbe interamente la luce dell'idea divina, ma la natura non sempre è ben disposta e opera come l'artista a cui trema la mano; se però lo Spirito Santo ispira e imprime in una creatura la Sapienza di Dio, in essa si ottiene tutta la perfezione, così come fu fatto con Adamo (che ebbe tutta l'animal perfezione) e come fu fatto quando la Vergine Maria concepì Gesù. Fatte queste premesse, san Tommaso loda l'idea di Dante, secondo cui in Gesù e in Adamo fu infusa la massima virtù lecita all'uomo, e in virtù di questa anticipa l'obiezione di Dante circa la sapienza senza eguali di Salomone. Per sciogliere il dubbio, è necessario ricordare cos'era Salomone e cosa chiese quando Dio lo invitò a chiedergli ciò che desiderava: egli era un re, come Tommaso aveva chiaramente fatto intendere, e chiese il sapere non per conoscere il numero degli angeli (sapienza teologica) o per sapere se una premessa necessaria e una contingente possano dare una conseguenza necessaria (sapienza filosofica), non per sapere se è ammissibile un primo moto non generato da altro moto (sapere scientifico) o se si può iscrivere un triangolo non rettangolo in un semicerchio (sapere matematico); tenendo conto di quanto Tommaso ha detto prima, è evidente che si riferisse non a una sapienza generica, ma alla sapienza di un re , e se Dante presta attenzione al verbo surse usato dal santo, che ha voluto intendere l'elevarsi di Salomone al di sopra degli altri, gli sarà chiaro che il riferimento era solo ai sovrani, perché i re sono tanti ma quelli buoni sono rari. Facendo questa distinzione, restano validi sia l'idea di Dante circa la perfezione di Adamo e Gesù, sia l'asserzione di san Tommaso sulla sapienza senza eguali di re Salomone.
Sciolto anche il secondo dubbio di Dante, san Tommaso lo invita a procedere sempre coi piedi di piombo quando ragiona su una questione che non gli è chiara, poi deplora chi afferma o nega qualcosa senza ragionarci bene su, infine spiega come spesso l'opinione corrente spinga verso false convinzioni che poi vengono difese senza ragionare ("E questo ti sia sempre piombo a' piedi, / per farti mover lento com' om lasso / e al sì e al no che tu non vedi: / ché quelli è tra li stolti bene a basso, / che sanza distinzione afferma e nega / ne l'un così come ne l'altro passo; / perch' elli 'ncontra che più volte piega / l'opinion corrente in falsa parte, / e poi l'affetto l'intelletto lega"). Dannosa è l'avventura di chi prova a conoscere ignorando il metodo e la disciplina, perché all'ignoranza unisce l'errore e si ritrova in condizioni peggiori; egli è paragonabile a un uomo che va a pesca senza conoscere i segreti del mestiere. Sono prove di questi guai Parmenide, Melisso, Brisso e molti che partirono senza sapere dove andare; così fecero Sabellio (eretico) e Ario (monaco che negò la divinità di Cristo), che furono come spade e deformarono l'interpretazione delle Scritture (la superficie della spada riflette le figure deformate).
Dopo aver criticato chi cerca di sapere senza conoscere il metodo, san Tommaso ammonisce affinché non si giudichi con superficialità. Le persone, dice, non devono giudicare con leggerezza, come fa il contadino che stima il valore della biada prima che sia matura. Lui stesso ha visto un pruno spoglio per tutto l'inverno mostrare in primavera un fiore in cima; ha visto una nave procedere veloce lungo una rotta per poi affondare al momento di entrare nel porto ("ch'i' ho veduto tutto 'l verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce, / poscia portar la rosa in su la cima; / e legno vidi già dritto e veloce / correr lo mar per tutto suo cammino, / perire al fine a l'intrar de la foce"). Non credano donna Berta e ser Martino (due nomi generici, l'equivalente dei nostri Tizio e Caio), vedendo un uomo rubare e un altro fare l'offerta in chiesa, di sapere con certezza che il primo sarà dannato e il secondo salvo, perché potrebbe avvenire il contrario ("Non creda donna Berta e ser Martino, / per vedere un furare, altro offerere, / vederli dentro al consiglio divino; / ché quel può surgere, e quel può cadere").   

In questo canto san Tommaso ha sciolto il dubbio di Dante circa la sapienza di re Salomone. Nella parte finale il santo ammonisce chi si approccia al sapere con superficialità e leggerezza, concludendo poi con un duro richiamo verso chi crede di poter giudicare circa la salvezza o la condanna di qualcuno.
La sistemazione di questo richiamo finale in questo canto non è casuale. La figura di re Salomone è sì una delle principali della Bibbia, ma il sovrano ebbe più mogli e nella parte finale della sua vita cadde nell'idolatria, per questo i teologi disputarono molto circa la salvezza della sua anima. Attraverso san Tommaso, Dante ricorda che l'uomo non è nelle condizioni di conoscere con certezza il disegno di Dio, quindi gli è impossibile sapere se un'anima sarà salva o dannata. L'anima abbruttita dal peccato, rappresentata dal pruno secco e spinoso in inverno, può alla fine germogliare nella sua gloria, dando così un fiore; l'anima retta, rappresentata dalla nave che segue la sua rotta, può cadere nel peccato anche in prossimità della morte, naufragando poco prima di entrare nel porto.

Francesco Abate 

mercoledì 18 settembre 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "UMILIATI E OFFESI" DI FEDOR DOSTOEVSKIJ


Umiliati e Offesi è uno dei romanzi meno famosi dello scrittore russo Fedor Dostoevskij. Si tratta di un'opera che già all'epoca della sua pubblicazione, nel 1860, ebbe un'accoglienza molto fredda da parte della critica.
Come tutte le opere di Dostoevskij, questo romanzo scava negli abissi peggiori dell'essere umano, proiettandoci nella miseria e nella corruzione, e analizza i lati peggiori dell'anima. Nonostante la storia sia ricca di sofferenza fisica e morale, lascia un messaggio finale molto positivo che me la fa considerare un'opera ottimista.

La vicenda in Umiliati e Offesi è raccontata da Ivan Petrovic, chiamato anche Vanja, uno scrittore proveniente da una famiglia nobile ma che, lasciata la casa paterna, si trova costretto ad affrontare la miseria. Vanja è innamorato di Natasha, la figlia naturale dell'uomo che l'ha allevato, ma lei si innamora di un altro e per questo si deve accontentare di restare per lei soltanto un carissimo e fedele amico.
Natasha si innamora di Aleksej Petrovic, figlio del principe Piotr Alexandrovitch Valkovski. Si tratta di un amore molto complicato, infatti suo padre lavorò al servizio del principe finché questi, credendo a delle voci infondate, lo accusò di avergli rubato del denaro e gli fece causa. La storia d'amore tra Natasha e Aleksej viene usata da pretesto per il principe per rincarare le accuse nei confronti di Nicolaj Sergeic Ikhmeniev, il padre di lei; egli infatti arriva a sostenere che padre e figlia abbiano spinto Aleksej a innamorarsi di lei al fine di rabbonire il principe.
Natasha decide di fuggire con Aleksej, contravvenendo così alla volontà sia di suo padre che del principe, gettando i suoi genitori nella vergogna. Della famiglia, resta a contatto con lei solo Vanja, il quale l'aiuta e la consiglia e, di nascosto, porta notizie a sua madre, Anna Andrejevna. 
Aleksej però, sebbene innamorato di Natasha, è sentimentalmente come un bambino e oltretutto viene manipolato facilmente dal padre, quindi pian piano si innamora di Katia, la moglie che il principe ha scelto per lui. Sebbene innamorato di Katia, egli ama allo stesso modo Natasha, e si trova dilaniato da un tremendo conflitto interiore, mentre Natasha soffre all'idea di perderlo e il principe non smette di tramare alle loro spalle.
Nel frattempo Vanja si trova in casa la piccola Elena, una ragazzina portata via a una donna che la faceva prostituire, che si scopre essere nipote del vecchio che, a inizio romanzo, il protagonista ha visto morire. La storia di Elena si rivelerà essere molto simile a quella di Natasha e Vanja ha l'idea di usarla per risolvere la situazione.

Al centro di Umiliati e Offesi ci sono i rapporti conflittuali tra padre e figlia.
La storia di Natasha e quella di Elena ci proiettano in un mondo di figlie che disobbediscono ai padri per amore, vengono però ingannate e si ritrovano senza la nuova famiglia e senza quella vecchia, che nel frattempo le respinge in nome del concetto di onore, vergognandosi di loro. Le due vicende hanno però un epilogo diverso: in una l'orgoglio alla fine viene messo da parte e l'amore trionfa; nell'altra invece fino alla morte la figlia non trova il perdono del padre, il quale muore consumato dal rimorso. Il messaggio del romanzo io lo ritengo ottimista, Dostoevskij ci mostra attraverso la storia a lieto fine che, se l'uomo riesce ad anteporre i sentimenti alla buona nomea e all'orgoglio, riesce a non essere distrutto nemmeno dalle umiliazioni e dalle offese della vita.

Il romanzo però, come tutte le opere di Dostoevskij, è anche un viaggio nella miseria dell'animo umano.
Vanja è di buona famiglia e potrebbe avere una vita agiata, sceglie però di fare lo scrittore e si trova subito in gravi difficoltà economiche, ritrovandosi a vivere nello squallore e finendo per ammalarsi.
La piccola Elena perde la madre dopo aver condiviso con lei una vita di stenti e dispiaceri. Rimasta orfana, si trova prigioniera di una donna crudele che la costringe a prostituirsi. Solo alla fine, dopo aver incontrato Vanja, trova un po' di pace.
Natasha, così come la madre di Elena, è una vittima dell'amore. Si innamora dell'uomo sbagliato, per lui arriva a inimicarsi il padre e a gettare su di sé la vergogna, alla fine però viene abbandonata e si trova senza famiglia. 
Parlando di miseria umana, il principe ne è sicuramente l'emblema. Si tratta dell'uomo che si è fatto da solo, che è riuscito a emergere da una condizione non buona, ma dentro al cuore è pura malvagità. Riesce ad arricchirsi ingannando in gioventù una donna: la fa innamorare, poi la rovina e le ruba il denaro, lasciandola disperata e nella miseria. Oltre a questo suo oscuro passato, non esita a fare causa al suo ottimo amministratore, Nicolaj Sergeic Ikhmeniev, semplicemente basandosi su dicerie prive di ogni fondamento, rovinandogli la vita e umiliandolo di proposito mostrandogli una finta benevolenza. Il principe si oppone con tutte le sue forze all'amore tra suo figlio e Natasha, ne combina l'unione con la figlia della sua amante e infine, conoscendo la debolezza d'animo di Aleksej, con l'inganno lo spinge ad abbandonare la povera convivente. In un suo incontro faccia a faccia con Vanja, egli si rivela come persona estremamente malvagia; è un gran calcolatore, ma il male non lo fa soltanto per interesse, lui si diverte a rovinare le persone, a schiacciarle e distruggerle.
Non manca poi nell'opera l'immagine della nobiltà decaduta, rappresentata da Anna Andrejevna. Lei mantiene i modi e la mentalità da nobildonna, ma finisce trascinata in una condizione di disperazione e rovina dalla fuga della figlia e dalle vicende giudiziarie del marito.

Leggere Dostoevskij equivale a un viaggio nelle profondità dell'uomo e a un soggiorno nei posti più poveri e disperati della società. Questo romanzo però, nonostante in gran carico di dolore e sofferenza che porta, lascia alla fine un messaggio positivo; nella stanza buia e fredda del cuore ogni tanto un raggio di sole riesce a entrare.

Francesco Abate 

domenica 15 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Sì tosto come l'ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutto non si volse
prima ch'un'altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene, in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch'e' refuse.
Non appena san Tommaso termina il suo discorso, la ghirlanda di anime riprende la sua danza e, prima ancora di riuscire a compiere un giro intero, viene accerchiata da un altro circolo di anime che danzano e cantano allo stesso ritmo (a moto a moto e a canto a canto). Tanto soave è il canto di questi beati da essere superiore a quello delle muse e delle sirene (per altri critici, nostre serene sta semplicemente a indicare le donne amate) descritte dai poeti; il Paradiso supera ogni capacità espressiva umana, così come la luce diretta è più intensa del suo riflesso in uno specchio. La visione delle due ghirlande di anime, una interna e una esterna, ricorda al poeta la formazione di due arcobaleni tra le nubi, due archi di colori formati da Iride, ancella di Giunone, che con la loro doppiezza ricordano l'eco, cioè il parlar di quella vaga ch'amor consunse come sol vapori. Nei versi in cui accenna all'eco, Dante fa riferimento al mito della ninfa Eco, la quale si consumò d'amore per Narciso e fu trasformata dagli dèi in una roccia in grado di rifrangere le parole altrui; abile è il gioco del poeta che prima ci descrive l'arcobaleno facendo riferimento alla figura mitologica di Iride e poi, comparando il mostrarsi di un doppio arcobaleno all'eco di una voce, si allaccia a un'altra figura mitologica. La visione degli arcobaleni ricorda alla gente il patto che Dio fece con Noè subito dopo il diluvio universale, quando promise che non avrebbe mai più allagato il mondo. Le due ghirlande di anime, una interna e una esterna, rassomiglianti ai due arcobaleni, si muovono all'unisono ("Come si volgon per tenera nube / due archi paralleli e concolori, / quando Iunone a sua ancella iube, / nascendo di quel d'entro di quel di fori, / a guisa del parlar di quella vaga / ch'amor consunse come sol vapori; / e fanno qui la gente esser presaga, / per lo patto che Dio con Noè puose, / del mondo che già mai più non s'allaga; / così di quelle sempiterne rose / volgiensi circa noi le due ghirlande, / e sì l'estrema a l'intima rispuose").
I due cerchi di anime interrompono insieme la danza, con una sincronia paragonabile a quella degli occhi che si chiudono e si riaprono all'unisono, e un'anima di quelle appena arrivate parla, così che Dante si gira verso la sua luce così come l'ago della bussola si gira per puntare verso la stella polare. A parlare è san Bonaventura, che in vita fu frate francescano. Egli dice che l'amore divino, che ha reso la sua anima così splendente, lo spinge a parlare di san Domenico, poiché del suo san Francesco già si è parlato così bene; è giusto infatti che la loro gloria splenda insieme, perché insieme combatterono per la Chiesa. Racconta san Bonaventura che l'esercito di Cristo, che tanto costò riarmare (riferimento al sacrificio di Gesù), si muoveva incerto dietro le insegne, perciò l'imperatore che sempre regna (Dio) decise di fornirgli due campioni (san Francesco e san Domenico), non perché il popolo lo meritasse, ma semplicemente per grazia; in virtù dell'esempio dei due campioni il popolo si ravvide ("L'essercito di Cristo, che sì caro / costò a riarmar, dietro a la 'nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro, / quando lo 'mperador che sempre regna / provide a la milizia, ch'era in forse, / per sola grazia, non per esser degna; / e come è detto, a sua sposa soccorse / con due campioni, al cui fare, al cui dire / lo popol disviato si raccorse"). 
Fatta la premessa sui due campioni della Chiesa, molto simile a quella fatta da san Tommaso nel canto precedente, san Bonaventura parla della nascita di san Domenico. In quella parte d'Europa dove soffia lo zefiro e fa nascere le nuove fronde che la rinverdiscono, poco lontano dalle coste bagnate dall'Oceano, dietro alle quali nel solstizio d'estate il sole tramonta, sorge la fortunata città di Calaruega, la quale è protetta dallo stemma in cui il leone sta da un lato sotto al castello e da un lato sopra (in che soggiace il leone e soggioga). Lo stemma in questione è quello di Alfonso VIII, che governava all'epoca sulla Castiglia, e viene descritto così nei particolari perché accentua il carattere guerriero della regione e si unisce ai riferimenti di guerra fatti fino a ora dal santo, delineando con maggior nitidezza la figura di san Domenico come un santo combattente. Tra le mura di Calaruega nacque quell'amante della fede cristiana, eccezionale combattente della santità, che fu benigno agli amici e rigido con i nemici; non appena fu creato, la sua anima fu riempita di virtù da Dio al punto da donare una profezia a sua madre che lo portava in grembo. La leggenda narra che la madre di san Domenico sognò di dare alla luce un cane bianco e nero che portava in bocca una fiaccola ardente, con la quale dava fuoco al mondo. 
San Bonaventura passa ora al racconto della vita di san Domenico. Alla fonte battesimale si compirono le nozze tra san Domenico e la fede; promisero di donarsi vicendevolmente la salvezza e la sua madrina sognò il mirabile frutto che sarebbe nato da lui e dai suoi eredi, i domenicani (si narra che la madrina sognò il fanciullo con una stella in fronte). Perché nel nome apparisse ciò che lui era destinato a essere, i genitori furono ispirati dal cielo a chiamarlo Domenico (il possessivo di Dominus, quindi "del Signore"), e san Bonaventura parla di lui come di colui che fu eletto da Cristo per essere uno dei più ardenti operai della vigna ("E perché fosse qual era in costrutto, / quinci si mosse spirito a nomarlo / del possessivo di cui era tutto: / Domenico fu detto: e io ne parlo / sì come de l'agricola che Cristo / elesse a l'orto suo per aiutarlo"). Sembrò subito inviato e discepolo di Cristo, infatti il primo amore che il lui si manifestò fu per l'umiltà, il primo consiglio dato da Cristo. Spesso la sua nutrice lo trovò sveglio a pregare a terra, come se dicesse di essere venuto per questo. Suo padre a ragione si chiamò Felice, perché dovette essere felice di avere un figlio così, e lo stesso valse per sua madre Giovanna, nome che significa "Grazia di Dio". Divenne molto dotto, ma non lo fece per i beni terreni, per cui ci si affanna dietro i manuali di diritto canonico dell'Ostiense (Enrico di Susa) e del Taddeo (Taddeo Pepoli), bensì per amore della scienza divina (verace manna); si mise a costruire una difesa per quella vigna che subito secca se il vignaiolo non la cura. Al papa, la cui corruzione non è da attribuire alla carica, ma alla persona che non resta fedele al magistero, non chiese dispense dal dare parte delle rendite, non la prima carica vacante, non le decime del patrimonio che appartengono ai poveri; chiese di poter combattere per la fede, il seme da cui nacquero i ventiquattro beati lì presenti, contro le eresie. Con gli argomenti dottrinali e con intenzione precisa, e con l'autorità di papa Innocenzo III, partì per la sua missione con la forza di un torrente che scende dall'alto della montagna; con il suo vigore colpì gli sterpi eretici con maggior forza laddove opponevano più resistenza (il riferimento è alla setta degli Albigesi in Provenza). Da lui nacquero poi altri ruscelli, i vari ordini a lui collegati, che irrigano il campo della Chiesa e nutrono i suoi alberelli (i fedeli).
Terminato il racconto della vita di san Domenico, san Bonaventura fa un discorso sulla corruzione del suo ordine, quello dei francescani. Se questa che ha appena descritto fu una ruota del carro della Santa Chiesa, grazie alla quale questa vinse la sua guerra civile (gli eretici erano cristiani, quindi appartenenti allo stesso regno), Dante dovrebbe già conoscere l'eccellenza dell'altra ruota, di cui gli ha parlato prima san Tommaso (le due ruote sono san Domenico e san Francesco). Ma il solco che tracciò la parte superiore della ruota è ora trascurato, tanto che c'è muffa dove prima era la gromma; in pratica l'esempio di san Francesco viene spesso dimenticato, così c'è la corruzione dove prima c'era la santità (la gromma è il deposito che il buon vino lascia nelle botti, che è utile per favorirne la conservazione). L'ordine francescano (la sua famiglia), che inizialmente ha seguito le orme del santo, ora ha deviato talmente tanto il cammino che chi sta davanti spinge chi sta dietro, e presto si raccoglieranno i frutti di questa corruzione (la mala coltura), quando il loglio (pianta infestante e velenosa) si lamenterà per non essere stato messo nel granaio ("La sua famiglia, che si mosse dritta / coi piedi a le sue orme, è tanto volta, / che quel dinanzi a quel di retro gitta; / e tosto si vedrà de la ricolta / de la mala coltura, quando il loglio / si lagnerà che l'arca li sia tolta"). Chi osserva a uno a uno i frati dell'ordine (chi cercasse a foglio a foglio) troverebbe ancora qualcuno che è ciò che dovrebbe essere, ma ciò non vale per Ubertino da Casale né per Matteo Bentivegna d'Acquasparta, perché uno estremizza la regola (la coarta), l'altro non la rispetta. 
Fatto il discorso, l'anima si presenta e indica poi gli altri che sono con lui. Lui è Bonaventura da Bagnoregio, che nelle cariche ricoperte antepose sempre i beni spirituali a quelli terreni. Ci sono nella seconda corona Accarino della Rocca e Agostino d'Assisi, che furono tra i primi seguaci di san Francesco e divennero amici di Dio cingendosi col capestro (la rozza corda di cui si cingevano i francescani). Ci sono poi Ugo da San Vittore, Pietro Mangiadore e Pietro di Giuliano da Lisbona, che sulla Terra risplende nei dodici libretti che ha scritto; ci sono il profeta Natan (vissuto ai tempi di re David), il metropolita Giovanni Crisostomo, Anselmo d'Aosta e quell'Elio Donato che scrisse un trattato sulla grammatica (la prim' arte). C'è Rabano Mauro, e accanto a Bonaventura c'è l'abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato del dono della profezia. Spiega infine che è stato il discorso di san Tommaso a spingere le anime lì e lui a lodare san Domenico.

Il canto XII segue una struttura parallela al canto che lo precede. Nel canto XI abbiamo sentito un domenicano lodare san Francesco e criticare il proprio ordine, in questo c'è un francescano che tesse le lodi di san Domenico e giudica con altrettanta severità i propri confratelli. Questo reciproco scambio è da vedere prima di tutto come il riconoscimento di un'alleanza, entrambi gli ordini combattono per lo stesso sovrano (Dio) e per questo tra loro non ci sono rivalità, nemmeno fanno paragoni tra loro. La scelta di gestire così i due canti io credo sia stata anche motivata dalla necessità di non far apparire presuntuosi i beati: se un domenicano avesse lodato il suo patriarca e così un francescano, sarebbe apparso quasi come se ognuno volesse tirare acqua al proprio mulino. Con questa scelta invece il poeta toglie ogni sospetto di presunzione o vanità, ognuno esalta l'altro e vede il male nel proprio, così come è giusto in un regno dove l'umiltà è la prima regola.
Da sottolineare sono anche le differenze circa le descrizioni dei due santi. San Francesco ha sposato la povertà e nella descrizione di san Tommaso ne viene esaltata l'umiltà; san Domenico invece si è unito con la fede e nei versi che ho descritto prevalgono le metafore che lo presentano alla stregua di un guerriero, ciò a sottolineare la sua lotta contro le eresie.

Francesco Abate 

domenica 8 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Il canto XI si apre con un'invettiva dell'autore contro i mortali, i cui pensieri (sillogismi) si concentrano sugli interessi terreni, mentre l'uomo dovrebbe dedicarsi alle cose celesti. Mentre lui è nel cielo con Beatrice, avvolto dalle anime beate, sulla Terra c'è chi si perde correndo dietro a cavilli giuridici (dietro a iura), chi si dedica a una vocazione sacerdotale finta, chi si perde dietro i testi medici d'Ippocrate (amforismi), chi regna con la forza delle armi o con gli inganni (sofismi), chi ruba e chi si dedica al piacere dei sensi. Si apre perciò il canto con dei versi che tracciano la netta differenza che c'è tra la vita terrena e quella beata; il poeta con le sue parole ci disegna lo squallore che regna sulla Terra e poi vi contrappone l'immagine di due anime libere da quella lordura che stanno immerse tra i beati.
Le anime che stanno in cerchio si fermano, proprio nel momento in cui la luce che prima ha parlato a Dante, cioè san Tommaso, è tornata nel punto dov'era. La luce di san Tommaso si fa più pura (più mera) e il santo ricomincia a parlare. Egli esordisce ricordando che vede nella luce di Dio la nuova incertezza di Dante, il quale vuole che gli spieghi più chiaramente il discorso che ha fatto prima ("Tu dubbi, e hai voler che si ricerna / in sì aperta e 'n sì distesa lingua / lo dicer mio, ch'al tuo sentir si sterna"). I dubbi di Dante riguardano due passaggi del discorso fatto prima da Tommaso, precisamente quello riguardo i beni materiali accumulati dai domenicani e quello circa la saggezza di Salomone, tanto grande da non avere eguali. La Provvidenza, che governa l'universo attraverso il disegno di Dio, il quale è insondabile anche per il più vigoroso intelletto umano, creò due principi da affiancare alla Chiesa affinché la guidassero verso il suo amato (Cristo), che sposò attraverso il sacrificio della Passione (col sangue benedetto). Uno dei principi ardeva d'amore come i serafini, l'altro splendeva di saggezza come i cherubini; non vi sono eguali sulla Terra per poter fare un paragone con i due principi, quindi san Tommaso usa direttamente le gerarchie angeliche ("L'un fu tutto serafico in ardore; / l'altro per sapienza in terra fue / di cherubinica luce uno splendore"). Tommaso afferma che parlerà solo del primo (san Francesco d'Assisi), tanto lodandone uno si lodano automaticamente tutti e due, perché entrambi operarono per lo stesso fine (l'altro è san Domenico). A questo punto, san Tommaso indica il luogo dove nacque san Francesco: tra il piccolo fiume Topino e il Chiascio, che sorge dal colle Iugino, detto del beato Ubaldo, digrada il colle Subasio, da cui Perugia riceve i venti freddi e caldi, e sul cui retro ci sono Nocera Umbra e Gualdo Tadino, che subiscono l'oppressione di Perugia e perciò piangono per grave giogo; là dove il colle diventa meno ripido, nacque un sole, così come l'astro talvolta nasce sul fiume Gange; non si dica che san Francesco nacque ad Assisi, ammonisce san Tommaso, piuttosto si chiami Oriente il luogo dove nacque (questa affermazione accentua la metafora del sole, sottolineando l'importanza del santo per la cristianità). 
Finito di descrivere il luogo in cui nacque, san Tommaso passa al racconto della vita di san Francesco. Era ancora poco lontano dall'anno della sua nascita (per gli storici aveva ventiquattro anni quando decise di dedicarsi a Dio) e già cominciò a far sentire alla Terra il conforto della sua grande virtù; affrontò l'ira del padre per unirsi a quella donna, la Povertà, a cui nessuno riserva una festosa accoglienza, anzi, a cui tutti sfuggono, e a lei si unì davanti al tribunale del vescovo di Assisi; da quel momento, la amò ogni giorno di più ("Non era ancor molto lontan da l'orto, / ch'el cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto; / ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra; / e dinanzi a la sua spiritual corte / et coram patre le si fece unito; / poscia di dì in dì l'amò più forte"). La Povertà, privata millecento anni prima del suo sposo, cioè di Cristo, per tutto quel tempo era stata sola e disprezzata, senza nessuno che la prendesse in moglie; non valse a nulla la storia di Amiclate il quale, essendo un pescatore poverissimo, non si era spaventato in presenza di Cesare, non potendo essere privato di nulla (l'episodio è narrato nella Pharsalia di Lucano); nemmeno servì la sua fedeltà e la sua fierezza, che la portarono a salire sulla croce di Cristo quando la stessa Maria si era fermata ai suoi piedi. Raccontato ciò, Tommaso dice chiaramente a Dante che sta parlando di san Francesco e della Povertà, infatti fino a questo momento non aveva accennato alle loro identità.
Tommaso continua il racconto. La concordia e la letizia tra il Santo e la Povertà suscitarono pensieri santi negli osservatori, tanto che Bernardo di Quintavalle lasciò ogni cosa e seguì san Francesco, correndogli dietro eppure sentendosi troppo lento tanto era il fervore che l'aveva invaso ("La lor concordia e ' lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi; / tanto che 'l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo"). Con un'esclamazione, san Tommaso loda l'ignota ricchezza che produce altri beni, cioè quella spirituale. Dopo Bernardo, Egidio e Silvestro si spogliarono dei beni e seguirono Francesco, tanto erano attratti dalla sua sposa. Andò a Roma come padre di una famiglia spirituale e maestro, non ebbe vergogna né d'essere figlio di un ricco mercante (Pietro Bernardone) né di suscitare meraviglia con la sua condizione di povertà; si rivolse regalmente al papa Innocenzo III e gli illustrò la regola del suo ordine, ricevendo dal pontefice la prima approvazione. Siccome la povera gente che seguiva Francesco aumentò, papa Onorio III, ispirato dallo Spirito Santo, con una Bolla diede la seconda approvazione alla regola dell'ordine. Per sete di martirio, san Francesco predicò la parola di Dio al Sultano Malek al Kamil e, trovata la gente del luogo non disposta alla conversione, per non restare inoperoso tornò in Italia tra i suoi fedeli, e ricevette la terza approvazione direttamente da Cristo sul monte Verna, dove ebbe le stimmate che portò per due anni, cioè fino alla morte. Quando poi a Dio piacque chiamarlo a sé per dargli il meritato premio, san Francesco raccomandò ai suoi discepoli, come fossero suoi eredi, di continuare ad amare la Povertà; dal suo grembo poi la sua anima salì in Paradiso e lui per il suo corpo non volle altra tomba che la nuda terra.
Finito di raccontare la storia di san Francesco, san Tommaso spiega a Dante che l'altro principe può ben aver dedotto chi sia (si tratta di san Domenico); egli ha avuto il merito di tenere la rotta della nave (la Chiesa) mentre navigava il altro mare; per chi segue i suoi comandi è possibile solo caricare buona merce, ma i suoi seguaci (i domenicani) sono diventati così ghiotti da disperdersi per le selve, e le pecore più lontane tornano all'ovile sempre prive del latte, quindi questi frati avidi perdono i doni spirituali per concentrarsi sull'accumulo di beni. Pochi sono i domenicani rimasti fedeli alla regola del loro pastore, così pochi che ci vuole poco panno per vestirli tutti. 
San Tommaso conclude il discorso dicendo che, se Dante è stato attento, e se richiama alla mente ciò che ha detto prima, gli sarà chiaro perché prima ha detto che i domenicani si arricchiscono di beni spirituali a patto di non farsi distrarre da quelli terreni ("Or se le mie parole non son fioche / e se la tua audienza è stata attenta, / se ciò ch'è detto a la mente revoche, / in parte fia la tua voglia contenta, / perché vedrai la pianta onde si scheggia, / e vedrà' il corregger che argomenta, / U' ben s'impingua, se non si vaneggia"). 

Il canto XI è tutto incentrato sulla figura di san Francesco d'Assisi e sul suo voto di povertà. A parlarci di lui è il domenicano san Tommaso, quindi un discepolo dell'altro principe della cristianità lo celebra, quasi come se fosse il riconoscimento di un leggendario compagno d'armi.
Se la storia di san Francesco è un grande elogio all'abbandono dei beni materiali, ne abbiamo una prova già nei versi con cui il canto si apre, in cui Dante disegna la netta distinzione tra la grettezza del mondo dei vivi e la magnificenza del Paradiso, in questo canto diventa anche lo spunto per una critica alla corruzione che infesta l'ordine domenicano. San Tommaso, con la grande modestia che è propria di chi è privo di rancori e gelosie, elogia i pregi dell'altro ordine e segnala i difetti del proprio, indicando la Povertà dei francescani come antidoto alla corruzione morale e all'avidità di alcuni domenicani.

Francesco Abate 
   

mercoledì 4 settembre 2019

PRESENTATO A BATTIPAGLIA (SA) "I PROTETTORI DI LIBRI"

Ieri sera ho presentato il mio ultimo romanzo, I Protettori di Libri, alla Biblioteca comunale di Battipaglia (SA).
La presentazione si è svolta nell'ambito dei Martedì Letterari, organizzati dall'Associazione Rinascita Commercianti Battipaglia.
Ringrazio il pubblico che ha partecipato e l'associazione che mi ha concesso questo spazio.
Ecco qualche foto dell'evento.




Grazie mille.

Francesco Abate

lunedì 2 settembre 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "LA STORIA" DI ELSA MORANTE

Considerato uno dei principali capolavori della letteratura del Novecento, La Storia è sicuramente il romanzo più importante della scrittrice italiana Elsa Morante.
Si tratta di una storia che ci mostra la vita nel momento più buio della storia d'Italia, gli anni tra il 1941 e il 1947, quindi nel pieno della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra.

La Storia ci racconta le vicende di una donna, Ida Ramundo. Vedova, è madre di un figlio, chiamato affettuosamente Ninnuzzu. Un giorno Ida viene stuprata da un soldato tedesco ubriaco e da questo rapporto non voluto nasce il piccolo Giuseppe, che verrà chiamato da tutti Useppe.
Il romanzo ci mostra la vita della povera Ida, semplice maestra elementare costretta ad arrangiarsi per tirare su i due figli. Vive isolata, preoccupata per l'irrequietezza adolescenziale di Ninnuzzu, affascinato dal lavaggio del cervello operato dai fascisti sui giovani dell'epoca, e terrorizzata dallo scandalo che potrebbe suscitare la scoperta del figlio nato al di fuori di un'unione ufficiale. Inizialmente nasconde il piccolo Useppe allo stesso Ninnuzzu, poi però le sue preoccupazioni si rivelano infondate quando il ragazzo scopre casualmente il pargolo e lo accoglie con gioia, senza preoccuparsi delle circostanze del suo concepimento.
Sebbene proceda tra mille difficoltà e tanti stenti, la vita della famiglia scorre piuttosto tranquilla. La situazione precipita quando anche Roma diventa bersaglio dei bombardamenti e Ida, come tanti, perde la casa e si trova costretta in un alloggio comune.
Il romanzo procede narrando le vicende di questa famiglia tanto comune quanto sfortunata attraverso la guerra, che a tratti irrompe violentemente nella loro vita come accade col bombardamento della città, le inquietudini dell'immediato dopoguerra e i problemi di salute dei protagonisti.

Come tutti i grandi romanzi, La Storia divise nettamente la critica all'epoca della sua uscita. Per molti la Morante fu colpevole di voler speculare sul dolore e spargere pessimismo, altri invece videro nella sua opera il tentativo di consolare un dolore acuto con delle lacrime edificanti.
Da lettore, io credo che entrambe le critiche siano ingiuste. Nel romanzo di Elsa Morante io ho trovato solo il tentativo di analizzare un periodo storico complesso e doloroso non dal punto di vista dell'ideologia politica, come si faceva tanto negli anni Settanta (il romanzo fu pubblicato nel 1974), ma da quello umano. L'autrice ha preso delle persone normali, una mamma e due bambini, li ha calati nella realtà storica e sociale degli anni Quaranta e ha mostrato quello che è successo. Le lacrime suscitate dal libro non sono colpa della Morante, sono una precisa responsabilità di chi causò tutto quel dolore a della povera gente che voleva solo vivere la propria vita.
I protagonisti sono delle persone normali come ce ne potevano essere milioni all'epoca della vicenda. Ida è una mamma piena di ansie e paure, cresciuta con una mentalità un po' provinciale, che della storia e della politica non si interessa ed è preoccupata solo di assicurare una sopravvivenza dignitosa ai propri figli. Ninnuzzu è un giovane adolescente pieno della voglia di vivere tipica della sua età, passionale e volubile, incline alle passioni, ama la vita e fa di tutto per viverla appieno, finendo per fare anche delle scelte pericolose e sbagliate. Useppe è un bambino che vive in un mondo sospeso a metà tra il sogno e la realtà, come capita a tutti i bimbi piccoli, ed è fortemente influenzato da gravi problemi di salute.

La capacità principale di questo libro è quella di mostrare come la storia irrompa prepotentemente nella vita delle persone semplici e butti tutto sottosopra, senza riguardi e senza pietà. 
Ida è una semplice maestra, a differenza del padre si disinteressa completamente della politica, tira a campare e basta. Non manifesta fede politica, quindi non ha colpe né dirette né indirette circa la dittatura, la guerra e tutto ciò che ne consegue. Nonostante ciò, la politica, la storia e la guerra irrompono nella sua esistenza, le danno a forza un figlio, le distruggono la casa, le fanno vivere con terrore le sue lontane origini ebraiche, le rubano il lavoro e alla fine le impongono l'atroce dolore del lutto.
Anche Ninnuzzu è una vittima della storia. Un adolescente come tanti, viene sottoposto al lavaggio del cervello che i fascisti facevano ai giovani, così in lui nasce la voglia insana di combattere in prima linea per il regime. Le circostanze lo portano poi a combattere coi partigiani contro il fascismo. Dopo la guerra, prende coscienza del suo essere pedina della storia e cerca di liberarsi, dichiarando apertamente che con la caduta del regime fascista sono cambiati solo i capi (che lui chiama Caporioni) e non la sostanza delle cose, decidendo di non voler combattere per nessun ideale, ma di voler solo vivere.

Oltre a mostrarci l'impatto della storia sulla povera gente, Elsa Morante con questo romanzo ci mostra uno scorcio della vita nel nostro paese, riuscendo così a svolgere anche una preziosa funzione divulgativa.
All'inizio di ogni capitolo, che copre un anno, la scrittrice racconta gli eventi mondiali inerenti la guerra e le varie rivoluzioni. Questo le permette di trascurare quest'aspetto nello sviluppo della vicenda dei protagonisti, ci fa conoscere il contesto storico in cui si muovono, ma allo stesso tempo ci ricorda che loro di tante cose a stento sentono dire, c'è molta differenza tra ciò che sanno e quello che effettivamente accade nel mondo. Giusto per fare un esempio, del massacro degli Ebrei Ida ha solo informazioni frammentarie derivanti da voci che circolano, la questione non viene assolutamente approfondita.
Ci sono poi, soprattutto nella parte iniziale, delle considerazioni dell'autrice sul fascismo e su Mussolini che inquadrano alla perfezione il personaggio e il suo impatto sulla storia d'Italia. Pagine che meritano di essere lette sia per il contenuto che per il modo in cui sono scritte.

Un personaggio molto importante di questo romanzo, sebbene non sia uno dei protagonisti, è Davide Segre.
L'importanza di Davide si manifesta sia attraverso le sue azioni, sia attraverso i ricordi del suo passato.
Grazie a Davide Segre, conosciamo la delusione che nel dopoguerra vissero i comunisti e gli anarchici che avevano visto nella lotta partigiana la tanto attesa rivoluzione. Finita la guerra lui, che aveva appunto creduto di fare la rivoluzione nel momento in cui aveva partecipato alla Resistenza, si accorge che la miseria della povera gente rimane inalterata anzi, è acuita dalle cicatrici lasciate dalla guerra e dalla lunga dittatura. La grande rinascita del proletariato non avviene e Segre va in crisi.
Davide, da sempre convinto anarchico, ha anche un passato come operaio. Ricordando questa sua parentesi lavorativa, scelta proprio per conoscere le condizioni della categoria che voleva difendere, lui che era di famiglia borghese, ci mostra senza filtri la condizione disumana degli operai nella prima metà del Novecento: così sfruttati e stanchi da non avere neanche la forza di pensare a una realtà diversa, ridotti alla condizione di larve che pensano solo alla sopravvivenza. 
L'ultima realtà che l'autrice ci rivela attraverso l'esistenza di Davide Segre, forse la più dura, è quella dell'uomo comune che ha combattuto una guerra. Imbruttito dalla violenza che lo circondava e dai lutti subiti, in guerra Davide Segre si era rivelato spietato; ricorda precisamente quando uccise un soldato tedesco ormai disarmato a calci in faccia, ne ricorda la disperazione e il pianto. Immersi in un contesto di violenza, si tende a diventare bestie, un po' per paura e un po' per disperazione; quando la guerra finisce e si torna alla normalità, quei ricordi tornano a lanciare delle accuse da cui non ci si discolpa facilmente. Davide ricorda quell'episodio e questo lo distrugge; qui vediamo il dramma di chi, costretto alla guerra, è spinto a disumanizzarsi, per poi pentirsene una volta tornato ai tempi di pace. 
La depressione causata dai sensi di colpa e dalle delusioni politiche portano Davide a cadere nel tunnel della droga.

Oltre che per le tematiche delicate e importanti, La Storia è secondo me un grande romanzo proprio per il modo in cui è scritto.
Leggere queste pagine di Elsa Morante è come sedersi di fronte all'autrice e sentirle raccontare con calma tutta la storia. Le opinioni politiche, quando ci sono, vengono espresse senza eccessi di retorica e i momenti drammatici, che nel romanzo non mancano, sono descritti senza eccessi di sentimentalismo. Nonostante ciò, ci sono delle pagine che ritengo magistrali; secondo me, la descrizione della morte di Giovannino in Russia, della sua stanchezza e delle sue allucinazioni, rappresenta forse il miglior pezzo di letteratura nella storia.
Alla luce di quanto ho detto sopra, credo che La Storia sia un romanzo che tutti nella vita debbano leggere almeno una volta.

Francesco Abate